Argomento:
Data:
4 Dicembre 2009
Descrizione breve:
Rapporto sulla situazione sociale italiana.
Contenuto nascosto:
Il Rapporto Annuale 2009
43° Rapporto sulla situazione sociale del paese
Giunto alla quarantatreesima edizione, il Rapporto Censis affronta l'analisi e
l'interpretazione dei più significativi fenomeni socioeconomici del Paese. Le Considerazioni
generali introducono il Rapporto sottolineando come quella italiana sia una società replicante, che
di fronte alla crisi ha riproposto il tradizionale modello adattativo-reattivo. Al tempo stesso, si
segnalano quattro grandi processi di trasformazione: la complessa ristrutturazione del terziario, il
protagonismo del mondo delle imprese, il ritorno agli interessi agiti rispetto al primato delle
opinioni, il silenzioso sfarinamento del lungo ciclo dell'individualismo "fai da te".
Nella seconda parte, La società italiana al 2009, vengono affrontati i temi di maggiore
interesse emersi nel corso dell'anno: i soggetti privati sul filo della crisi, l'impoverimento della
dimensione pubblica, la centralità della variabile tempo. Nella terza e quarta parte si presentano le
analisi per settori: la formazione, il lavoro e la rappresentanza, il welfare e la sanità, il territorio e le
reti, i soggetti economici, i media e la comunicazione, il governo pubblico, la sicurezza e la
cittadinanza.
Schede:
1. Considerazioni generali
2. Le famiglie resistono alla crisi, rischi per il lavoro, dura ristrutturazione del terziario
3. Processi formativi
4. Lavoro, professionalità, rappresentanze
5. Il sistema di welfare
6. Territorio e reti
7. I soggetti economici dello sviluppo
8. Comunicazione e media
9. Governo pubblico
10. Sicurezza e cittadinanza
Dicembre 2009
1. Considerazioni generali
Siamo una società replicante
Viviamo in apnea, ma siamo sempre gli stessi.
Roma, 4 dicembre 2009
La società italiana è una società testardamente replicante
Quel «non saremo più come prima» che un anno fa dominava la psicologia collettiva è mutato in un
«siamo sempre gli stessi». Abbiamo resistito alla crisi riproponendo il tradizionale modello
adattativo-reattivo: non abbiamo esasperato il primato della finanza sull’economia reale, le banche
hanno mantenuto un forte aggancio al territorio, il sistema economico è caratterizzato da una
diffusissima e molecolare presenza di piccole aziende, il mercato del lavoro è elastico (si pensi al
sommerso) e protetto (si pensi al lavoro fisso e agli ammortizzatori sociali), le famiglie sono
patrimonializzate. La crisi ha finito per rallentare il processo di uscita dal puro adattamento
intravisto lo scorso anno, quando all’orizzonte si presentava quasi una «seconda metamorfosi»,
dopo quella degli anni fra il ’45 e il ’75. Sono però in corso alcuni processi di trasformazione.
La dura ristrutturazione del settore terziario
È la prima nella storia dell’Italia moderna. Lungo i tanti rivoli del confuso mondo terziario sono
confluiti nel tempo servizi alle imprese sovradimensionati rispetto alle esigenze, «qualcosisti» del
terziario avanzato, precari della Pubblica Amministrazione alla ricerca del posto fisso, assunzioni
nella scuola per risolvere la troppo drammatizzata disoccupazione intellettuale. Il rallentamento
dello sviluppo, dei consumi, delle disponibilità di spesa ha oggi ridotto quelle «cavalcate
espansive». Nel terziario si affermano meccanismi di selezione e razionalizzazione, con «una
concentrazione qualitativa della domanda che mette fuori gioco una parte consistente di una offerta
da sempre abituata ad una falsa facilità del mercato». E nel pulviscolo di piccole e piccolissime
imprese operanti nel commercio, nel turismo, nell’artigianato di servizio già si conta un rilevante
numero di «vittime».
Il protagonismo del mondo delle imprese
È poi in atto un ulteriore passo in avanti nel riconoscere al sistema d’impresa un ruolo di traino e
leadership complessiva della società. Il segmento più dinamico dell’imprenditoria italiana ha saputo
combinare le strategie di presenza sui mercati mondiali (delocalizzazione, logistica, concentrazione
sul momento distributivo, catene commerciali monobrand, privilegio del mercato del lusso e di alta
qualità) con strategie innovative (velocizzazione dei tempi, capacità di giocare «fra le linee», cioè
cercando spazi e varchi non usuali, attitudine ad operare anche in termini di scambi reali, talvolta
assimilabili al baratto). Si rafforzano molti big player, molte medie imprese e anche una quota di
piccoli imprenditori.
Il ritorno agli interessi agiti «in presa diretta» rispetto al primato dell’opinione
Gli interessi si coagulano sempre meno nella loro rappresentazione all’interno del mondo
dell’opinione, cercano piuttosto una agibilità diretta nella dinamica socioeconomica. Il mondo della
rappresentanza ha perso la sua carica identitaria (di classe, di gruppo sociale, di movimento) e
«ritorna in piena nudità e senza pudori la seconda gamba, quella degli interessi reali». Non solo tra
i big player, ma anche nelle grandi filiere (si pensi alle vicende energetiche e nucleari), nelle intese
internazionali, nei territori (non a caso la cultura leghista fa «sindacato del territorio»). E irrompono
anche interessi «privatistici» nel pericoloso mix fra politica e affari in delicati settori pubblici, dalle
infrastrutture alla sanità.
«Viviamo in un mare tumultuoso di opinioni»
Tuttavia, le componenti sociopolitiche, partitiche o giornalistiche, anche quando non cedono al
degradarsi verso il gossip, restano prigioniere nell’esasperazione di un diffuso antagonismo (talvolta
a forte tasso di personalizzazione) che non permette loro di uscire dal recinto dell’opinionismo.
Nell’«antagonismo vissuto colpo su colpo», i soggetti politici perdono il ruolo di ricerca, sintesi
interpretativa e proposta che solo può legittimarne laleadership. Non abbiamo nessuno spazio di
autorità condivisa, e non bastano a restituire allo Stato autorità e fiducia isolati episodi di un buon
governo del fare. «La corrosione esercitata dal primato dell’opinione ha comportato un grande
deficit di interpretazione sistemica, di capacità e volontà di definire una direzione di marcia su cui
orientare gli interessi in gioco».
Tre cicli al tramonto
Le tre grandi culture cui si è abbeverato lo sviluppo italiano degli ultimi centocinquanta anni sono
sempre meno spendibili come fattori di mobilitazione sociale e politica. La prima è la cultura
risorgimentale, quella che ha fatto storicamente l’Italia e gli italiani, per cui il futuro del Paese era
legato alla centralità dello Stato come grande soggetto facitore di regole omogenee sottoposte a
costante controllo e rispetto. La seconda è la cultura riformista nata nel secondo dopoguerra, per cui
le classi dirigenti modificano le strutture pubbliche in risposta ai bisogni sociali. «Ma oggi chi ha
bisogno di garanzie per la sua vita anziana non crede che il suo problema verrà risolto dalla riforma
pensionistica, chi ambisce a dare ai figli livelli formativi competitivi non crede che servirà la
riforma della scuola e dell’università, chi avverte la drammaticità della propria posizione
occupazionale non crede nella riforma del mercato del lavoro, chi avverte la inefficienza degli
apparati burocratici non crede che sarà una riforma della Pubblica Amministrazione a ridare
agevolezza al rapporto fra cittadini e Stato». Infine, dagli anni ’70 in poi si è affermato il terzo ciclo,
quello del protagonismo individuale, con la crescita esponenziale del lavoro autonomo e della
piccola e piccolissima impresa, del soggettivismo nei comportamenti, della personalizzazione del
potere politico, della ideologia della competizione e del mercato. Ma anche il primato della
soggettività è destinato a sfarinarsi silenziosamente. «L’individualismo vitale è sempre meno capace
di risolvere i problemi della complessità che lo trascende, il soggettivismo etico mostra la corda
rispetto all’esigenza di valori condivisi, la spietatezza competitiva e la carica di egoismo che
derivano dal primato della soggettività hanno creato squilibri e disuguaglianze sociali che pesano
sulla coesione collettiva».
Cosa verrà dopo?
«Nella psicologia collettiva c’è nel profondo un dolente mix di stanchezza e vergogna per i tanti
fenomeni di degrado valoriale, o almeno comportamentale, che caratterizzano la vita del Paese. E
c’è di conseguenza la speranza di uscirne, con una propensione a pensare al dopo, a una società
capace di migliorarsi». Ma le discussioni in corso «guardano indietro», sono cioè condizionate dalla
inerziale permanenza dei tre cicli precedenti, oppure «fuggono in avanti, rincorrendo una
fantasmatica ipotesi di nuova ontologia», individuata talvolta nel fondamentalismo dei valori e della
loro radice religiosa, talvolta nel fondamentalismo della scienza.
2. Le famiglie resistono alla crisi, rischi per il lavoro, dura ristrutturazione del terziario
Occupazione persa nel Mezzogiorno e nel «paralavoro». 162 mila imprese chiuse nel commercio e
nel terziario. Stringere la cinta non basta più: per la ripresa del 2010 gli italiani chiedono sostegno
a famiglie, giovani e piccole imprese.
Roma, 4 dicembre 2009
La stressata resistenza delle famiglie
Nel mezzo della crisi, per il 71,5% delle famiglie italiane il reddito mensile è sufficiente a coprire le
spese. Il dato sale al 78,9% al Nord-Est, al 76,7% al Nord-Ovest, al 71% al Centro, al Sud scende al
63,5%. Il 28,5% delle famiglie che hanno avuto difficoltà a coprire le spese mensili con il proprio
reddito ha fatto ricorso a una pluralità di fonti alternative, con una miscela che si è dimostrata
efficace. Il 41% ha toccato i risparmi accumulati, in oltre un quarto delle famiglie uno o più membri
hanno svolto qualche lavoretto saltuario per integrare il reddito, più del 22% ha utilizzato la carta di
credito per rinviare i pagamenti al mese successivo, il 10,5% si è fatto prestare soldi da familiari,
parenti o amici, l’8,9% ha fatto ricorso ai prestiti di istituti finanziari e il 5,1% ha acquistato presso
commercianti che fanno credito. Negli ultimi 18 mesi più dell’83% delle famiglie ha però
modificato le proprie abitudini alimentari. Quali cambiamenti sono stati introdotti? Il 40% ha
contenuto gli sprechi, il 39,7% ha cercato prezzi più convenienti, il 34,8% ha eliminato dal paniere i
prodotti che costano troppo. Dal punto di vista psicologico, il 36% degli italiani ha subito in questi
mesi maggiore stress (insonnia, litigiosità, ecc.) per motivi legati alla crisi (difficoltà lavorative, di
reddito, ecc.) e il dato sale a quasi il 53% tra le persone con reddito più basso. Riguardo al futuro,
da un’indagine su un campione di famiglie del ceto medio realizzata dal Censis nel novembre 2009
emergono indicazioni su quali siano i soggetti che devono essere aiutati per favorire la ripresa. Le
famiglie con figli (49,7%) e i giovani (48,8%), piuttosto che gli anziani (21,8%), dovrebbero essere
nel sociale i destinatari della quota più alta di risorse, visto che sono stati i più penalizzati dalla
crisi. Nell’economia, oltre il 33% del campione ritiene importante aiutare la piccola impresa, meno
del 5% richiama la necessità di supportare le grandi aziende. Il 57,7% delle famiglie del ceto medio
ritiene poi indispensabile ridurre le tasse sui lavoratori dipendenti, il 42,3% è convinto invece che
solo la riduzione di imposte e oneri gravanti sulle imprese (ad esempio, la progressiva abolizione
dell’Irap) favorirà la ripresa.
Le zone critiche nella flessione occupazionale
Fino a oggi il mercato del lavoro in Italia ha retto. A metà del 2009 risultavano persi, rispetto allo
stesso periodo dell’anno precedente, 378 mila posti di lavoro (-1,6%), meglio di Spagna (1 milione
480 mila occupati in meno, -7,2%) e Gran Bretagna (600 mila, -2%), ma peggio di Francia (-0,3%)
e Germania (+0,5%). Gli effetti negativi hanno riguardato solo i soggetti meno tutelati: il lavoro
autonomo (a giugno 277 mila occupati in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, -
5,8%) e l’ampio bacino del «paralavoro» (162 mila posti in meno, -4,3%). Ad essere colpite
maggiormente sono state le diverse forme di lavoro a termine (-229 mila lavoratori, -9,4%), le
collaborazioni a progetto (-12,1%) e quelle occasionali (-19,9%), mentre il popolo delle partite Iva è
aumentato, a causa della sostituzione dei contratti flessibili con formule ancora più esternalizzate e
a basso costo, raggiungendo quasi quota un milione (+132 mila, +16,3%). Il lavoro tradizionale,
dipendente e a tempo indeterminato, ha invece continuato a crescere, registrando nel periodo 2008-
2009 un +0,4% (oltre 60 mila posti in più). Ma la tenuta non c’è stata in tutto il Paese, né in tutti i
settori. Al Sud sono stati bruciati 271 mila posti di lavoro (-4,1%), l’industria e il turismo hanno
subito una riduzione del 4% e il commercio del 3,5%. Il 45,4% di chi ha perso il lavoro nell’ultimo
anno ha meno di 34 anni. Il 47,3% dei nuovi inoccupati è uscito definitivamente dal mercato del
lavoro (il 64,1% tra i lavoratori indipendenti).
L’onda ristrutturatrice delle imprese, inseguendo la ripresa
Quella del 2009 è una crisi fortemente differenziata. Alla preoccupante flessione delle esportazioni
del manifatturiero (-24% nei primi 8 mesi dell’anno) corrispondono saldi positivi della bilancia
commerciale per la meccanica (23,7 miliardi di euro), il tessile-abbigliamento (7,4 miliardi), le
produzioni in gomma e plastica (5,8 miliardi), i prodotti in metallo (5,6 miliardi), l’elettronica (4,3
miliardi) e i mobili (3,6 miliardi). Segno negativo invece per l’alimentare (-1,8 miliardi di euro), il
farmaceutico (-2,7 miliardi), la produzione di mezzi di trasporto (-3 miliardi), i prodotti chimici (-
4,8 miliardi) e l’elettronica (-7,7 miliardi). Tra gennaio e settembre si registra la riduzione di quasi
l’1% delle imprese manifatturiere (oltre 30.000), ma è il commercio al dettaglio il settore più
colpito, con più di 50.000 aziende cessate. L’intero settore terziario è entrato in una fase di profonda
riorganizzazione, con un saldo fortemente negativo tra iscrizioni e cancellazioni di imprese: -10,1
imprese per 1.000 imprese attive nei primi 9 mesi dell’anno (162.000 imprese cessate). I comparti
più in difficoltà sono: trasporti e magazzinaggio (-29,1 per 1.000 imprese attive), immobiliare (-
16,9), attività finanziarie e assicurative (-12,5), servizi di informazione e comunicazione (-8,5),
servizi legati al turismo (-6,5).
Il ciclo calante dell’individualismo fai da te
Si sta compiendo un processo di lento svuotamento di alcune linee evolutive su cui era cresciuto il
nostro Paese nel corso degli ultimi cinquant’anni: il ciclo dello Stato-nazione, il ciclo del
riformismo e quello della centralità del privato rispetto all’impegno collettivo. Si fa strada una
modalità nuova di intervento comune fra soggetti pubblici, privati e singoli individui, che rimanda a
un modello comunitario in cui abbiano più spazio soluzioni personalizzate e il più possibile
immediate. Emblematica è la reazione dei Comuni di fronte alla crisi, che hanno messo in campo
uno sforzo di coordinamento con altri soggetti e istituzioni locali: il 58,3% con le Province, il
54,2% con i sindacati, il 50% con le Camere di commercio, il 41,7% con le Regioni, il 41,7% con le
associazioni datoriali, il 29,2% con altri Comuni.
La ricchezza occulta da evasione fiscale
L’Italia è al sesto posto in Europa per peso dell’imposizione fiscale sul Pil, con una incidenza del
42,8% a fronte di una media europea del 39,8%. Però solo il 2,2% dei contribuenti (893.706 in
valore assoluto) dichiara un reddito che supera i 70.000 euro annui, circa il 50% degli italiani
presenta redditi che non vanno oltre i 15.000 euro e il 31% dichiara tra 15.000 e 26.000 euro. Il
reddito medio dichiarato è di 18.373 euro pro-capite: si va da un massimo di 20.851 euro nel Nord-
Ovest a un minimo di 14.440 euro al Sud. La provincia con il valore più alto è Milano, con una
dichiarazione media di 24.365 euro, l’ultima è Vibo Valentia, con 12.199 euro per contribuente.
Secondo le stime del Censis, l’economia sommersa si aggira intorno al 19% del Pil. Con la crisi tale
quota potrebbe essere aumentata, raggiungendo un valore di 275 miliardi di euro.
Fragilità del territorio e declino delle opere pubbliche
Nel nostro Paese i beni pubblici attraversano un ciclo di progressivo indebolimento. Dal dopoguerra
a oggi gli eventi disastrosi hanno determinato la perdita di 1.446 vite umane e un costo per la
collettività di 16,6 miliardi di euro (al netto delle tragedie del Vajont del ’63 e della Val di Stava del
1985, che hanno causato rispettivamente 1.909 e 265 morti). Il livello di esposizione è elevatissimo:
le aree a rischio di frana e a rischio alluvionale coprono rispettivamente il 5,7% e il 4,4% del
territorio nazionale. Sono 5.708 i comuni interessati da fenomeni franosi, con 992.400 persone a
rischio (circa l’1,7% degli italiani). E quasi 3 milioni sono gli italiani esposti a rischio sismico
«elevatissimo», circa 24 milioni se si considerano le aree a rischio «elevato».
La forza perduta dell’istruzione
Circa l’80% dei giovani tra 15 e 18 anni si chiede che senso abbia stare a scuola o frequentare corsi
di formazione professionale. Dominano il disincanto e lo scetticismo: il 92,6% dei giovani in uscita
dalla scuola secondaria di II grado ritiene che anche per chi ha un titolo di studio elevato il lavoro
sia oggi sottopagato, il 91,6% pensa che sia agevolato chi può avvalersi delle conoscenze. Anche il
63,9% degli occupati giudica inutili le cose studiate a scuola per il proprio lavoro.La visione
pessimistica travalica i confini dell’universo educativo: il 75% dei laureati e l’85% dei non laureati
di 16-35 anni pensano che in Italia vi siano scarse possibilità di trovare lavoro grazie alla propria
preparazione. Effettivamente i laureati italiani in economia e in ingegneria hanno attese di
remunerazione minori rispetto ai loro colleghi europei: nel 2009 il primo stipendio annuo atteso è
inferiore rispettivamente del 20,2% e del 21,4% di quello medio europeo. E ancora il 19,3% dei
giovani italiani di 18-24 anni non è in possesso di un diploma e non è più in formazione, contro il
12,7% di Francia e Germania, il 13% del Regno Unito, il 14,8% medio europeo.
Le mani legate della spesa pubblica
Le previsioni di spesa contenute nei documenti di programmazione economica e finanziaria per il
periodo 2008-2013 mostrano la rigidità della dinamica della spesa e l’assenza di risorse da mettere
in campo per gli investimenti. Le spese finali della Pubblica Amministrazione, ormai sopra la soglia
degli 800 miliardi di euro (quasi 900 miliardi a fine periodo), oscillano intorno al 50% del Pil a
prezzi correnti e impongono una pressione fiscale che non scende mai sotto i 42 punti. Cresce la
spesa pensionistica e sanitaria (intorno rispettivamente a 250 miliardi e a 120 miliardi di euro) e gli
interessi sul debito (poco meno di 100 miliardi di euro nel 2013), mentre diminuiscono le spese in
conto capitale (non supereranno i 60 miliardi di euro).
Italiani campioni nella risposta al breve
Le incentivazioni straordinarie introdotte per risollevare la domanda depressa e rimettere in moto il
circuito economico giocano sempre più sul fattore tempo, con scadenze a breve: dall’acquisto di
nuovi beni durevoli alla possibilità di ampliare gli immobili in deroga agli strumenti urbanistici (il
«Piano casa»), allo «scudo fiscale». Nella stessa direzione va la moratoria sui prestiti alle Pmi e
quella sui mutui casa per le famiglie colpite dalla crisi promossa dall’Abi, così come la Cassa
integrazione: nei primi 9 mesi dell’anno le ore autorizzate (ordinaria, straordinaria e in deroga)
hanno superato i 622 milioni, con un aumento a settembre del 437% sullo stesso mese del 2008.
L’ordinaria normalità dell’emergenza
Sempre più gli italiani si concentrano sulle soluzioni di breve respiro, piuttosto che sulla
programmazione a lungo termine. Un esempio sono i ricorsi al Pronto soccorso, aumentati da 61,4
per mille abitanti nel 2001 a 67,3 per mille nel 2007 (poco meno di 16 milioni di persone). Ma
anche i ricoveri ospedalieri nei casi sospetti di influenza A/H1N1: 1.494 a ottobre rispetto ai 492
irlandesi, 447 francesi, 335 olandesi, 54 greci. O gli interventi d’emergenza della Protezione civile
per calamità naturali, incendi, rifiuti, gestione dei grandi eventi, traffico, patrimonio artistico,
nomadi, aumentati dai 290 del 2002 ai 310 del 2009.
L’eccitazione comunicativa nella permanente esposizione ai media
Tra il 1992 e il 2008, a fronte di un incremento medio dei consumi delle famiglie del 20%, la spesa
per telefoni e servizi telefonici ha registrato un aumento del 214% (poco meno di 22,7 miliardi di
euro nel 2008), segnando una flessione solo nell’ultimo anno; la spesa per prodotti audiovisivi e
computer è aumentata del 63%, sebbene sia in rallentamento dal 2007; i consumi di libri e giornali
hanno segnato un +38%. Il 47,6% degli italiani usa un numero di media superiore a quattro,
muovendosi con facilità ogni giorno attraverso una fitta trama di messaggi veicolati dai più diversi
vettori: non solo la Tv, il cellulare, la radio e i quotidiani, ma anche Internet, web Tv, palmari,
lettori mp3, e-reader. Il 4,2% ne usa dieci o più, percentuale che raddoppia tra i soggetti più giovani
e più istruiti. Si finisce così per dedicare massicce dosi di tempo ai mezzi di comunicazione. Se si
sommano i quantitativi medi di tempo trascorso quotidianamente utilizzando i principali media,
risulta un ammontare cumulativo «virtuale» di 13 ore e 54 minuti al giorno.
La violenza di prossimità nel vissuto quotidiano
Il conflitto sociale si è trasferito dalle piazze ai cortili. In un decennio si sono dimezzate le ore di
sciopero, si riduce il numero di cause civili presso gli uffici del Giudice di pace e i tribunali (-9% tra
il 2004 e il 2007) e le tensioni sociali non si incanalano in forme organizzate, ma prendono la via
del conflitto privato nella dimensione domestica o condominiale. La microconflittualità nei
condomini è cresciuta esponenzialmente negli ultimi anni, soprattutto per motivi futili, con ai primi
posti l’utilizzo di parti comuni e i rumori molesti. Così come aumentano le violenze familiari (dai
97 omicidi in famiglia del 1992 si passa ai 192 del 2006, +98%).
3. Processi formativi
Roma, 4 dicembre 2009
L’alternanza scuola-lavoro
I dirigenti scolastici delle scuole secondarie di II grado guardano con favore all’alternanza scuola-
lavoro. Il 71,2% ritiene che il ricorso all’alternanza scuola-lavoro permetta agli studenti di avere
una migliore conoscenza del mondo del lavoro, il 55,9% pensa che consenta alla scuola di offrire un
curriculum di studio più adeguato alle esigenze lavorative, il 53,2% ritiene che aumenti le
opportunità occupazionali dei diplomati in quanto hanno l’occasione di farsi conoscere dalle
aziende. Positiva è anche la ricaduta dell’alternanza scuola-lavoro sull’ambiente e sul vissuto
scolastico: il 52,9% dei dirigenti ritiene che l’introduzione dell’alternanza influenzi i livelli
motivazionali, contrastando i fenomeni di dispersione, e il 51% che funga da stimolo per una
innovazione continua della didattica. Sul versante delle criticità, la più segnalata (55,1%) riguarda le
risorse finanziarie, cui si correla la difficoltà ad offrire percorsi di alternanza a tutti gli studenti
interessati (53,6%). Il 46,1% dei dirigenti scolastici sottolinea la problematicità di coinvolgere le
aziende e gli altri soggetti economici. Non sussistono invece preoccupazioni in merito alla
comprensione e applicazione della normativa (solo il 7,4% dei dirigenti), anche in virtù delle
esperienze pregresse, che portano ad escludere uno scarso interesse delle famiglie (11,1%). In effetti
si evidenzia una crescita negli ultimi tre anni dei soggetti coinvolti in queste attività. Nel 2008-2009
i corsi di professionalizzazione sono stati 8.023 per 140.409 studenti (+10% rispetto al 2006-2007).
La crescita più significativa è quella delle imprese coinvolte, che passano da 27.720 a 48.081
(+41,5%). Nel 2008-2009 più di 1.000 istituti hanno attivato percorsi di alternanza scuola-lavoro,
coinvolgendo 69.375 studenti (+51,2% rispetto al 2006-2007).
L’Italia e la learning mobility
Il processo di costruzione di uno spazio europeo dell’apprendimento trova nella learning
mobility uno dei suoi pilastri. Dal 2001 al 2007 162.759 persone hanno usufruito di borse di studio,
formazione e tirocinio all’estero nell’ambito dei programmi europei Socrates e Leonardo da Vinci
(integrati dal 2007 nel Programma per l’apprendimento permanente). Nel segmento della
formazione iniziale, gioca un ruolo preponderante la mobilità del programma Erasmus per gli
studenti universitari, che ha promosso l’outgoing di oltre 15.000 persone all’anno (oscillando tra le
13.236 del 2001 e le 18.364 del 2007), seguito da Leonardo da Vinci, che ha promosso l’uscita dal
Paese per tirocini formativi di oltre 4.000 giovani all’anno, raggiungendo la quota massima nel
2006 con 6.090 borsisti.
Gli scenari della competitività dei saperi
Oggi coesistono in Italia università molto competitive nel contesto internazionale e altre che
stentano a consolidarsi. La capacità di attrazione degli studenti stranieri migliora: 51.279 iscritti nel
2007-2008 (escluse le università per stranieri di Siena e Perugia) rispetto ai 41.167 del 2005-2006
(+24,6%). Gli atenei con maggiori capacità attrattive sono quelli di Lazio (9.715 studenti),
Lombardia (8.898) ed Emilia Romagna (7.064), che assorbono più della metà di tutti gli stranieri
iscritti. Più dinamici gli atenei piemontesi (+101,4% tra il 2005-2006 e il 2007-2008), abruzzesi
(+109,8%) e calabresi (+88,1%). In controtendenza gli atenei campani (-16,6%), siciliani (-14,6%)
e pugliesi (-6,6%). Si consolida il flusso di studenti provenienti dall’Albania, seguono greci e
rumeni. Al quarto posto si posizionano i cinesi, con un aumento rispetto al 2006-2007 del 231,5%.
Le facoltà più richieste sono quelle afferenti all’area economica, all’area medica e all’ingegneria,
che nel complesso sono frequentate da quasi il 44% degli stranieri.
L’alta formazione come bene rifugio
I giovani italiani, in crescente difficoltà nel mercato del lavoro, sembrano sempre più orientati verso
l’unico bene rifugio oggi a loro disposizione: ottenere una formazione qualificata. Si assiste infatti a
un aumento delle preiscrizioni negli atenei più qualificati e verso le facoltà considerate più
«difficili» come ingegneria e medicina. Rispetto al 2007 si registrano incrementi delle preiscrizioni
per l’accesso ai test di ammissione ai due politecnici più prestigiosi d’Italia (Milano e Torino)
rispettivamente del 19% e del 27%. In entrambi i casi, la maggioranza delle richieste riguarda il
corso di ingegneria, che ha sempre offerto in Italia le migliori chance occupazionali. Il rendimento
degli investimenti nell’educazione universitaria (comparando i costi dell’istruzione e l’assenza di
guadagno durante il corso di studi con le prospettive salariali) è quantificabile, per un italiano
maschio, in 322 mila dollari lordi in più durante il percorso lavorativo. Un incremento secondo
solamente a quello registrato negli Stati Uniti, con la differenza che nel nostro Paese la laurea, in
termini di resa salariale, è un affare riservato agli uomini. I vantaggi per le donne sono più limitati:
il beneficio si ferma a 136 mila dollari, facendo registrare la maggiore disparità di genere tra i Paesi
industrializzati. La disparità di rendimento è ancora più evidente se si considera la stima al netto di
tasse, contributi sociali ed effetti della disoccupazione: se un laureato può sperare di arrivare a
guadagnare nell’arco della vita lavorativa 173.889 dollari in più di un diplomato, per una donna
laureata il ritorno economico si ferma a 25.806 dollari, con una differenza quindi di oltre 148 mila
dollari.
Verso una società basata sulla conoscenza: il caso Toscana
Il 2010 è ormai prossimo, ma non i risultati relativi agli obiettivi fissati a Lisbona per far diventare
quella europea l’economia della conoscenza più competitiva e dinamica del mondo. Fra gli adulti
occupati si osserva una maggiore propensione delle donne a partecipare a iniziative formative (il
7,9% contro il 5,5% degli uomini). In relazione all’apprendimento permanente da parte degli adulti,
se l’obiettivo di Lisbona per il 2010 è fissato al 12,5%, l’Italia è ancora ferma al 6,3%. E nel caso
dell’abbandono prematuro degli studi, la componente maschile sfiora il 23% dei giovani con età
compresa fra 18 e 24 anni. Fra le regioni italiane la Toscana ha voluto intensificare, nel ciclo di
programmazione del Fondo sociale europeo appena concluso e in quello avviato, i propri sforzi
sulle componenti femminili e giovanili, ottenendo dati sulla partecipazione all’apprendimento
permanente (6,8%) e sull’abbandono prematuro degli studi (16,6%) migliori rispetto al resto d’Italia
e anche rispetto al Centro-Nord. La qualità dell’offerta universitaria e la forte attrattività degli
atenei toscani confermano l'efficacia degli impegni sull'alta formazione, con il raddoppio (dall’8,8
al 16,4 per mille) delle persone laureate nelle discipline scientifiche. La quota di donne laureate in
queste facoltà è pari in Toscana a 13,2 per mille, contro il 9,1 per mille a livello nazionale e il 12,6
per mille riferito alle regioni del Centro-Nord nel complesso.
4. Lavoro, professionalità, rappresentanze
Roma, 4 dicembre 2009
Le strategie a medio termine del mercato del lavoro in affanno
Nei primi due trimestri dell’anno diminuisce il numero degli occupati (-1,6% rispetto allo stesso
periodo del 2008) e aumenta contemporaneamente il tasso di disoccupazione (dal 6,7% al 7,4%).
Cresce anche il numero delle persone in cerca di occupazione (+8,1%). La crisi occupazionale ha
fatto sentire i suoi effetti con un’ulteriore contrazione del lavoro femminile (-0,7%). Nel
Mezzogiorno si rileva un tasso di disoccupazione più alto che nel resto del Paese (12%). E si
conferma la debolezza dell’Italia all’interno dell’Unione europea (tasso di occupazione al 58,7%
contro il 65,9% medio dell’Ue27).
La crescita del tempo di non lavoro
Gli effetti del rallentamento dell’economia sul mondo del lavoro hanno riguardato anche la
dimensione del tempo complessivamente dedicato alle prestazioni lavorative. Le ore di Cassa
integrazione guadagni ordinaria passano dai 77 milioni del 2005 a 369 milioni. La Cassa
integrazione straordinaria aumenta, nello stesso arco di tempo, del 162%, quella dell’edilizia del
129%.Sia nei servizi che nell’industria le ore effettivamente lavorate nelle grandi imprese
diminuiscono rispettivamente del 2,4% e dell’1% tra luglio 2008 e luglio 2009. Analogamente,
calano dello 0,4% sia le ore di sciopero, sia quelle dedicate al lavoro straordinario.
Il valore della risorsa umana nei processi di internazionalizzazione
Le imprese che rafforzano le strategie di internazionalizzazione investono non solo su reti logistiche
e distributive nella prospettiva di conoscere meglio il cliente, ma anche sulle risorse umane
utilizzate. Le imprese che hanno una significativa attività all’estero sono anche quelle che adottano
più delle altre i contratti standard (il 96,6% contro il 92,5%) e meno i contratti flessibili (il 3,4%
contro il 7,5%). In esse il significato stesso del salario si lega in proporzioni maggiori al concetto di
valorizzazione del merito. Il personale all’estero, a parità di qualifica, viene pagato di più di quello
in Italia: un dirigente che lavora in Italia guadagna poco meno di 87 mila euro annui, un dirigente di
un’impresa italiana all’estero ne guadagna quasi 140 mila.
Verso una nuova previdenza per i professionisti
Anche le Casse di previdenza dei professionisti italiani, privatizzate da più di dieci anni, si stanno
ponendo l’obiettivo di ripensare il loro welfare interno. Tra il 1997 e il 2009 il numero di
professionisti iscritti agli Ordini e ai Collegi professionali ha conosciuto un incremento del 35,9%,
passando da 1,476 milioni a 2,006 milioni (circa 530 mila nuovi iscritti), mentre nello stesso
periodo l’occupazione nel nostro Paese è cresciuta solo del 14,8%. Resta auspicabile raggiungere
anche le professioni senza regolamentazione che si collocano ai margini del mondo professionale
ordinistico e che hanno bisogni di tutela ancora scoperti.
Le imprenditrici terziarie, fattore strategico per l’economia
Le donne imprenditrici del settore terziario costituiscono il vero elemento innovativo nel contesto
dell’occupazione femminile degli ultimi decenni. Costituiscono il 67,1% del totale delle aziende
gestite da donne, occupano sempre meno spazi di mercato legati al commercio e sono sempre più
proiettate su settori un tempo monopolizzati dagli uomini, come la logistica (il 17% delle donne
imprenditrici), i servizi professionali intellettuali (12,1%) o il turismo (12%). Dal secondo trimestre
del 2004 allo stesso periodo del 2009 gli imprenditori nel complesso sono diminuiti del 4,1% e
quelli del terziario del 3,2%, mentre le imprenditrici terziarie sono scese solo dell’1,3%, mostrando
una capacità di contrasto alla crisi più alta. Fra le imprenditrici terziarie si registra un aumento
significativo di formule societarie diverse dall’impresa individuale, ad esempio la società di persone
(41,5%), mentre le società di capitali costituiscono lo 0,5% delle imprese femminili terziarie,
aumentate del 126% dal secondo trimestre del 2004 allo stesso periodo del 2009.
5. Il sistema di welfare
Roma, 4 dicembre 2009
La sanità nell’anno della crisi
Nell’anno della crisi si segnala una crescita delle spese per la salute degli italiani (molto per
l’11,5%, abbastanza per il 27,5%, poco per l’8,3%), in misura maggiore tra i soggetti nelle fasce di
reddito più basso. Poco meno di un terzo degli italiani spende di più anche per le prestazioni a
carico del Ssn per le quali è previsto il ticket, mentre il 27,8% indica un aumento di spesa per
analisi e radiografie a pagamento intero, il 29,4% per il dentista, il 31% per i farmaci senza ricetta,
il 35,6% per le visite specialistiche a pagamento intero. L’impatto della crisi sembra dunque
concretizzarsi in un peggioramento delle possibilità di accesso ai servizi sanitari, anche pubblici,
che pesa di più proprio sui meno abbienti. Quasi il 40% dei soggetti di livello socio-economico
basso è stato costretto a rinunciare per motivi economici a prestazioni sanitarie e il 37,8% ha ridotto
l’acquisto di farmaci a pagamento.
Le cure primarie per ripartire dal territorio
L’ospedale mantiene il ruolo di catalizzatore della risposta sanitaria. Sono circa 55.000 al giorno gli
accessi al Pronto soccorso. Solo nel Lazio nel 2008 gli accessi al Pronto soccorso hanno toccato
quota 2.125.823, in gran parte ascrivibili a codici verdi (72,9%) e bianchi (9,7%). La strutturazione
della primary care risulta invece in difficoltà, ancora troppo caratterizzata da accessibilità limitata e
da isolamento professionale. Ma i medici di medicina generale godono di un ampio favore tra gli
italiani: il 75,9% esprime soddisfazione circa l’adeguatezza del servizio.
Conviene fare figli in Italia?
Il tasso di fecondità italiano rimane tra i più bassi d’Europa: il numero di nati per 1.000 donne in età
fertile nel 2007 è pari a 40,3 contro 41,9 per 1.000 in Grecia, 43,1 in Spagna e 54,8 in Francia.
Dopo il primo figlio, mediamente partorito in età relativamente avanzata, molte madri italiane non
ne hanno altri pur desiderandoli: il 20,6% per motivi economici, il 9,5% a causa del lavoro. Il
sistema di tutele della maternità appare inadeguato e troppo legato al vincolo della condizione
professionale. Dai dati disponibili (al 2005) emerge che il 55,2% delle madri che avevano avuto un
figlio era costituito da donne occupate: a loro è spettato l’84% delle prestazioni economiche per la
maternità, pari mediamente a poco meno di 5.000 euro. Ma alle disoccupate (il 5,2% delle madri) è
spettato il 2,1% dell’importo e a quelle in condizione non professionale (il 39,6% delle madri) il
13,9% delle prestazioni, pari a circa 1.137 euro (assegni di maternità erogati per le donne
disoccupate e in condizione non professionale).
Politiche per l’inclusione sociale: le difficoltà delle comunità territoriali
Il disagio sociale è fortemente territorializzato, come emerge dalla graduatoria provinciale ottenuta
in base a un indice sintetico costruito a partire da 14 indicatori semplici. Il gap tra le province del
Centro-Nord e quelle del Sud è marcato e relativo a tutte le dimensioni del disagio considerate, da
quelle private (reddito e consumi) a quelle di natura collettiva come le infrastrutture. I contesti
provinciali più problematici sono: Palermo, Agrigento, Matera, Lecce, Caserta, Crotone, Vibo
Valentia e Caltanissetta, mentre Trieste, Aosta, Belluno e Siena sono le province con livello di
disagio sociale più basso. In Italia 1 milione 50 mila famiglie (pari al 4,4% del totale) vivono in
condizione di «povertà alimentare», con un divario territoriale enorme tra regioni come Veneto
(2,3%), Toscana (2,4%), Lazio (2,7%), Trentino Alto Adige (2,9%) e altre come Calabria (6,2%),
Basilicata (9,1%), Sicilia (9,2%) e Sardegna (10,8%).
Meno risorse e più conflitti nella distribuzione della spesa sociale
La crisi avrà sicuramente l’effetto di rendere più acuta la competizione sociale e territoriale per le
risorse destinate alla protezione sociale. La dinamica degli ultimi 6 anni ha visto una crescita ridotta
delle voci «anzianità e superstiti» e «sanità» (rispettivamente aumentate a un tasso medio annuo
dell’1,6% e del 3,5%, contro l’1,9% e il 3,6% della Ue15) e incrementi più consistenti per le
funzioni «disabilità» (+1,9% in Italia, +1,7% medio europeo), «famiglia e minori» (+5,2%, +2%),
«housing ed esclusione sociale» (+9,3%, +4,2%) e soprattutto «disoccupazione» (+5,3%,
+0,9%). Per stabilizzare il rapporto pensioni/Pil occorrerebbe un tasso di crescita medio annuo per
il triennio 2008-2010 pari all’1,8%, lontano dagli andamenti previsti per i prossimi anni. Gli italiani
sono tra i meno convinti della capacità del sistema di protezione sociale di assicurare una copertura
adeguata (il 37% contro un valore medio dell’Europa a 27 pari al 48%). D’altra parte, l’impatto
della crisi sulla previdenza complementare ha determinato un rallentamento delle adesioni nei primi
9 mesi del 2009 (appena +3% rispetto al mese di dicembre 2008) e diffusi problemi nei pagamenti:
circa 520 mila iscritti non hanno versato o hanno versato in ritardo i contributi previsti.
6. Territorio e reti
Roma, 4 dicembre 2009
Aumenta la frammentazione normativa: le declinazioni regionali del Piano casa
L’assenza di un forte indirizzo comune ha contribuito ad alimentare la disomogeneità normativa del
Piano casa. Dal quadro comparativo emergono approcci differenziati tra le Regioni che hanno
improntato la loro azione essenzialmente ad una forte deregulation, non ponendo particolari
restrizioni agli interventi, e quelle che hanno puntato a fare della legge uno strumento per la
riqualificazione del patrimonio edilizio, introducendo una serie articolata di condizioni virtuose per
poter effettuare gli ampliamenti (bioedilizia, risparmio energetico, qualità architettonica, dotazione
di verde).Alcune leggi regionali estendono la possibilità di intervento anche agli immobili ad uso
industriale, artigianale, ricettivo. Con il risultato che lungo la penisola uno stesso intervento edilizio
a volte è ammesso, altre no.
L’Aquila dopo il 6 aprile: problemi e prospettive
La fase dell’emergenza dopo il sisma ha riguardato la sistemazione di un numero altissimo di
sfollati. La popolazione direttamente assistita dalla Protezione civile nei 6 mesi si è quasi ridotta ad
un terzo, passando dalle 67 mila unità di fine aprile alle 24 mila unità di ottobre. Le tende hanno
ospitato nel momento di massimo disagio circa 35 mila persone, scese a poco più di 2 mila a fine
ottobre. Ma in tutti questi mesi migliaia di aquilani (erano 33 mila a maggio, sono diventati circa 22
mila ad ottobre) sono stati ospitati, al costo di circa 50 euro al giorno per persona, in alberghi e case
private soprattutto della costa abruzzese. Gli alloggi stabili realizzati successivamente, da destinare
alle famiglie con una casa distrutta o inagibile, sono circa 6.900 tra Map (Moduli abitativi
provvisori, ovvero prefabbricati in legno destinati ai Comuni minori e alle frazioni del capoluogo) e
insediamenti del progetto Case (Complessi antisismici sostenibili ed ecocompatibili) destinati alla
città dell’Aquila. Ora gli interrogativi riguardano la fase di ricostruzione. Gli alloggi parzialmente o
temporaneamente inagibili sono il 15%, ma gli edifici distrutti o gravemente inagibili nel centro
storico dell’Aquila sono il 74% del totale.
Il ruolo delle città e delle Province nel contrasto alla crisi economica
Quasi la totalità dei Comuni (94,1%) è intervenuta per fronteggiare la crisi con misure straordinarie.
Tali misure si risolvono in un potenziamento generalizzato del welfare per le fasce deboli (il 76,5%
dei Comuni), molte amministrazioni locali hanno individuato specifici target di cittadini
particolarmente colpiti (38,2%) o hanno costituito tavoli di concertazione con soggetti locali o altri
livelli istituzionali (41,2%). La gran parte dei Comuni (65,4%) si è mossa intervenendo volta per
volta sulle singole emergenze, circa un terzo (34,6%) ha varato pacchetti anticrisi per il 2009 molto
articolati e rivolti a lavoratori in mobilità, cassaintegrati, commercianti, artigiani e famiglie in
difficoltà.
La manutenzione dei beni comuni come contributo alla sicurezza e come investimento
anticiclico
È ormai urgente un forte ritorno di attenzione sul tema della manutenzione. Il campanello d’allarme
per lo stato manutentivo di molte attrezzature pubbliche e reti tecnologiche è già suonato e fa
coincidere il tema della manutenzione con quello della sicurezza. Lo stock di edilizia scolastica
pubblica è composto da 42 mila strutture, di cui quasi la metà non dispone di un certificato di
agibilità. Stimando un costo medio per la messa a norma di 300-350 mila euro per ogni struttura,
con un investimento di un miliardo di euro si otterrebbe la messa a norma di circa 3 mila scuole
(pari al 7% dello stock). Lo stock di edilizia ospedaliera pubblica è composto da 654 strutture.
Stimando un costo medio per la messa a norma pari a circa 9-10 milioni di euro per ospedale, con
un investimento di un miliardo di euro si otterrebbe la messa a norma di circa 100 ospedali (pari al
15% dello stock). Si può stimare inoltre la presenza sul territorio nazionale di circa 149 mila
impianti sportivi (dei quali il 53% di proprietà pubblica), per cui con un investimento di un miliardo
di euro si potrebbero mettere a norma circa 20 mila impianti sportivi di dimensione medio-piccola
(palestre, piscine). Anche la rete degli acquedotti (poco meno di 300 mila km) è vecchia (l’età
media delle infrastrutture è di circa trent’anni) e scarsamente mantenuta. Più del 40% del volume
d’acqua erogata viene disperso (più del 50% nelle regioni meridionali). Con un investimento di un
miliardo di euro da destinare ad azioni di ricerca e sistemazione delle perdite si possano recuperare
alla piena funzionalità circa 100 mila km di condotte, equivalenti a un terzo della rete nazionale.
Condizioni e opportunità per un nuovo protagonismo delle istituzioni provinciali
Secondo l’indagine realizzata dal Censis nei mesi di settembre-ottobre su incarico dell’Upi (Unione
Province d’Italia), i presidenti di Provincia constatano che il progressivo trasferimento di ruoli,
funzioni e competenze dal centro alla periferia ha finora privilegiato soprattutto le Regioni sotto il
profilo dei poteri reali (l’88,1% delle risposte), le Regioni e i Comuni sotto il profilo della visibilità
mediatica (76,4%). Rispetto a questi due ambiti, le istituzioni provinciali vengono segnalate da
quote residuali di intervistati (dal 3,4% in merito all’aumento di poteri reali e dal 9,1% con
riferimento alla visibilità). Tuttavia, nella percezione dei presidenti esiste una forte domanda di
sostegno allo sviluppo che proviene dai soggetti economici locali, che va dall’impegno nello
svolgimento delle funzioni provinciali fondamentali (manutenzione stradale, scuole secondarie,
ecc.) (98,3%) allo snellimento della burocrazia (71,2%), alla promozione di nuove iniziative
imprenditoriali (67,8%).
7. I soggetti economici dello sviluppo
Roma, 4 dicembre 2009
L’industria alla prova della crisi
Nel corso del 2009 il sistema manifatturiero italiano ha registrato una flessione di più del 10% della
produzione, del 24% delle esportazioni, dell’1% del numero di imprese. Il processo di
ristrutturazione colpisce larga parte delmade in Italy (4.000 imprese in meno a metà anno), con
effetti più marcati sul comparto del tessile (-3,9% di imprese), del legno (-2,8%) e della meccanica
(flessioni superiori al 2%). Tengono i comparti della produzione di mezzi di trasporto (il numero di
aziende è cresciuto del 3,9%, anche se leperformance in termini di fatturato sono molto negative),
del recupero e riciclaggio di materiali (+3,1%), l’editoria e la stampa (+2,4%), l’alimentare
(+2,2%). Ma si vedono segnali di riposizionamento di molte imprese esportatrici su mercati
relativamente nuovi: nella prima parte del 2009 si è registrata una flessione dei valori medi unitari
dei prodotti italiani esportati nei Paesi dell’Ue (-1,6%) e un parallelo incremento dei prezzi delle
esportazioni verso l’India (+11,5%), la Cina (+10,7%), il Brasile (+9,6%) e il Medio Oriente
(+5,2%).
Per una partnership nuova tra imprese e sistema bancario
Si segnala una contrazione del credito concesso al tessuto produttivo a tassi superiori al 2% rispetto
all’anno precedente, pur in presenza di un immutato fabbisogno di risorse finanziarie da parte delle
aziende (nel primo semestre dell’anno il 32,6% delle imprese ha aumentato la propria esposizione,
mentre soltanto il 16,8% l’ha ridotta). Nel primo semestre del 2009 il 39,1% delle imprese si è
avvalso dello scoperto bancario e il 36,8% ha avuto accesso a prestiti a breve o a lungo termine.
Soltanto il 40,5% delle realtà produttive nazionali (l’11% in meno rispetto alla media comunitaria)
ha usato invece risorse proprie per finanziare l’attività.Nonostante le restrizioni dell’offerta di
credito, il 71,2% delle domande di finanziamento presentate ha ottenuto esito positivo, il 20,3% è
stato accolto soltanto parzialmente, l’8,5% è stato respinto: una quota comunque inferiore rispetto a
quella che si registra in ambito comunitario (10,3%). Nel biennio precedente alla crisi, però, le
domande accolte integralmente erano state l’86,5% del totale, quelle accettate parzialmente il 12% e
quelle respinte soltanto l’1,5%. Se il 39,2% delle imprese europee ritiene di non incontrare ostacoli
per ottenere un finanziamento bancario, in l’Italia la quota si riduce al 16,1%, mentre il 37% delle
nostre imprese (contro il 26,1% di quelle europee) teme di non disporre di garanzie adeguate e il
36,9% (a fronte del 20,2%) ha il timore che i costi o i tassi d’interesse saranno troppo elevati.
Green economy italiana tra mito e realtà
Le stime sul fatturato della green economy italiana si aggirano attorno ai 10 miliardi di euro, con un
impatto sul mercato del lavoro da qui a dieci anni variabile tra 100 mila e un milione di nuovi
addetti. Nel 2008 l’energia prodotta da fonti rinnovabili ha coperto il 16,5% dei consumi nazionali,
e la produzione è aumentata del 24,5% in soli cinque anni. Il fatturato dei principali comparti delle
rinnovabili è aumentato del 191% in cinque anni e nel 2008 supera i 5 miliardi di euro, mentre
l’occupazione diretta e dell’indotto è cresciuta del 220%, con più di 20 mila posti di lavoro creati.
L’energia verde rappresenta un’occasione da non perdere, soprattutto per un Paese come l’Italia
naturalmente dotato di fonti rinnovabili come il vento e il sole. Ma la capacità della green
economy di trasformare la sfida climatica in crescita economica e occupazionale dipenderà dalle
politiche messe in atto per accompagnarne lo sviluppo.
Innovazione e metamorfosi della distribuzione commerciale
La quota delle imprese del commercio cessate sul totale delle attive è passata da livelli inferiori al
7% nella prima metà del decennio a quasi il 9% nel 2008. Se negli anni che vanno dal 2000 al 2004
le imprese commerciali che si cancellavano dai registri del sistema camerale erano poco più di 50
mila, nell’ultimo biennio hanno superato quota 70 mila: un trend che sembra confermarsi anche per
il 2009. Aumentano però le grandi superfici specializzate, dalle 909 del 2002 alle 1.465 del
dicembre 2008, con un incremento della superficie di vendita del 66,9% e dell’occupazione del
119,5%, arrivando a una superficie media unitaria di circa 3 mila mq e 30 addetti. Per la
distribuzione al dettaglio, i centri commerciali rappresentano uno dei modelli di maggiore successo:
in Italia se ne contano 659 (151 nella sola Lombardia) e le nuove aperture previste per il triennio
2009-2011 sono 232.
Nella pluralità del Mezzogiorno, per trasformare i vincoli in opportunità
Permane la sensazione che l’Italia sia condannata a procedere a due velocità. Secondo l’opinione di
un campione di esperti contattati dal Censis (rappresentanti del mondo produttivo, istituzionale e
accademico meridionale), nei territori del Sud l’attuale congiuntura potrebbe avere un impatto
ancora più negativo che nel resto del Paese (48,5%), mentre solo il 24,8% è convinto che gli
elementi di vitalità del territorio lascino prevedere una pronta ripresa. Il Sud d’Italia è in realtà
un’area molto differenziata al proprio interno, che vede coesistere zone attive e relativamente
dinamiche con altre in declino. Le due province con i maggiori livelli di produttività e ricchezza
rispetto alla media del Mezzogiorno sono quelle più industrializzate: la provincia di Napoli (con 7
sistemi locali del lavoro) e di Bari (5), dotate di un sistema produttivo complesso e diversificato.
Consumi e stili di vita degli italiani in un anno tutto in salita
Lievi segnali di ripresa dei consumi sono emersi nel secondo trimestre dell’anno rispetto al primo
(+0,3%), ma l’inversione del ciclo appare ancora lontana. Nei primi mesi del 2009 il 43% delle
famiglie italiane ha affrontato la crisi risparmiando di più. Tale percentuale è salita a metà anno al
46,2% e il 25% ha dichiarato di aver tagliato le spese non necessarie. Tra gennaio e giugno le
persone che guardano al futuro con ottimismo sono passate dal 52,4% al 57%: un buon segnale, che
tuttavia va letto insieme all’incremento dei pessimisti, passati dal 30,2% al 32,7% (mentre si riduce
la quota di chi si dichiara incerto sul futuro).
Gli italiani e il gioco delle scommesse
Il settore delle scommesse pubbliche sembra non risentire della fase di crisi, crescendo a ritmi
sostenuti e coinvolgendo ormai circa 30 milioni di italiani di ogni appartenenza sociale. La raccolta
nei primi 9 mesi del 2009 (oltre 39,3 miliardi di euro) è aumentata del 14,4% rispetto allo stesso
periodo dell’anno precedente. Nel 2008 il gettito fiscale derivante dal settore ha comportato entrate
per lo Stato pari a 7,7 miliardi di euro. Nei primi 9 mesi dell’anno le entrate dal gioco raggiungono
già i 6,7 miliardi di euro e si stima che a fine anno l’apporto fiscale supererà gli 8 miliardi di euro.
Grazie all’uso combinato di tecnologie e servizi innovativi, come il gioco on line, aumentano gli
addetti della filiera del gioco (+27,5% tra il 2005 e il 2007) e i ricavi (+77,2%). Nel 2008 su 100
scommesse sportive, poco meno di 30 sono state giocate in modalità remota: le scommesse sportive
hanno inciso per oltre il 72% sul totale della raccolta on line. Con l’introduzione degli skill
games (soprattutto il poker) le scommesse sportive hanno perso la leadership della raccolta on line,
che ad aprile 2009 valeva il 37% del totale. Nel 2008 il primato (a livello assoluto e pro-capite)
delle somme giocate al Superenalotto spetta alle province delle maggiori aree metropolitane del
Paese: al primo posto Milano con un giocato pro-capite di 77,8 euro, poi Roma con 69,1 euro.
8. Comunicazione e media
Come cambiano i consumi mediatici nell’anno della crisi
In pochi anni si è compiuta una vera e propria rivoluzione nel sistema dei media, e la crisi attuale ha
ulteriormente accelerato il processo di trasformazione già in corso. La televisione, che nel 2001
raggiungeva già il 95,8% degli italiani, oggi si attesta al 97,8%. La Tv satellitare passa dal 27,3%
del 2007 al 35,4% di utenti nel 2009 e il peso delle altre forme di Tv, che pochi anni fa non
esistevano, non è affatto trascurabile: il digitale terrestre ha il 28% di utenza (benché lo switch
off del segnale analogico abbia riguardato finora solo alcune porzioni del territorio nazionale) e la
web Tv il 15,2% (ma la Tv su Internet è seguita dal 41,3% dei giovani tra 14 e 29 anni). Il trionfo
della televisione non ha messo in crisi la radio, che ha visto crescere il suo pubblico (dal 68,8% del
2001 all’81,2% nel 2009), che ora l’ascolta spesso anche dai lettori mp3 (18,6%), da Internet (8,3%)
o dal telefonino (8,1%). In sofferenza la carta stampata: quotidiani a pagamento al 54,8%, free
press al 35,7%, settimanali al 26,1%, mensili al 18,6%. L’uso del cellulare si attesta all’85%, ma va
legata all’effetto della crisi la contrazione dell’uso dismartphone (-15,8%) e videofonini (-7,2%)
registrata negli ultimi due anni, per risparmiare sui costosissimi servizi wap, compensata però
dall’incremento dei consumi basic del cellulare (+21,7%). Il tasso di penetrazione di Internet è del
47%, ma il web rimane ancora uno strumento a cui hanno accesso prevalentemente i giovani
(80,7%) e le persone con titolo di studio più alto (67,2%). Il pluralismo dei mezzi avanza, dunque,
ma il digital divide continua a spezzare in due l’Italia.
In bilico tra digital divide e press divide
Gli italiani che nel 2009 hanno superato la soglia del digital divide sono il 48,7% del totale,
comprendendo anche quanti hanno un rapporto occasionale con la rete: molto meglio del 29% del
2006, ma sempre meno della metà della popolazione complessiva. Il secondo campanello d’allarme
riguarda il ruolo sempre più marginale dei media a stampa, fenomeno che si può indicare
come press divide. Le persone estranee all’uso dei mezzi a stampa sono aumentate dal 33,9% del
2006 al 39,3% nel 2009 (+5,4%). Quindi, più della metà della popolazione italiana si colloca al di
sotto della soglia del digital divide, più di un terzo al di sotto della soglia del press divide, più di un
quarto non conosce alternative alla televisione.
Il pluralismo delle fonti: un processo ancora incompiuto
Il dominio della televisione tradizionale appare netto e incontrastato quando si valuta l’efficacia
attribuita ai media in relazione al bisogno di informarsi sull’attualità politica. Non solo perché il
59,1% degli italiani preferisce affidarsi alla Tv, con punte che raggiungono il 63,1% tra i soggetti
meno istruiti e il 67,7% tra gli anziani, quanto per il distacco rispetto agli altri media. Specialmente
i quotidiani acquistati in edicola, che si attestano al 30,5% e conquistano la fiducia solo del 39,5%
anche delle persone più acculturate. Le emittenti Tv all news si collocano al 10,2%, la radio si
accredita appena con il 9,3% (il 12,5% tra i più istruiti), i portali Internet non superano il 7% (solo
tra i giovani raggiungono il 16,5%). Se si passa nel campo della cronaca, il pluralismo delle fonti
appare ancora più ristretto. Alle emittenti televisive tradizionali si rivolge il 72,4% degli italiani
(addirittura l’81,4% degli anziani), i quotidiani si attestano al 33% e le Tv all news, i portali Internet
e le radio oscillano tra il 10% e l’11%, battuti dal televideo, di cui viene riconosciuta l’efficacia dal
15,3% del pubblico.
Cosa rimane oltre la Tv nella comunicazione politica?
Quando si tratta di scegliere per chi votare, gli italiani si informano principalmente attraverso i
telegiornali (69,3%), come è emerso in occasione delle elezioni del giugno scorso. Al secondo posto
si collocano i programmi giornalistici televisivi di approfondimento (come «Porta a porta» di
RaiUno o «Matrix» di Canale 5) con il 30,6% delle preferenze. Si tratta soprattutto delle persone
più istruite (il dato sale, in questo caso, al 37%), mentre i giovani risultano meno coinvolti da
questo format televisivo (il 22,3% nella classe d’età 18-29 anni). Ai quotidiani si rivolge il 25,4%
degli italiani prossimi al voto, quota che arriva al 34% tra i soggetti più scolarizzati e raggiunge il
35% tra i lavoratori autonomi e i liberi professionisti. I canali Tv all newscontano per il 6,6% degli
italiani maggiorenni, soprattutto maschi (9,3%) e più istruiti (10,2%); i programmi radiofonici
hanno importanza nel 5,5% dei casi; i siti Internet dei partiti nel 2,3%; i blog, i forum di discussione
o i gruppi su Facebook non incidono per più del 2,1% dei casi (tra i giovani il web assume appena
un po’ più di rilevanza, visto che i siti dei partiti arrivano al 6% e i blog al 4,7%). In particolare, i
Tg sono la principale fonte di informazione in base alla quale scegliere per chi votare per il 76% dei
soggetti meno istruiti, il 74,1% delle casalinghe, il 78,7% dei pensionati e l’81,8% degli anziani.
Questi dati assumono maggiore importanza se si considera che solo il 27% dei cittadini dichiarava
di sapere esattamente per chi votare prima delle elezioni. Il 40,4% non aveva ancora scelto
definitivamente il partito (le informazioni servivano, in questo caso, per prendere una decisione
finale), mentre il 32,6% era indeciso sulla partecipazione stessa al voto.
Le chiavi del successo dei social network
Sono 19,8 milioni gli italiani che hanno confidenza con almeno uno dei tanti social
network esistenti.La conoscenza di Facebook e YouTube è massima tra i giovani di 14-29 anni (il
90,3% e l’89,2% rispettivamente), risulta elevata tra gli adulti (il 64,2% e il 64%) e scende
notevolmente solo tra gli anziani (il 24,6% e il 22,9%), tra i quali è l’uso ad essere praticamente
nullo (intorno all’1,5%). Più della metà dei giovani, invece, utilizza Facebook (56,8%) e più di due
terzi YouTube (67,8%), e non è trascurabile l’impiego di YouTube anche tra gli adulti (23,5%).
9. Governo pubblico
Roma, 4 dicembre 2009
La semplificazione che non arriva
Sembra ancora un lontano miraggio la semplificazione normativa che il Paese attende da anni. I
costi sostenuti dalle imprese per conformarsi agli obblighi normativi corrispondono al 4,6% del Pil.
Dopo la Grecia, siamo il Paese dell’area Ocse dove è più costoso avviare un’impresa: occorrono in
media 5.681 dollari contro i 1.960 della Germania, i 347 della Francia, i 318 degli Stati Uniti, i 285
della Gran Bretagna. Ogni impresa italiana è costretta ad effettuare in un anno almeno 15 pagamenti
al fisco, cui vengono dedicate mediamente 334 giornate lavorative: parecchie, se confrontate con
quelle necessarie in Spagna (234), Germania (196), Francia (132) e Regno Unito (105). Per ottenere
una licenza per la costruzione di un magazzino occorrono in media 257 giorni in Italia, 144 in Gran
Bretagna, 137 in Francia, 100 in Germania e 40 negli Stati Uniti.In caso di controversie, l’Italia
detiene anche il triste primato della durata delle azioni di tutela dei contratti commerciali: 1.210
giorni (circa 4 anni), contro 404 giorni in Gran Bretagna, 394 in Germania, 331 in Francia, 300
negli Stati Uniti.
La giustizia italiana alla ricerca di nuovi «fori»
L’Italia è il primo Paese europeo per numero di cause pendenti (3 milioni 688 mila), seguita a
distanza da Francia (1 milione 165 mila) e Spagna (781 mila). Le disfunzionalità del sistema
giustizia continuano a penalizzare i processi di sviluppo e modernizzazione del Paese. Emerge così
una domanda di giustizia disposta a rivolgersi al di fuori del sistema «ordinario» pur di avere
risposte certe in tempi brevi. Tra il 2005 e il 2007 le domande di conciliazione presso le Camere di
commercio aventi per oggetto controversie tra imprese sono più che raddoppiate e gli arbitrati sono
aumentati del 7,1%. Il ricorso ai sistemi extragiudiziali consente non solo di ridurre i tempi di
risoluzione delle controversie, ma anche di contenerne i costi, di cui il Censis stima una incidenza
media sul fatturato aziendale dello 0,8% con un esborso medio annuo di 3.832 euro per azienda
(ovvero una spesa complessiva per il sistema delle imprese pari a 22,9 miliardi di euro).
La digitalizzazione incompiuta della Pa
Il percorso di digitalizzazione della Pubblica Amministrazione, cui sono legate le aspettative di
ammodernamento della macchina pubblica, è arrivato a un bivio. Malgrado i recenti progressi,
l’Italia continua a scontare un netto ritardo in Europa. Rispetto alla media europea del 28%, gli
italiani che ricorrono a Internet per relazionarsi con le autorità pubbliche sono solo il 15%:
percentuali inferiori si registrano solamente in Bulgaria (8%), Romania (9%), Grecia (10%) e
Repubblica Ceca (14%), mentre si collocano molto sopra la media Olanda (54%) e Finlandia
(83%). Al momento risultano disponibili on line i servizi di autocertificazione anagrafica (nel
66,6% dei Comuni), il pagamento dell’Ici (52,6%), la denuncia di inizio attività edilizia (48,5%), la
dichiarazione della tassa di smaltimento dei rifiuti solidi urbani (42,1%), l’autorizzazione unica
Suap (40,5%), l’iscrizione all’asilo nido (24,4%), la concessione dell’occupazione permanente di
suolo pubblico (22,6%), l’assegno per il nucleo familiare (20,7%), il contrassegno di invalidità
(20,1%), la dichiarazione di inizio attività produttiva (19,5%), la concessione del passo carrabile
(19%), l’iscrizione al servizio di mensa scolastica (18,1%) e il pagamento della Tarsu (14%).
10. Sicurezza e cittadinanza
Roma, 4 dicembre 2009
Il difficile equilibrio tra contrasto dell’irregolarità e diritto d’asilo
Secondo l’Unhcr 42 milioni di persone sono costrette alla fuga da guerre e persecuzioni: si tratta di
16 milioni di rifugiati o richiedenti asilo e di 26 milioni di sfollati all’interno del proprio Paese. Il
«peso» dell’asilo grava sull’Europa in maniera contenuta rispetto alle zone più prossime ai Paesi
che non garantiscono i diritti fondamentali: sono più di 3 milioni le persone sotto mandato dell’Alto
Commissariato nel continente europeo (l’8,9% del totale), mentre superano i 10 milioni (30,3%) in
Africa e sfiorano i 17 milioni in Asia (49,1%). Il 75% degli italiani auspica una maggiore forza
decisionale dell’Europa nelle politiche dell’immigrazione e dell’asilo (la media europea si ferma al
63%), e percentuali simili emergono in altri Paesi dell’Europa mediterranea interessati da cospicui
flussi irregolari, come Spagna, Grecia e Portogallo. Le questioni sulle quali gli italiani ritengono
che l’impegno delle istituzioni europee dovrebbe crescere nei prossimi anni sono, dopo quelle
economiche (prioritarie per il 43%), proprio quelle relative all’immigrazione (se lo augura il 34%
della popolazione, rispetto al 23% medio dell’Ue).
Viaggio attraverso le regolarizzazioni
Quella recentemente conclusasi è stata la sesta regolarizzazione di stranieri in Italia dal 1986 ad
oggi: 294.744 domande (180.408 per le colf e 114.336 per le badanti) concentrate soprattutto nelle
grandi città di Milano (il 14,7% delle domande), Roma (10,9%) e Napoli (8,2%), e presentate
prevalentemente da persone di nazionalità ucraina (12,6%), marocchina (12,2%) e moldava
(8,7%). Crescono le presenze di cittadini dell’Europa dell’Est e si registra un processo di
femminilizzazione dei flussi migratori: le donne passano da un quinto del totale dei regolarizzati nel
1986 a quasi la metà di quelli del 2002 e del 2009.
Immigrazione in tempi di crisi
Nell’Unione europea il tasso di disoccupazione tra i lavoratori immigrati è aumentato nel periodo
2007-2009 del 3,1%, a fronte di un incremento dello 0,7% tra gli autoctoni. Anche in Italia è
evidente la situazione di difficoltà nella quale si trovano gli immigrati, e non deve trarre in inganno
la crescita degli occupati stranieri rilevata nel secondo trimestre del 2009 rispetto allo stesso periodo
del 2008 (+184 mila), legata semplicemente alla crescita della popolazione straniera, perché
contestualmente è diminuito il tasso di occupazione dello 0,7%. Negativi anche i dati sugli stranieri
disoccupati o in cerca di lavoro, cresciuti nell’ultimo anno rispettivamente del 2,2% e del 40,8%.
Nel biennio 2007-2008 le compravendite di abitazioni concluse da immigrati sono diminuite del
23,7% e si stima un’ulteriore contrazione del 12,6% nel 2009 (la prima parte dell’anno ha fatto
registrare una diminuzione del 40%). Anche la quota di mutui immobiliari accesi dagli immigrati è
in costante calo dal 2006, quando corrispondeva al 10,1% del totale, poi scesa al 7,6% a fine 2008 e
al 6,6% all’inizio del 2009. È in crescita, invece, il flusso di rimesse in uscita dall’Italia, ma solo in
ragione dell’aumento del numero degli immigrati: gli importi complessivi sono aumentati del 5,6%,
ma è netta la diminuzione delle rimesse pro-capite (-9,6%). L’unico dato in controtendenza
riguarda gli imprenditori stranieri, aumentati del 2,4% tra la fine del 2008 e la prima metà del 2009
(ormai rappresentano il 6% della classe imprenditoriale in Italia).
L’integrazione parte dalla salute
I servizi sanitari pubblici sono molto conosciuti dagli stranieri residenti in Italia: l’89,4%
conosce/utilizza il medico di base, l’84% la Asl e l’81,1% il Pronto soccorso. Servizi apprezzati
dall’utenza straniera: il 48,4% è soddisfatto e il 33,1% mediamente soddisfatto del Servizio
sanitario nazionale, il medico di base raccoglie giudizi positivi nel 70,1% dei casi, la Asl nel 69,8%
e il Pronto soccorso nel 64,5%. La salute degli stranieri sembra comunque migliore di quella degli
italiani: l’85% degli stranieri di sesso maschile e il 75,1% delle femme affermano di sentirsi
«bene/molto bene», a fronte di dati che tra gli italiani si fermano rispettivamente al 75,5% e al
68,1%.Nelle quattro settimane precedenti l’intervista, il 22,8% degli stranieri residenti in Italia ha
sofferto di una malattia acuta, mentre tra gli italiani la percentuale sale al 27,4%. Resta da sfatare il
pregiudizio che vede negli immigrati i responsabili di una possibile recrudescenza delle malattie
infettive in Italia: negli ultimi dieci anni i nuovi casi di tubercolosi diagnosticati sono diminuiti del
16,5% a fronte di una crescita della popolazione straniera residente del 232,2%.
La crescita della contraffazione alimentare
Il fatturato della falsificazione di generi alimentariviene stimato dal Censis in 1.153 milioni di euro,
con un impatto in termini di mancata occupazione di circa 24.300 unità. Nel 2008 le dogane
europee hanno sequestrato 2.434.959 prodotti alimentari contraffatti, corrispondenti all’1,4% del
totale dei prodotti sequestrati, con un aumento del 26% rispetto al 2007.All’interno del territorio
nazionale i Nas hanno sequestrato nel 2008 generi alimentari per un valore complessivo di oltre 159
milioni di euro, in crescita rispetto ai 121 milioni di euro del 2007. E l’Ispettorato centrale per il
controllo della qualità, istituito presso il Ministero delle Politiche agricole, ha svolto nel 2008 più di
37 mila ispezioni, controllando quasi 90 mila prodotti e individuando un 5,5% di prodotti irregolari,
con 543 notizie di reato, 4.547 contestazioni amministrative e un totale di 539 sequestri per un
valore di oltre 181 milioni di euro. Particolarmente lesivo per l’export italiano è il fenomeno
imitativo: il mercato dell’italian sounding vale nel mondo circa 60 miliardi di euro.
Pubblica Amministrazione in terra criminale
Dal 2004 al 2008 sono pervenute alle Forze dell’ordine 19.019 denunce per reati legati alla
corruzione della Pa: il 42,2% concentrato nelle quattro regioni del Sud più interessate da fenomeni
di criminalità organizzata. Negli anni 2007-2009 nelle quattro regioni patria delle organizzazioni
criminali sono stati eseguiti 1.192 interventi della Guardia di Finanza per contrastare le frodi
comunitarie, pari al 42,9% del totale, con il risultato di 1.019 soggetti denunciati (il 64,6% del
totale), 56 arrestati (su 59) e 850,8 milioni di euro di finanziamenti illeciti individuati (il 72,2% del
totale). Di questi, il 41,4% è relativo a fondi agricoli e il restante 58,2% a fondi strutturali. Le truffe
comunitarie sono infatti uno dei settori illeciti emergenti: 5.321 casi di irregolarità segnalati
all’Unione europea nel 2007, per un importo totale stimato di 1.048 milioni di euro. Il nostro Paese
si trova al quinto posto per numero di segnalazioni notificate (1.170), ma al primo posto per
ammontare degli importi irregolari (232,5 milioni di euro). Nel 2008 sono stati recuperati 77
milioni di euro, ma restano da restituire all’Unione europea 409 milioni di euro accumulati negli
anni precedenti.
CENSIS: 43° Rapporto sulla situazione sociale del paese 2009