Il concetto di inclusione ha due accezioni, entrambe molto importanti per i sistemi educativi: la prima, riguarda l’area della , o comunque il più ampio scenario della personalizzazione degli interventi educativi nei contesti di istruzione e ; la seconda, riguarda il costrutto di Qualità della Vita, e il ruolo che l’inclusione esercita nei confronti del benessere complessivo della persona. Per quanto riguarda la prima accezione, è bene fare riferimento ad un documento di carattere internazionale, l’Index for Inclusion. In esso finalmente il termine inclusione si svincola dal tradizionale significato di integrazione, superandolo in uno scenario educativo decisamente più ricco ed efficace. Infatti, a partire dalla Legge n. 517/77 le tradizionali strategie di presa in carico della persona con disabilità nel sistema scolastico italiano sono riconducibili al concetto di integrazione, intesa come inserimento dell’alunno in aula per tutta la durata e per le medesime attività di tutti gli altri membri di pari età del gruppo classe. È innegabile il merito storico che il valore dell’integrazione ha avuto in Italia a partire dagli anni Settanta, facendo cessare una volta per tutte pratiche di segregazione e di disimpegno nei confronti degli alunni con disabilità, tenuti a margine del normale fluire dell’ scolastica. Tuttavia, l’integrazione scolastica sembra poter essere ricondotta ad una mentalità clinica, assoggettata alla tradizionale dinamica: sei malato (sindrome certificabile), dunque hai diritto a risorse aggiuntive, allo scopo di riuscire a stare dove stanno gli altri, facendo le stesse cose che fanno gli altri. Se è così, l’idea guida dell’integrazione non è in realtà la personalizzazione, intesa come intervento educativo pianificato in base alle difficoltà specifiche dell’allievo, ma la standardizzazione, ovvero la riconduzione agli standard. O perlomeno, se di personalizzazione si tratta, essa assume connotati deboli: si tratta di progettare itinerari diversi per raggiungere le stesse mete. Il diritto della persona con disabilità, infatti, sarebbe: o quello di attingere, seppur per vie e con strumenti diversi, allo stesso patrimonio di saperi e competenze degli altri alunni, mediante la stampella dell’insegnante di sostegno, che è chiamato a farsi protesi verso apprendimenti il più possibile simili a quelli previsti dal curricolo standard; oppure di essere dispensato da alcuni apprendimenti, in nome delle sue specifiche difficoltà. Come afferma l’Index for Inclusion, “il paradigma a cui fa implicitamente riferimento l’idea di integrazione è quello assimilazionista, fondato sull’adattamento dell’alunno disabile a un’organizzazione scolastica che è strutturata fondamentalmente in funzione di un allievo per così dire “standard”, e nel quale l’integrazione elabora strategie per portare l’alunno disabile a essere quanto più possibile simile agli altri”. In questo orizzonte, la qualità dell’integrazione va valutata in base alla capacità di colmare la distanza che separa il disabile dagli alunni normali. Ora, non solo è improbabile che questa distanza possa essere effettivamente colmata (con il carico di frustrazione che da ciò inevitabilmente deriva), ma soprattutto l’idea stessa che compito della persona con disabilità sia diventare il più possibile simile agli altri a dover essere criticata nei suoi fondamenti e messa in discussione. Diversamente, nell’intento di offrire più ampie opportunità alle persone con disabilità, l’ rischia di produrre una serie di interventi, a volte opportuni a volte insensati, senza però mai mettere effettivamente in discussione il paradigma della standardizzazione, che rischia di rimanere il modello di riferimento implicito e indiscusso. Dietro a questo scenario trapela il modello scolastico frontale, con le consuete dinamiche di universalità, riproduzione e democratizzazione dei saperi, che ben si adattano al costrutto di integrazione. L’Index for Inclusion apre uno scenario più ampio, che definisce appunto come inclusione, in luogo di integrazione. Il documento, infatti, delinea un paradigma di scuola inclusiva, in uno scenario educativo che accetta la differenza come regola, e non come eccezione. Ne deriva l’esigenza di una personalizzazione come principio forte, teso a riconoscere e a dare valore ai differenti profili di sviluppo, così come a dare attenzione in modo privilegiato alle difficoltà e ai disturbi di , nella logica valoriate così ben espressa da don Lorenzo Milani: “non è giusto far parti uguali tra disuguali”. La scuola inclusiva si definisce dunque come un ambiente estremamente flessibile, con un curricolo altrettanto flessibile, in grado di concepire e gestire percorsi differenti verso mete eterogenee e personalizzate, entro i limiti tracciati dalle competenze chiave di . Una volta fissate le competenze che, a diversi livelli, tutti devono raggiungere, l'educazione fa spazio alla differenza, trovando strategie e metodi per itinerari eterogenei e fornendo la cornice entro la quale tutti i bambini e gli studenti - a prescindere da , genere, linguaggio, origine etnica o culturale - possono essere ugualmente valorizzati, trattati con rispetto e forniti di uguali opportunità di successo e di crescita personale. È evidente che, come afferma ancora l’Index for Inclusion, l’inclusione così intesa non riguarda solo gli alunni tradizionalmente intesi come disabili, ma investe ogni forma di esclusione, che può avere origine da differenze culturali, etniche e socioeconomiche. È evidente che la scuola inclusiva richiede un cambiamento non semplicemente riducibile all’adozione di uno strumento o di un metodo di educazione speciale: occorre semplicemente creare le condizioni perché l’insegnante abbia tempo e opportunità per spendersi nella relazione, potendo così dare di più agli alunni e agli studenti con maggiori difficoltà. Per consentire una trasformazione del ruolo dell’insegnante e del formatore è l’istituzione scolastica nel complesso che deve rivedere la sua “grammatica organizzativa”, diminuendo il peso degli standard, aumentando l’istanza metodologia della personalizzazione, passando da aule a spazi educativi, da orari scolastici a tempi di , da classi a gruppi cooperativi, da risorse riproduttive (come i libri di testo) a materiali blended, ampi e diversificati. In un contesto così caratterizzato l’insegnante si libera in gran parte dall’attività frontale (inadeguata ai fini della personalizzazione), avendo la possibilità di osservare, affiancarsi, sostenere e intensificare, e tutto questo anche in assenza dell’insegnante di sostegno. Per quanto riguarda la seconda accezione, nei modelli di Qualità della Vita l’inclusione significa il possesso di ruoli significativi, in rapporto ad età, contesto e condizione sociale. Già il sistema ICIDH dell’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva definito l’handicap come una condizione di esclusione e di svantaggio sociale, che limita o impedisce l’adempimento di un ruolo sociale considerato normale in relazione all’età, al sesso, al contesto socioculturale della persona. In positivo, nella letteratura sul costrutto di Qualità della Vita uno dei domini è appunto quello dell’inclusione, elemento importante all’interno del più ampio fattore dell’Appartenenza e della Partecipazione Sociale. Il concetto di ruolo sociale, di derivazione sociologica, fa riferimento all’identità della persona, intesa appunto come un “pacchetto di ruoli” (roles-set). La transizione verso la vita adulta, infatti, consiste concretamente nell’acquisizione progressiva di una serie di condizioni esistenziali, che possono andare dal lavoro alla vita affettiva, dal far parte di un’associazione all’esercitare una funzione di volontariato. I ruoli strutturano la partecipazione, aumentando il cosiddetto : lavorare significa far parte di un’organizzazione, o comunque contribuire al bene pubblico, mentre instaurare un rapporto affettivo costituisce una delle forme più intense e significative di appartenenza. Così inteso, il concetto di inclusione ha una grande rilevanza per i sistemi di istruzione e formazione, particolarmente per il loro modo di concepire i curricoli, che devono essere intesi come un progressivo percorso verso la vita e il lavoro. Un curricolo inclusivo, dunque, non è un programma, inteso come una sommatoria di contenuti disciplinari, ma un insieme di competenze, culturali, professionali e socio-emotive, ritenute significative per una progressiva appartenenza al contesto sociale. Negli ultimi anni le autorità nazionali e internazionali hanno insistentemente sottolineato questo aspetto, con la pubblicazione di alcuni riferimenti per l’elaborazione dei curricoli, come ad esempio il Learning Compass dell’OECD o le competenze chiave dell’Unione Europea. Bibliografia Ainscow M. – T. Booth, L’Index per l’inclusione. Promuovere l’apprendimento e la partecipazione nella scuola, Erickson, Trento, 2008, http://www.eenet.org.uk/resources/docs/Index%20Italian.pdf (ultimo accesso dicembre 2024). Franchini R., Una crisi da non sprecare: l’educativa digitale prima, durante e dopo il Coronavirus, in Rassegna CNOS-FAP, 2/2020. OECD, Adapting Curriculum to Bridge Equity Gaps: Towards an Inclusive Curriculum, 2021, https://www.oecd-ilibrary.org/education/adapting-curriculum-to-bridge-equity-gaps_6b49e118-en (ultimo accesso dicembre 2024). Tyack, D. – W. Tobin, The “Grammar” of Schooling: Why Has it Been so Hard to Change? American Educational Research Journal, 31(3), 1994, pp. 453-479.
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