A partire dagli anni ’90 del secolo scorso, la destrutturazione dei percorsi di partecipazione socio-politica nel contesto italiano si traduce anche in percorsi di partecipazione più orizzontali, dal basso (bottom up). In questo quadro si consolida il cosiddetto “Terzo settore”: il ruolo di terzietà rinvia alle differenze delle realtà che lo configurano rispetto al “primo settore” (di natura pubblica, centrato sugli attori politico-partitici) e al “secondo settore” (di natura privata, centrato sugli attori economici). Il “Terzo settore” promuove lo sviluppo della cultura della solidarietà, della sussidiarietà e dell’ non profit. Sviluppatosi in prima battuta su un’ associativa che include, appunto, le imprese non profit e le ONLUS – che non possono distribuire gli utili ai soci dovendo destinarli a programmi del proprio sviluppo e di utilità collettiva – esso è andato progressivamente incontro a un percorso di strutturazione e di formalizzazione. Esito di questo percorso, non privo di un vivace dibattito interno alle organizzazioni di Terzo settore, è il Codice del Terzo settore, che definisce “Enti del Terzo settore” le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, gli enti filantropici, le imprese sociali, incluse le cooperative sociali, le reti associative, le società di mutuo soccorso, le associazioni, riconosciute o non riconosciute, le fondazioni e gli altri enti di carattere privato diversi dalle società costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento, in via esclusiva o principale, di una o più attività di interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi, ed iscritti nel registro unico nazionale del Terzo settore. Sono soprattutto due, oggi, le aggettivazioni chiave che configurano l’operatività delle organizzazioni di Terzo settore. Esse sarebbero protagoniste sul piano civile e sociale, traducendo un agire economico sostanzialmente diverso da quello focalizzato sull’aspetto esclusivamente strumentale e profittevole. L’economia civile, in particolare, fa propri elementi fondanti come reciprocità, gratuità e fraternità, secondo un’impostazione per la quale le relazioni sociali si sviluppano e si consolidano secondo basi pre-contrattuali, su cui poi le stesse transazioni economiche si radicano in termini non meramente opportunistici. Zamagni e Bruni riprendono il termine “economia civile” dichiarandone l’attualità e precisando come essa sia stata ripresa nel dibattito scientifico quale categoria rilevante. Sottolineano soprattutto come le organizzazioni che operano secondo processi non esclusivamente tesi al profitto – e quelle di Terzo settore rientrano tra queste – consentano di dare risposta a problemi che nel corso del tempo si sono stratificati e faticano oggi a trovare una risposta secondo i canoni mainstream informati all’homo oeconomicus: tra questi, l’aumento delle disuguaglianze, l’assoluta deprivazione materiale di molte aree del pianeta, la ricorsività delle crisi finanziarie, i conflitti identitari e, di recente, i fenomeni pandemici e la ricomparsa di conflitti bellici (caratteristici del “secolo breve”) vicini ai conflitti europei. L’economia civile e gli attori che le sarebbero propri si differenzierebbero da una pura economia di mercato soprattutto per i seguenti elementi. Innanzitutto, essa persegue il bene comune, cercando di far coesistere i tre principi regolativi dell’ordine sociale: il principio dello scambio degli equivalenti di valore, fondato sul prezzo, che costituisce appunto un equivalente di valore. Il principio della redistribuzione, che garantendo ai soggetti di partecipare al sistema garantisce anche l’ del sistema stesso. Infine, il principio della reciprocità – distintivo dell’economia civile – secondo cui nelle relazioni tra soggetti quel che muove l’azione nei confronti di un altro non è la pretesa di ricompensa di un’azione, quanto piuttosto l’aspettativa che quell’azione sia ricambiata (in caso contrario, verrebbe meno la relazione stessa). In tal senso l’economia civile si farebbe latrice di beni cosiddetti “relazionali”, una sorta di esternalità positiva specifica delle organizzazioni della società civile. Proprio le esternalità sociali sarebbero il prodotto intenzionale di queste organizzazioni della società civile – tipicamente, quelle di Terzo settore – che sarebbero per questo foriere di . Sebbene – come dichiarato da Zamagni e Bruni – l’economia civile venga spesso confusa con il termine “economia sociale”, è indubbio che quest’ultima espressione sia fondamentale per dare conto non solo delle evoluzioni recenti che hanno riguardato il Terzo settore, ma anche delle prospettive che si aprono a livello internazionale (nella fattispecie, europeo). Il termine “economia sociale”, è quello utilizzato da Istat ed Euricse nel rapporto 2021 sull’economia sociale in Italia. Proprio nell’introduzione, i curatori precisano alcune questioni utili ai nostri fini. In primis, il fatto che a livello europeo il termine “economia sociale” è quello più utilizzato per dare conto di tre grandi famiglie di organizzazioni: le associazioni, le cooperative e le mutue (ma anche, più di recente, altre organizzazioni come le fondazioni e le imprese sociali). Le organizzazioni di economia sociale si caratterizzano per una mission che esclude o assegna un’importanza secondaria e strumentale alla generazione e distribuzione di utili a favore del perseguimento della soddisfazione del bisogno di una particolare categoria di soci (ad esempio, cooperative e associazioni mutualistiche) oppure dell’intera comunità (ad esempio, cooperative sociali o associazioni di volontariato). A supporto di questo orientamento opera il vincolo di legge o statutario di non distribuzione degli utili che prevede l’accantonamento in appositi fondi, generalmente non appropriabili dai soci nel caso di un avanzo di gestione, destinati di fatto al rafforzamento della solidità e della sostenibilità finanziaria dell’organizzazione. La strumentalità del capitale viene ulteriormente sancita dal funzionamento del processo decisionale che segue il principio democratico di “una testa, un voto” a conferma della natura prettamente partecipativa della governance. A ulteriore rafforzamento di quanto detto, nel documento in oggetto si precisa lo scarso utilizzo del concetto di “economia sociale” in Italia, laddove si è storicamente effettuata una distinzione (nel dibattito pubblico, nella ricerca e nell’attività legislativa) tra il mondo delle cooperative mutualistiche da una parte e i vari tipi di associazioni, cooperative sociali e imprese sociali, dall’altra. Proprio il Codice del Terzo settore ripreso in avvio ha consentito di unificare queste ultime componenti, identificandole trasversalmente come Terzo settore. Dato un tale, e necessario, presupposto definitorio, è possibile tratteggiare alcune caratteristiche delle organizzazioni di economia sociale così come previamente identificate. Tre quarti delle organizzazioni di economia sociale sono costituite in forma di associazione, con un peso delle cooperative che raggiunge il 15%. Per contro, il soggetto protagonista delle organizzazioni di economia sociale in termini di valore aggiunto è dato proprio dalle cooperative, che coprono il 60% del medesimo; anche osservando il bacino occupazionale dell’economia sociale, le cooperative impiegano oltre i tre quarti degli addetti. Quanto ai settori di riferimento delle organizzazioni di economia sociale, a prevalere sono le attività artistiche, sportive e di intrattenimento, seguite dalle organizzazioni attive nella sanità e nell’assistenza sociale. Sebbene i dati di riferimento siano aggiornati in misura diversa, queste sintetiche note consentono di inquadrare almeno il perimetro delle organizzazioni di economia sociale in Italia. Come anticipato, però, quello dell’economia sociale diviene un concetto sensibilizzante ancora più rilevante soprattutto per quanto concerne il quadro europeo. Di recente, la Commissione Europea si è resa protagonista di un Social Economy Action Plan rivolto a cooperative, società mutualistiche, associazioni, fondazioni e imprese sociali. Le aree d’intervento del Piano sono tre: businness environment (concernente il miglioramento di politiche e normative tese a favorire lo sviluppo dell’economia sociale); opportunities and building capacity (con specifico riferimento al fund raising); awareness and recognition, che pertiene alla promozione del riconoscimento sociale (anche sul piano simbolico) delle organizzazioni di economia sociale, con particolare attenzione alla fascia d’età giovanile. Dopo aver chiarito in via di prima approssimazione i confini del “Terzo settore”, è opportuno fare un passo in più declinando il ruolo specifico che esso può assumere nel presente e ancor più nel futuro del contesto italiano (e più ampiamente europeo), al di là delle brevi note riprese attingendo alle riflessioni sul ruolo dell’economia civile illustrato da Bruni e da Zamagni. Da questo punto di vista, è necessario passare da un orientamento di natura descrittiva e tassonomica a coordinate teoricamente più connotate da un punto di vista sociologico. Dettagliando quest’ultima macro-dimensione, sono due gli aspetti che vale la pena sottolineare, tra loro distinti (ancorché collegati). Il primo attiene al ruolo che le organizzazioni di Terzo settore possono agire come soggetti generatori di fiducia e, senza soluzione di continuità, di capitale sociale. Da questo punto di vista, esse paiono contribuire nei termini “ricostruttivi” di quel legame sociale eroso nell’ambito del cosiddetto processo di individualizzazione ben approfondito dagli studiosi della seconda modernità. Per questi ultimi, infatti, le società contemporanee si caratterizzano per alcuni elementi che le rendono molto diverse da quelle scaturite dalla prima fase della modernità. È necessario richiamarli per evidenziare meglio il ruolo potenzialmente “centripeto” del Terzo settore. Un primo ordine di elementi distintivi delle società secondo moderne (o di “modernità radicale”) è dato dal progressivo venir meno di efficaci attori collettivi di mediazione tra attori individuali e sistema sociale, come – tipicamente – i sindacati, i partiti; ma anche gli attori religiosi e quelli di natura statuale. In tal senso, le società contemporanee sarebbero contraddistinte da uno svuotamento dello spazio sociale “meso”, quello che interviene appunto tra le persone e il sistema sociale entro cui esse agiscono. Per usare una terminologia propria a Bauman, questi meccanismi di azione collettiva sarebbero “liquefatti”. L’esito di simile processo viene interpretato in termini critici e ambivalenti dai teorici della “seconda modernità”: per un verso – come evidenzia Beck – si aprono spazi di affrancamento individuale rispetto alle vecchie categorie identitarie primo-moderne (come quella di classe); per altro verso, tuttavia, questi spazi di azione soggettiva si scontrano con lo svuotamento della capacità effettiva di agency da parte del soggetto, che si trova di fronte a dinamiche sistemiche sempre più sguarnito di efficaci strumenti di intervento, che sarebbero tali solo se mediati in forma di azione collettiva (si pensi, in proposito, al ruolo dei movimenti). Per questa ragione, e qui interviene il secondo ordine di ragioni, l’individuo si trova di fronte alle difficoltà legate dal dover dare “soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche”, incorporando nelle proprie traiettorie biografiche il tentativo illusorio di affrontare i portati dei processi di crescente esclusione sociale (o “espulsione” per dirla con Sassen) concretizzatisi negli ultimi decenni. Di fronte a questi processi, il Terzo settore – proprio per le caratteristiche prima richiamate – diventerebbe una sorta di attore relazionale. Esplodendo quest’ultima annotazione, sarebbe cioè in grado di temperare la logica puramente strumentale di un certo agire economico, informato solo al profitto e al breve periodo e, per queste stesse ragioni, interverrebbe a mitigare il venire meno dell’efficacia delle politiche pubbliche di matrice statale, osservato tra la fine del secolo scorso e l’inizio del ventunesimo secolo. Sarebbe un produttore di coesione o, per dirla in termini più precisi, di “capitale sociale” basato sui beni relazionali. Nella riflessione sociologica, il capitale sociale è quel costrutto che più adeguatamente rende l’idea di come una società coesa sia una società in cui più salde e disponibili sono le relazioni tra i nodi che la compongono. Per questo, esso può assumere una curvatura micro-sociale, una meso-sociale e una macro-sociale. Il Terzo settore agirebbe generativamente soprattutto sul livello meso – potenziando le capacità di agency di soggetti deboli che sarebbero altrimenti esclusi dai processi espulsivi di mercato prima richiamati – e sul livello macro, aumentando i livelli non solo di fiducia inter-personale, ma anche di fiducia generalizzata. Da questa angolatura, il progressivo strutturarsi delle organizzazioni di Terzo settore può essere considerato come quella risposta (dal basso) che supporta le persone nella capacità di partecipare al proprio contesto di vita. Naturalmente, un simile livello “descrittivo” non tiene conto delle dinamiche di precarizzazione dei corsi di vita e, per questo, del ruolo sempre più arduo cui viene chiamato il Terzo settore, ma rende l’idea di come quel ruolo di terzietà richiamato in avvio trovi ragioni elettive proprio in concreti percorsi storici che sono venuti a configurarsi negli ultimi trent’anni. Il secondo aspetto sul quale il ruolo del Terzo settore è stato tematizzato con precisione ancora maggiore è quello delle politiche di contrasto alle disuguaglianze e di acquisita centralità nel sistema di welfare. Come noto, in proposito, i trent’anni gloriosi (così definiti) successivi al secondo conflitto mondiale sono quelli in cui più si è manifestata la capacità perequativa dello Stato sociale. Più nel dettaglio, proprio in quegli anni le società europee hanno messo le basi affinché i diritti sociali potessero diventare il sostrato necessario al godimento effettivo dei diritti civili e dei diritti politici, superando cioè lo iato tra la formale e la cittadinanza sostanziale. In quegli anni il sistema di welfare ha raggiunto la sua più compiuta articolazione. Già sul finire del secolo scorso, tuttavia, tale processo aveva manifestato le prime difficoltà, con una forte erosione delle capacità redistributive: l’appiattimento delle curve di crescita economica dei Paesi europei (di alcuni più di altri), la contrazione delle reti di supporto familiare che – in particolare nei Paesi del Sud-Europa – era stato ausiliario ai processi di risposta pubblica, un cambiamento culturale che rendeva sempre meno standardizzabile una prassi di risposta top-down nei confronti di bisogni sempre più complessi costituiscono una sorta di combinato disposto per il quale l’attore di elezione del “primo welfare” (lo Stato) tende a esaurire la propria capacità di risposta esclusiva ai bisogni sociali, siano essi stratificati o emergenti. Da questa angolatura, i soggetti di Terzo settore diventano l’architrave del cosiddetto “secondo welfare”, in cui gli interventi tradizionalmente appannaggio dello Stato sociale vengono fatti propri da una pluralità di attori che agiscono secondo una logica di rete, integrando soggetti pubblici e soggetti privati. Solo a titolo d’esempio di tali processi, possono essere ricordate due proposte che assegnano proprio agli attori del Terzo settore un ruolo chiave nelle articolazioni di “secondo welfare”. Una è quella del “welfare generativo”, cioè l’insieme “delle modalità di rigenerazione e rendimento delle risorse a disposizione del sistema di welfare. Secondo questa prospettiva, i destinatari degli interventi vanno responsabilizzati mediante “azioni a corrispettivo sociale”; azioni, cioè, che prevedano il coinvolgimento attivo e responsabilizzante del soggetto destinatario di interventi di sostegno. Secondo questa prospettiva, ciò consentirebbe di rafforzare i legami sociali, favorire le persone deboli e svantaggiate nella partecipazione alla vita sociale e “promuovere a vantaggio di tutti il patrimonio culturale e ambientale della comunità”, accrescendo il “capitale sociale locale e nazionale”. Ancora più evidente appare poi la proposta del cosiddetto “welfare responsabile”, mirato a superare la diade Stato-mercato e operando secondo una logica in cui ognuno dei principali attori del welfare (plurale per definizione) giunga a ripensare il proprio ruolo. Caratteristica di questa impostazione è l’idea per cui diversi attori possono ritenersi legittimamente coinvolti nel sistema di welfare, non attribuendo al pubblico una responsabilità esclusiva e nemmeno ipotizzando che le risorse del welfare debbano essere prevalentemente pubbliche; “tutti gli attori sociali sono chiamati a condividere la responsabilità e non c’è un attore preminente”. Visto lo spazio acquisito nel dibattito (soprattutto nazionale) da queste proposte, è opportuno soffermarsi sugli elementi virtuosi e su quelli critici di simili proposte, che toccano da vicino anche le attese – attuali e future – sugli attori del Terzo settore. Tra i punti di forza delle proposte appena richiamate c’è senza dubbio il fatto di aver preso atto della pluralizzazione intervenuta nel tempo sul piano dei soggetti attivi nel campo dell’ sociale (per quanto limitata possa essere una tale definizione), secondo una traduzione delle policies di contrasto alle disuguaglianze necessariamente poliarchica. Guardando alla declinazione degli interventi di contrasto alla marginalità e all’esclusione sociale, si tratta di una considerazione solidamente suffragata. Gli aspetti più critici, invece, concernono in particolare due fattori: la logica multi-attore implica non solo degli sforzi di coordinamento, ma anche una previa condivisione di questioni valoriali. In questa prospettiva, anche la governance appare più difficile se manca una condivisione di natura assiologica. Una seconda issue, che coinvolge anche gli attori del Terzo settore, attiene poi alla diversità degli impliciti culturali e organizzativi che attori diversi possono sottendere: da questa angolatura, target come quello degli utenti – per i soggetti del Terzo settore – o dei cittadini (per lo Stato) non possono essere automaticamente messi sullo stesso piano. A uno sguardo complessivo delle questioni in gioco, tuttavia, è evidente come quello del Terzo settore sia diventato ormai un soggetto costitutivo dei sistemi di welfare, a segnalare quella centralità che è stata già richiamata in precedenza. In merito, vale la pena richiamare un ultimo aspetto emerso di recente nel dibattito accademico e non. Esso riguarda la sostenibilità complessiva delle organizzazioni di Terzo settore. Da una parte, esse devono operare secondo i canoni che le hanno storicamente caratterizzate, ripresi in tema di economia civile e di economia sociale. Dall’altra parte, l’aumento delle disuguaglianze sociali e la crescente complessità delle situazioni di su cui sono tradizionalmente intervenute le organizzazioni di Terzo settore paiono rendere più ardua la conciliazione della dimensione inclusiva e di quella prettamente economica. A esempio di ciò si può considerare l’insieme dei soggetti della cooperazione sociale attivi nell’inclusione lavorativa. A fronte di un sempre meno disposto a lavorare su tempi lunghi e su dimensioni diverse dalla competenza in entrata, proporre dei percorsi di progressivo inserimento occupazionale per soggetti in condizione di variabile svantaggio, come quelli di cui si occupa spesso la cooperazione sociale di tipo B, può diventare meno lineare rispetto a quello che succedeva in passato.
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