Ricostruiamo l’evoluzione della dall’Unità d’Italia in quattro periodi; durante la monarchia: l’età liberale e il ventennio fascista; dall’istituzione della Repubblica: la gestione ministeriale e quella regionale. Età Liberale (1861-1922). Nascita del sistema formativo nazionale. Una volta raggiunta l’Unità, sotto le insegne del Regno sabaudo, viene estesa a tutti i territori del Regno la c.d. Legge Casati (R.D. n. 3.725/59), approvata non dal Parlamento piemontese, ma solo dal Re, in forza dei pieni poteri che lo Statuto albertino gli concedeva in tempo di guerra (le truppe piemontesi erano impegnate nella seconda Guerra di Indipendenza). Il disegno complessivo della Legge Casati prevedeva, sotto le competenze del Ministero della Pubblica Istruzione (MPI): a) un’istruzione elementare (gestita dai Comuni) gratuita, articolata in due bienni, di cui il primo obbligatorio; b) un’istruzione secondaria classica di 8 anni, (gestita dallo Stato), unico percorso che dava accesso all’università; c) un’istruzione tecnica, articolata in scuola tecnica (gestita dalla Provincia) e istituto tecnico, (gestito dallo Stato). Nel 1860 viene creato il MAIC, Ministero dell’Agricoltura Industria e Commercio (R.D. n. 4192) a cui un successivo Decreto del 1861 (R.D. n. 347) affida le competenze sulle scuole professionali, preesistenti all’unificazione del Paese e non considerate dalla Legge Casati e gli istituti tecnici, traferite dal Ministero della Pubblica Istruzione. Veniva così creato nell’Italia unita un sistema formativo nazionale che si articolava su due sub sistemi: il primo a carattere culturale, il secondo a carattere professionale. Due subsistemi autonomi (facenti capo a Ministeri diversi: il Ministero della Pubblica Istruzione e il Ministero dell’Agricoltura Industria e Commercio), paralleli (non interagenti), ma non con pari dignità culturale, nel senso che con questi provvedimenti scuole classiche e tecniche finiscono per cristallizzarsi in categorie diverse, per formare, come, dirà il filosofo Ugo Spirito «[…] due specie di uomini, caratterizzate l’una dalla cultura, l’altra dalla tecnica», ma dove è evidente il primato del primo sul secondo, del sapere sul fare. Gli Istituti Tecnici. L’attribuzione degli Istituti Tecnici al Ministero dell’Agricoltura Industria e Commercio diede origine a discussioni e controversie, dove si contrapposero quanti ritenevano che il trasferimento rompesse l’unitarietà del sistema scolastico di Casati e quanti, invece, valutavano più corretta la loro collocazione nel MAIC, dove il contatto con le problematiche e le necessità del mondo del era più immediato. Il nodo di fondo era tra quanti ne chiedevano una fisionomia più liceale (di tipo scientifico-tecnologico) e quanti invece una più professionale (preparazione immediata al ). Nel dicembre del 1877 il MAIC fu soppresso e gli Istituti Tecnici furono ricondotti alle competenze del Ministero della Pubblica Istruzione (R.D. n. 4.220). E vi rimasero anche quando il MAIC, nell’aprile del 1878 fu ricostituito (R.D. n. 4.327). L’Istruzione Professionale. Le scuole non considerate dalla Legge Casati si erano venute costituendo negli stati preunitari, in epoche diverse, quasi per germinazione spontanea, cioè fuori da regolamentazioni dall’alto, su iniziativa di singoli cittadini, di associazioni private, di istituti di beneficenza, di ordini e congregazioni religiose, con percorsi formativi dissimili nei contenuti e nella durata, realizzate con risultati e livelli disuguali, ma tutte con lo scopo di fornire a giovani lavoratori (in prevalenza) i fondamentali elementi tecnologici e pratiche di un mestiere: tipografo, incisore, muratore, falegname, decoratore, fabbro, macchinista, commesso  Furono appunto queste scuole, che con varie specificazioni si chiamarono scuole d'arte e mestieri, di disegno applicato alla industria, operaie, commerciali, per arti decorative … che costituirono nella designazione comune le cosiddette "scuole professionali" e “Istruzione professionale” (I.P.) fu il nome dato a questa area formativa. E' difficile determinare, anche approssimativamente, una loro quantificazione, in quanto privi di una documentazione sistematica, dato il loro carattere spontaneistico e spesso privatistico. Queste scuole possono essere distinte in sussidiate dal Ministero dell’Agricoltura Industria e Commercio o sussidiate da soggetti locali. Nelle prime rientrano quelle scuole “alle quali il Ministero accorda un contributo annuo fisso che è iscritto nel bilancio nominativamente”. Si tratta di un contributo che assicura la continuità della scuola nel tempo e al quale vanno aggiunti contributi finanziari di altri soggetti che operano a livello locale: soggetti pubblici che amministrano un territorio (Provincia, Comune) o soggetti pubblici che svolgono funzioni di interesse generale a livello provinciale (Camera di Commercio) o comunale (Congregazione di carità), e soggetti privati (benefattori singoli o istituzioni benefiche, congregazioni religiose, banche ecc.). Quindi si tratta sempre di scuole finanziate da un consorzio: o pubblico (MAIC e altre amministrazioni e enti pubblici locali) o pubblico-privato (MAIC, soggetti pubblici locali e soggetti privati). All’interno delle scuole sovvenzionate dal Ministero dell’Agricoltura Industria e Commercio c’è una particolare categoria convenzionalmente chiamate scuole governative. Sono quelle: istituite con un R.D., governate da un Consiglio direttivo dove il Ministero dell’Agricoltura Industria e Commercio è presente con propri delegati, con un personale reclutato, normalmente, con concorsi pubblici e nelle quali si seguono programmi di didattici preventivamente autorizzati dallo stesso Ministero. Le Scuole dei soggetti locali, invece, sono quelle promosse, gestite e sussidiate finanziariamente da soggetti pubblici o privati locali, da soli o in Consorzio con altri soggetti pubblici e/o privati. Molte di queste scuole ricevono un contributo anche dal Ministero dell’Agricoltura Industria e Commercio, anche per più anni; si tratta, però di un sussidio eventuale ed occasionale, la cui entità, peraltro, può variare ogni anno. Il Consorzio non solo interviene finanziariamente ma esercita anche le funzioni di governo e di controllo amministrativo. Una particolare menzione meritano le scuole d’spirazione cattolica, promosse da figure carismatiche e la cui opera continua nel tempo grazie alle congregazioni da loro fondate in tempi precedente l’Unità d’Italia: i Padri Somaschi di S. Girolamo Emiliani (1531), i Pavoniani di S. Lodovico Pavoni (1831), gli Stimmatini di S. Gaspare Bertoni (inizi ‘800), i Fratelli delle scuole cristiane e gli Oratoriani, i Giuseppini di S. Leonardo Murialdo. Meritano una particolare menzione per la quantità delle loro scuole diffuse su tutto il territorio nazionale, i Salesiani di San Giovanni Bosco e le Salesiane di San Giovanni Bosco e Santa Maria Mazzarello. Le scuole hanno un livello di penetrazione diffusa e capillare, anche se con un tipo di presenza territorialmente disomogeneo. (Ghergo, 2020, p. 191, pp. 443-455). Negli ultimi decenni dell’800 si espandono con una gradualità lenta ma costante, più al Nord che nel Meridione. L’utenza di queste scuole è rappresentata in prevalenza da giovani, ma anche da adulti occupati; è questo un fenomeno nuovo perché rompe la secolare sequenza temporale in cui era organizzata l’esistenza umana per cui solo la pubertà e la giovinezza erano l’età della . Le Scuole Superiori. Nel primo ventennio dell’Italia unita furono istituite le Scuole Superiori, che in un disegno gerarchico ideale rappresentavano il livello apicale di una piramide in cui, alla base, c’erano le scuole professionali e, a livello intermedio, gli Istituti Tecnici (almeno finché rimasero al Ministero dell’Agricoltura Industria e Commercio, che cercò di aumentarne la dimensione professionalizzante). La prima di queste fu il Regio Museo Industriale di Torino (1862). Seguirono la Scuola superiore del Commercio di Venezia (1868), la Scuola superiore di nautica di Genova (1870), la Regia Scuola superiore di agricoltura di Milano (1870), la Regia Scuola Superiore di Portici (1872), la Regia Scuola superiore per le miniere di zolfo di Palermo. La Normativa. Durante tutto il periodo liberale non viene mai approvata una legge organica sull’istruzione professionale governata dal Ministero dell’Agricoltura Industria e Commercio, ma solo leggi che separatamente regolamentano le scuole agricole (nel 1885) e quelle del settore manifatturiero (nel 1912). L’apertura di nuove scuole o il riordinamento di quelle esistenti vengono realizzate con Regi Decreti, cioè atti aventi forza di legge adottati dal Consiglio dei Ministri (non dal Parlamento) e promulgati dal Re. Nel 1885 la Legge n. 3.141 prevede per l’agricoltura due tipologie di scuole agricole: quelle pratiche (almeno una in ogni provincia) e quelle speciali (per coltivazioni specialistiche, articolate in corso inferiore e superiore), entrambe con convitto e sostenute finanziariamente per 3/5 dallo Stato e 2/5 da Provincia, Comune e altri “corpi morali” sia per la loro istituzione che per il loro mantenimento. I programmi didattici devono essere approvati dal Ministero dell’Agricoltura Industria e Commercio. Limiti del provvedimento sono l’eccessivo centralismo e l’adozione di disposizioni per il personale riprese dal sistema della Pubblica Istruzione; merito aver aperto la partecipazione anche all’associazionismo agricolo. Per il settore manifatturiero (in precedenza regolamentato “solo” da due Circolari dei Ministri Cairoli (1879) e Miceli (1870) e per il settore commerciale si provvede con Legge n. 44/1907 e relativo Regolamento (parzialmente modificate con Legge n. 854/1912 e suo Regolamento). Le scuole sono distinte in categorie e gradi: industriali (inferiori, medie e superiori) artistico-industriali (di disegno, di disegno e modellazione, superiori), professionali femminili (“per lavori donneschi”, per lavorazioni varie). Anche le scuole commerciali vennero distinte in 1°, 2° e 3° grado. Queste scuole, che beneficiavano di contributi finanziari annui dal Ministero dell’Agricoltura Industria e Commercio, a differenza di quelle dipendenti dal Ministero della Pubblica Istruzione avevano personalità giuridica e autonomia amministrativa ed erano governati da un Consiglio, in cui erano presenti rappresentanti dei soggetti “finanziatori”. Il Ministero dell’Agricoltura Industria e Commercio poteva concedere sussidi a scuole professionali istituite e mantenute da enti morali e da sodalizi. Durante il periodo bellico il D.L. n. 896/1917 stabilisce che gli orfanatrofi dei giovani dovevano provvedere alla loro istruzione industriale, e che nei Comuni con industrie importanti il Ministero dell’Agricoltura Industria e Commercio istituisse corsi di perfezionamento (200 ore annue) per giovani operai “occupati” (con il concorso di aziende ed enti locali). Il Ventennio Fascista La riforma Gentile e il riordinamento dell’I.P. del Ministero dell’Economia. Gentile eleva l’obbligo d’istruzione a 14 anni: dopo 5 anni di elementari, per chi non frequentava il ginnasio, c’erano 3 anni di scuola complementare, che sostituisce la scuola tecnica di Casati. Nel 1923 il Ministero dell’Agricoltura Industria e Commercio diventa Ministero dell’Economia Nazionale (ME) e provvede ad un riordinamento dell’Istruzione Professionale per giovani sotto o sopra l’età dell’obbligo scolastico. Per i giovani under 14 che devono entrare nel del settore industriale interviene il R.D. 3123/23, di quello commerciale la Legge n. 473/1925, mentre di quello agricolo la Legge n. 3214/23. Per il settore industriale sono previste 4 tipi di scuola: a) scuole professionali o di avviamento, (3 anni dopo la IV elementare); b) scuole industriali o di (3 o 4 anni, nelle città e nei principali centri industriali; rilasciavano diplomi di operai qualificati); c) laboratori scuola (2 anni con prevalenza di insegnamenti operativi); d) istituti industriali (5 anni, nei centri più industrializzati e finalizzati alla formazione del middle management aziendale; dopo il primo anno comune il quadriennio si articolava in specializzazioni settoriali: meccaniche, chimiche, tessili, edili). Il riordinamento per il terziario e i servizi, prevede una scuola commerciale (durata 2 anni) e un istituto commerciale (4 anni). Per il settore agricolo si eleva in scuole agrarie medie quasi tutte le scuole pratiche e i corsi superiori delle scuole speciali; le altre vennero mutate in scuole pratiche consorziali. I giovani sopra l’età dell’obbligo potevano frequentare opportunità formative definite extrascolastiche: scuole di tirocinio industriale ad orario ridotto (il percorso era di 3/5 anni) o, in alternativa, corsi per maestranze. Per quanti non frequentassero o per i datori che impedivano la partecipazione a questa ulteriore opportunità (almeno per un minimo di 200 ore l’anno) erano previste ammende. Questi corsi potevano essere promossi da enti. Istituti, sindacati, organizzazioni economiche e di cultura (R.D. n. 1185/1922). Passaggio dell’I.P. per giovani al MPI. Dal 1929 l’Istruzione Professionale per giovani sotto i 14 anni viene trasferita dal Ministero dell’Economia al MPI (che assume il nome di Ministero dell’) e che provvede a fonderla, talora con faticosi artifici tecnici, con l’istruzione tecnica di sua competenza (Leggi nn. 8/29, 1379/30, 490/32). Quindi l’istruzione tecnico-professionale diventa un canale accanto all’istruzione umanistica dell’unico sistema educativo italiano. Ma, se da una parte, l’ex I.P., ormai fusa con quella tecnica, guadagna in prestigio, senz’altro ci perde in specificità e in autonomia. Infatti, il trasferimento, voluto solo per ragioni politiche (maggiore controllo sull’educazione in senso “fascista” dei giovani allievi) determina uno snaturamento dell’istruzione tecnico-professionale. Viene, infatti, mortificata la sua funzione di preparazione al lavoro a favore di quella di completamento degli studi; inoltre, il Governo e il controllo centralistico fanno perdere il contatto con il territorio. Mentre tutta la Istruzione Professionale pubblica era ormai diventata statale, nel 1929, tutta l’area “libera”, cioè quella realizzata da istituzioni ed enti privati a scopo di lucro, viene posta sotto il controllo dei Consorzi provinciali per l’istruzione tecnica (C.P.I.T.), per poi essere trasferita, nel 1938 (R.D.L. 928) all’E.N.I.M. (Ente nazionale istruzione media), che dipendeva dal Ministero dell’Educazione. Riordinamento I.P. extrascolastica. Nel 1938 (R.D. n. 1380) viene ri-disciplinata l’area dell’Istruzione Professionale per inoccupati, disoccupati e occupati alla quale avrebbero provveduto le Confederazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori direttamente o mediante appositi enti. Nascono ora l’INFAPLI (Istituto Nazionale Fascista Addestramento e Perfezionamento Lavoratori Industria) e l’ENFALC (Ente Nazionale Fascista Addestramento Lavoratori del Commercio). La gestione dell’Addestramento Professionale da parte del Ministero del Lavoro (1947-1972) La Legge n. 264/47.Questa normativa, che si inserisce nel clima di grande depressione economica e sociale del dopoguerra, regolamenta l’avviamento al lavoro e l’assistenza ai disoccupati. Nel Capo IV parla di Addestramento Professionale (A.P.), cercando di dare soluzioni ai problemi di una massa di reduci, profughi e sinistrati, priva di ogni preparazione professionale o con una professionalità obsoleta, nella urgente necessità di procurarsi una qualsiasi occupazione in Italia o all'estero. Per le esigenze di questi soggetti, valutati in alcuni milioni, la legge propone tre tipologie formative: a) corsi di riqualificazione per occupati; b) cantieri-scuola (per disoccupati di lunga durata e formazione per soggetti a rischio di esclusione; c) corsi per disoccupati. La Legge n. 264 affida la programmazione, il finanziamento e il controllo di queste attività al Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale (MLPS). L’Addestramento professionale per giovani. Ma già dopo qualche anno si aprono scenari socioeconomici diversi: il Paese passa dalla fase di ricostruzione a quello dello sviluppo e di conseguenza la Formazione Professionale non può considerare solo la qualificazione o riqualificazione di adulti, ma anche e soprattutto la qualificazione di giovani: manodopera precocemente avviata al lavoro, sprovvista non solo di educazione e cultura tecnologica ma addirittura con una formazione di base molto precaria. A questo enorme fabbisogno i governi risposero con due offerte formative per giovani, una, gli Istituti professionali di Stato (IPS) di competenza del Ministero della Pubblica Istruzione e una, l’Addestramento Professionale di pertinenza del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale. Gli Istituti professionali di Stato erano dotati di personalità giuridica e di autonomia amministrativa e governati da un consiglio di amministrazione e sottoposti alla vigilanza amministrativa ministeriale. L’Addestramento Professionale per giovani invece nasce con la Legge n. 456/1951 che rende disponibili i finanziamenti previsti dalla Legge n. 264/49 al segmento giovanile e getta le basi di un sistema di “prima Formazione” che progressivamente si consoliderà fino a diventare, per almeno tre decenni, la tipologia di Formazione Professionale prevalente. Si tratta di una qualificazione per ruoli e livelli gerarchico-professionali bassi e di carattere mansionistico, prevalentemente orientata all’acquisizione di “destrezza operativo-manuale”. Il sistema di Addestramento Professionale. verrà implementato e consolidato attraverso una precaria strumentazione normativa: alcune “leggine” per normare aspetti specifici, ma soprattutto le circolari emanate dal Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale. Saranno queste che definiranno gli aspetti istituzionali procedurali e funzionali dell’Addestramento Professionale. Dal punto di vista giuridico il Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale gode di una potestà di governo ampia, che gli deriva dalla sua qualità di organo finanziatore delle attività formative. Il percorso programmatorio si svolge su due piani: uno locale (gli Uffici provinciale del Lavoro raccolgono e selezionano le proposte di attività avanzate da parte di enti pubblici e privati), e uno nazionale (il Ministero decide le attività da finanziare). In merito ai soggetti abilitati a proporre e realizzare interventi formativi la normativa sceglie la formula del “pluralismo”, cioè di utilizzare, accanto a strutture pubbliche, anche quelle appartenenti a soggetti diversi e diversamente connotati culturalmente. Soluzione vantaggiosa sotto il profilo economico (lo Stato non è costretto a istituire ovunque sue strutture e “sovvenziona” - non finanzia - quelle degli enti gestori); opportuna sotto il profilo istituzionale e culturale (si dà spazio di espressione alla società civile e a soggetti presenti nei territori) e spesso sotto il profilo dell’efficienza (molti di questi enti operavano nel campo della formazione professionale dal secolo precedente). Pochi però i vincoli e i requisiti per poter beneficiare delle “sovvenzioni”. Si tenga presente, comunque, che ci troviamo in una fase “espansiva” del sistema, quando normalmente non si predilige la regolamentazione ma lo spontaneismo. Il fenomeno del pluralismo gestionale, sempre presente nella storia della Formazione Professionale conosce in questo periodo un’espansione consistente. Le tipologie di enti di formazione più rappresentate sono quelle d’ispirazione cristiana e del mondo sindacale, sia del versante dei lavoratori sia di quello delle imprese. Ma anche lo Stato è presente con tre enti a carattere nazionale: oltre ai due, per l’industria INAPLI e per il terziario ENALC, istituiti nel ventennio fascista si dà vita all’INIASA, per l’artigianato. Per realizzare gli interventi gli Enti si avvalgono di una rete di strutture stabilmente adibite ad attività formative, i Centri di Addestramento Professionale (CAP). Nel quinquennio 1956-61 le circolari a più riprese disegnano la tipologia dei percorsi formativi fino ad arrivare ad una formulazione standard: primo addestramento (I anno), qualificazione (II anno), specializzazione (III anno) e, in alcuni casi, perfezionamento (IV anno). Da notare che nella misura in cui l’Addestramento Professionale si consolida e si espande si acuisce la competizione con gli IPS: si contendono, infatti, la stessa utenza, utilizzando fonti di finanziamento pubbliche ma appoggiandosi all’iniziativa concorrenziale di dicasteri diversi. La competizione talora prende i toni della diatriba: ognuno dei due soggetti rivendica a sé il compito specifico di assicurare la “formazione professionale”, accentuando risapettivamente gli aspetti culturali-qualificativi o lavorativo-addestrativi che ne caratterizzano gli obiettivi preminenti e l’organizzazione . La gestione della Formazione Professionale da parte delle Regioni (Dal 1972) Trasferimento delle competenze alle Regioni. Il passaggio di consegne dal Ministero del Lavoro alle Regioni e Province Autonome, per rispettare l’art 117 della Costituzione che attribuiva alle Regioni le funzioni in materia di “istruzione artigiana e professionale” avviene con due provvedimenti emanati in tempi diversi (1972 e 1977). Il D.P.R n. 10/72 prevede il passaggio alle Regioni delle attività comprendenti : «[…] gestione dei corsi di qualificazione e riqualificazione; addestramento professionale degli artigiani; addestramento degli apprendisti e particolari specifiche forme di addestramento (istruzione artigiana e professionale negli istituti di prevenzione e pena, formazione professionale del personale sanitario ausiliario, qualificazione e riqualificazione degli invalidi civili e del lavoro); strutture degli enti pubblici INAPLI, ENALC e INIASA»”. Questi ultimi vengono soppressi e le strutture e il personale vengono trasferiti alle Regioni. Il D.P.R. chiude il dibattito, svoltosi negli anni precedenti, se nella locuzione costituzionale “istruzione artigiana e professionale” fossero compresi anche gli Istituti Professionali di Stato. Il D.P.R opta per l’interpretazione riduttiva che fa coincidere “l’istruzione artigiana e professionale” con l’area extra-scolastica della formazione professionale e così sanziona la dicotomia e il parallelismo tra le due filiere formative. Il D.P.R n. 616/77 definisce la «[…] FP servizio pubblico o dell’attività privata destinata alla qualificazione perfezionamento, riqualificazione e professionale dei lavoratori subordinati e autonomi (nessuna categoria esclusa), purchè non diretta al conseguimento di un titolo di studio o diploma di istruzione secondaria superiore, universitaria o post- universitaria». Il Decreto circoscrive con chiarezza l’“istruzione artigiana e professionale”, distinguendola con un criterio formale netto e risolutivo dall’istruzione scolastica strettamente intesa: è infatti quella che non rilascia titoli di studio. L’istruzione professionale e artigiana, nonostante questi limiti, è assai vasta: riguarda, infatti la formazione «[…] per qualsiasi attività professionale e per qualsiasi finalità, compresa la formazione continua, permanente, ricorrente e quella conseguente alla riconversione di attività produttive». Gli anni 70: Il passaggio dall’Addestramento alla Formazione, la Legge quadro. L’uso del termine “formazione” soppianta definitivamente quello di “addestramento”. Il cambio lessicale sta ad indicare il passaggio da una prospettiva che considerava solo le abilità operative ad una visione che tiene presente tutte le componenti della persona. Il cambio del nome attesta, quindi, un cambiamento culturale, anzi i termini addestramento e formazione professionale saranno intesi come antitetici, cioè come modelli ed approcci formativi alternativi e storicamente collocabili in fasi diverse. Il periodo precedente l’emanazione della Legge quadro sulla Formazione Professionale n. 845/1978 è caratterizzato dal dibattito politico e dalla nascita di una ricerca sistematica sulla Formazione Professionale. Questa può essere fatta iniziare con la nascita dell’Istituto per lo sviluppo e la formazione dei lavoratori (ISFOL, D.P.R. n. 10/72), ente pubblico di ricerca ed assistenza tecnica che dà vita ad una letteratura scientifica, che orienterà fortemente la stesura della Legge. Il dibattito, invece, prevalentemente era incentrato sui problemi gestionali del settore e vedeva contrapposti quanti sostenevano solo una gestione pubblica e quanti invece sostenevano una gestione “pluralista”. Dietro la discussione c’erano la difesa o il contrasto alla presenza degli enti di formazione. Il fatto che molti di loro fossero d’ispirazione cristiana era un motivo in più di opposizione per l’area più laicista dello schieramento politico. Ma le diverse posizioni nascevano anche da visioni culturali antitetiche. Per il primo schieramento, che si muove nell’ambito di una cultura “statalista”, i servizi di pubblica utilità devono essere realizzati solo da soggetti pubblici; mentre per il secondo schieramento, che si rifà al principio di “sussidiarietà”, devono rispondere a obiettivi fissati da soggetti pubblici, ma è opportuno che siano realizzati anche da soggetti privati, espressione della società (di qui il termine “privato sociale”). La Legge n. 845/78 rappresenta una pietra miliare nella storia della Formazione Professionale, nonostante che sia stata abbondantemente inattuata. Dall’Unità d’Italia non era mai stata emanata una legge organica, cioè una legge che regolamentasse il “sistema” in tutti i suoi aspetti. Tutte le altre norme che si sono occupate della Formazione Professionale erano all’interno di provvedimenti che trattavano anche altre materie (come la Legge n. 264/49), o toccavano o toccheranno solo alcuni aspetti (come la Legge n. 1146/67 Riconoscimento dell’attestato ai fini contrattuali o la Legge n. 40/87 Norme per la copertura delle spese generali di amministrazione degli enti privati gestori di attività formative). Ma la importanza della Legge n. 845/78 non sta soltanto in questo “primato”, ma anche e soprattutto nel fatto che disegna un modello di sistema di Formazione Professionale molto diverso da quello trasferito alle Regioni dal MLPS. Infatti, una lettura “culturale” della legge ci consegna queste innovazioni: a) la formazione professionale è uno strumento della politica attiva del lavoro, chiamata ad un ruolo di compensazione quantitativa e tipologica della domanda e dell’offerta; b) la pianificazione delle attività deve passare da una procedura “per indicazioni” di attività formative, fornite dai soggetti gestionali ad una “per programmazione”, elaborata dal soggetto pubblico (la Regione), sulla base dei dati offerti da strutture tecniche di rilevazione (osservatori sul mercato del lavoro) e nell’ambito degli obiettivi socioeconomici ritenuti prioritari; c) le attività sono realizzate direttamente dalla mano pubblica e da soggetti terzi per il cui finanziamento pubblico vengono specificati vincoli e condizioni; d) la Regione ha il potere di stabilire gli indirizzi della programmazione didattica e di aggiornarli in relazione a fasce di mansioni e di funzioni professionali omogenee; conformare detti indirizzi a criteri di brevità ed essenzialità (non più di 4 cicli di 600 ore ognuno); adottare formule modulari ed esperienze di alternanza studio-lavoro; rispettare i criteri di polivalenza, di continuità e di organicità, adattando i programmi alle esigenze locali; e) la formazione professionale deve coprire tutto l’arco dei bisogni occupazionali, sia per giovani che devono entrare nel mercato del lavoro sia per adulti occupati e disoccupati. Gli anni ‘80: I “sistemi regionali” e “l’adultizzazione delle utenze”. La Legge n. 845 viene definita “Legge quadro” perché contiene principi generali e indicazioni fondamentali, sulla base delle quali le Regioni possono elaborare norme attuative di maggiore dettaglio. Questa impostazione normativa ha fatto sì che progressivamente, la Formazione Professionale assumesse connotazioni anche molto diverse da Regione a Regione, talora ingiustificate (parametri finanziari anche molto diseguali, denominazioni e durate diverse dei corsi per indicare percorsi che portano a qualifiche analoghe ecc.). Questa dinamica di differenziazione subisce negli anni ‘80 un’accelerazione tale che è più opportuno parlare di sistemi che di sistema formativo regionale. Sotto un profilo organizzativo-istituzionale va rilevato che le Regioni non sono l’unico soggetto di governo della Formazione Professionale. Infatti, la maggior parte di loro adottano l’istituto della delega: prima, prevalentemente affidata a Comuni e Consorzi di Comuni e, successivamente, alle Province. Il modello più adottato prevede le funzioni di regia (programmazione pluriennale, indirizzo e regolamentazione) alla Regione, mentre quelle attuative e gestionali alle Province. La Formazione Professionale inizialmente impegnata nei primi tre decenni del dopoguerra solo nella prima qualificazione giovanile si rende progressivamente disponibile, per rispondere alle mutate esigenze del mercato del lavoro, a provvedere ai bisogni formativi di altre utenze. Nei primi anni ‘80, quando matura la consapevolezza che il principale fattore produttivo è rappresentato dalla conoscenza e dall’intelligenza sistematica la Formazione Professionale mette in campo la formazione di II livello (interventi per soggetti scolasticamente qualificati, diplomati e laureati). Nella seconda metà del decennio, quando l’analisi della situazione economico-sociale mette l’accento sulle sacche consistenti di nuove povertà e su categorie di persone che rischiano l’esclusione dalla vita lavorativa, la Formazione Professionale mette in campo iniziative per le cosiddette “fasce deboli”, in particolare le donne e i disoccupati di lunga durata. L’attenzione per una nuova utenza non si traduce, però, in una sostituzione dei nuovi target rispetto a quelli serviti precedentemente. Nessuna utenza viene ignorata o eliminata, ma qualcuna ridimensionata (almeno in valori proporzionali). Il risultato finale di questa evoluzione, da una parte, è la costituzione di un insieme di opportunità formative ricorrenti lungo tutto l’arco della vita, dall’altro una configurazione “più adulta” della Formazione Professionale. Gli anni ’90: L’apporto della UE. La Legge Treu. Nel 1994 l’UE ha approvato i quadri comunitari di sostegno per gli obiettivi 1, 2, 3, 4,e 5B del FSE ed i Programmi operativi delle iniziative comunitarie “Occupazione”, “Adapt”, “Leonardo da Vinci” : l’insieme delle decisioni assunte in tali atti costituisce un riferimento necessario per il nostro Paese a tal punto da configurarsi sostanzialmente come il quadro programmatorio da cui si fanno derivare le più importanti scelte di carattere contenutistico e procedurale che connotano un sistema formativo regionale. Tale situazione di dipendenza della Formazione Professionale italiana dalla UE è dovuta a motivazioni di ordine tecnico-finanziario. Le Regioni, infatti, per poter aumentare il volume delle iniziative e diversificarne le tipologie, in misura crescente utilizzano le loro risorse - accanto a quelle messe a disposizione dal Fondo di rotazione - come “sponda” pubblica per poter utilizzare il cofinanziamento della Comunità; cofinanziamento concesso però, subordinatamente al rispetto di vincoli programmatici e procedurali. Ma se dalla fase di programmazione FSE dell’88 a quella del ‘93 si passa dai 2/3 a circa i 9/10 di cofinanziamenti, e se le risorse regionali sono utilizzate come “sponda” al cofinanziamento di tutte le tipologie di offerta formativa previste dalla UE, la formazione programmata e realizzata con il contributo del FSE non è più aggiuntiva rispetto a quella erogata con le risorse regionali ma sostanzialmente si identifica con essa ; in tal modo, il condizionamento della formazione regionale da parte del FSE investe tutto il sistema nei suoi processi e nei suoi prodotti. Per questo il rapporto del nostro Paese con la UE si può connotare come “dipendente”, anche se il processo programmatorio è partecipato e condiviso. Dipendente, ma anche provvidenziale. Non si può, infatti, non riconoscere che i nostri Sistemi di formazione regionali abbiano imparato molto dall’Europa, soprattutto dai Programmi (oltre quelli EUROTECNET, FORCE, LEONARDO, SOCRATES) e dalle Iniziative (EUROFORM, HORIZON, NOW, YOUTHSTART) comunitarie. In particolare le acquisizioni più importanti sono state: mettere al centro degli interventi non più un prodotto standardizzato (il “corso”) ma l’utenza, portatrice di una pluralità di bisogni che possono essere soddisfatti con una pluralità di strategie e strumenti (orientamento, tutoring e consulenza, prodotti e software multimediali,) e adottare la valutazione come dimensione trasversale, che va dall’intervento (prima, durante e dopo la sua realizzazione), alla struttura che l’ha progettato e realizzato e il sistema di governo che l’ha programmato e finanziato. La Legge n. 196/1997 Norme in materia di promozione dell'occupazione, detta Riforma Treu tratta la Formazione Professionale in un articolo (17) che detta “principi e criteri generali” per l’adozione di successive “norme di natura regolamentare”. La riforma Treu non rappresenta la revisione della Legge n. 845 ma si propone come la prima fase di un più generale, ampio processo di riforma. Le preoccupazioni della Legge n. 196/97 riguardano il target occupato (adulto o giovane apprendista) e quindi, sotto il profilo delle finalità accentua la funzione strumentale della formazione nei confronti delle politiche del lavoro, sotto il profilo dei rapporti e delle procedure privilegia le forzi sociali e la logica concertativa, sotto il profilo dell’organizzazione dei percorsi prevede solo quelli brevi, modulari flessibili e certificabili. In questa prospettiva il sistema gestionale ereditato dalla precedente storia cinquantennale è in larga misura da smobilitare, trasformare (vedi modello agenziale) ristrutturare, e rinnovare con presenze nuove (scuola e organismi della concertazione) per rispondere a quello che sempre più ha assunto le caratteristiche di un “mercato”. Non c’è posto nella Legge Treu per la formazione iniziale perché c’è solo posto per la formazione in servizio. La stagione delle grandi riforme ordinamentali (dal 1999). È il periodo nel quale la legislazione riconosce alla Formazione Professionale un ruolo, prima per realizzare l’obbligo di formazione dei giovani e poi quello d’istruzione. L’extra-scuola, come veniva quasi “spregiativamente” chiamata, però, non si dissolve nel sistema della pubblica istruzione, come era accaduto nel fascismo, ma mantiene la sua “fisionomia” e opera con pari dignità, da sola o in interazione con la scuola. Una prima iniziativa legislativa (Legge n. 9/1999, Ministro Berlinguer) innalzava l’obbligo di istruzione da 8 a 10 anni, mentre una seconda (Legge n. 144/1999, art. 68, Ministro Berlinguer) introduceva l’obbligo formativo fino al compimento del 18° anno di età, assolvibile in percorsi anche integrati di istruzione e formazione nel sistema di istruzione scolastica, nel sistema della formazione regionale, nell’esercizio dell’apprendistato. La Legge n. 53/03, (Ministro Moratti) successivamente, ha introdotto in forma sperimentale i percorsi triennali di Istruzione e Formazione Professionale (IEFP), destinati ai giovani di età compresa tra i 14 e i 17 anni, che portano al conseguimento di una qualifica professionale riconosciuta a livello nazionale e corrispondente almeno al secondo livello europeo. L’elevamento dell’obbligo di istruzione a 16 anni (Legge n. 296/2006; e D.M. n. 139/2007; Ministro Fioroni) abolisce questa opportunità, ma ne autorizza la prosecuzione fino alla messa a regime del nuovo ordinamento. A regime, inoltre, i CFP accreditati dal Ministero della Pubblica Istruzione avrebbero potuto realizzare percorsi e progetti per prevenire e contrastare la dispersione e favorire il successo nell’assolvimento dell’obbligo. I percorsi e progetti dovevano, in ogni caso, rispettare gli obiettivi di apprendimento specificati nel Regolamento ministeriale del 22/8/2007. Un successivo provvedimento, la Legge n. 133/2008 (Ministro Gelmini), ha previsto l’assolvimento dell’obbligo di istruzione anche nei percorsi sperimentali triennali IEFP, in coerenza della “equivalenza formativa” di tutti i percorsi del secondo ciclo. Allo stato attuale i giovani sono tenuti ad assolvere il diritto-dovere all’istruzione e alla formazione almeno fino al conseguimento di una qualifica professionale entro il 18° anno di età, titolo professionalizzante che si consegue presso le “istituzioni formative” accreditate dalle Regioni, nel rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni definiti dal D.lgs. n. 226/05. Tale opportunità si colloca all’interno del secondo ciclo che, oggi, risulta composto dal (sotto)sistema dell’Istruzione Secondaria Superiore (Licei, Istituti Tecnici e Istituti Professionali) e dal (sotto)sistema dell’IEFP, (di competenza delle Regioni). In questa maniera i giovani possono assolvere l’obbligo di istruzione fino al 16° anno di età e il diritto-dovere all’istruzione e alla formazione fino al 18° anno di età. Una volta conseguita la “qualifica professionale”, possono, nelle Regioni che lo hanno previsto, frequentare un quarto anno, per conseguire un diploma professionale. Bibliografia Relazione del ministro Pepoli sopra gli istituti tecnici, le scuole di arti e mestieri, le scuole di nautica, le scuole delle miniere e le scuole agrarie. Tipografia della Camera dei deputati eredi Botta, Torino, 1862. MAIC, Annuario del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, Roma, Tipografia nazionale di G. BERTERO E C., 1907. CASTELLI G., L’istruzione professionale in Italia, Vallardi, Milano, 1915. CASTELLI G., L’Italia giovane avviata alle carriere agrarie, industriali, commerciali, Ed. Barbera Firenze, 1914. GHERGO F., Storia della Formazione Professionale in Italia, Gli anni 1860-1879, volume IV, CNOS-FAP, Roma, 2020. GHERGO F., Storia della Formazione Professionale in Italia, Gli anni 1880-1899, volume IV, CNOS-FAP, Roma, 2022. MINISTERO DELL’EDUCAZIONE NAZIONALE, L’istruzione Industriale in Italia, L’Universale Tipografia Poliglotta, Roma, 1930. PECORELLI C. Le Scuole Industriali e il loro ordinamento. I vantaggi di una carriera professionale, Ed. Costantino Pecorelli, Roma, 1925. GHERGO F., Storia della Formazione Professionale in Italia, Gli anni 1947-1997. Dal dopoguerra agli anni ’70, vol. 1, CNOS-FAP, Roma, 2009. GHERGO F., Storia della Formazione Professionale in Italia, Gli anni ‘80, vol. 2, CNOS-FAP, Roma, 2011. GHERGO F., Storia della Formazione Professionale in Italia, 1947-1997, Gli anni ‘90, vol. 3, CNOS-FAP, Roma, 2013. TONELLI A., L’Istruzione tecnica e professionale di Stato nelle strutture e nei Programmi da Casati ai giorni nostri, Milano, 1964. D’AMICO N., Storia della formazione professionale in Italia, FrancoAngeli, Milano, 2013. 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