Tipologia:
sussidi_didattica
Anno:
2011-00-00T00:00:00
Autore:
CNOS-FAP G.Sacconi
A cura di
Giuseppe TACCONI
IN PRATICA.
1. La didattica dei docenti
di area matematica
e scientifico-tecnologica
nell’Istruzione
e Formazione Professionale
con un saggio introduttivo di
Luigina Mortari
CIOFS/FP
Anno 2011
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Coordinamento scientifico:
Dario Nicoli (Università Cattolica di Brescia)
Hanno collaborato:
Matteo D’ANDREA: Segretario Nazionale settore Automotive.
Dalila DRAZZA: Sede Nazionale CNOS-FAP – Ufficio Metodologico-Tecnico-Didattico.
FIAT GROUP Automobiles.
Comunità professionale AUTOMOTIVE: Angelo ALIQUÒ, Gianni BUFFA, Roberto CAVAGLIÀ, Egidio
CIRIGLIANO, Luciano CLINCO, Domenico FERRANDO, Paolo GROPPELLI, Nicola MERLI, Roberto
PARTATA, Lorenzo PIROTTA, Antonio PORZIO, Roberto SARTORELLO, Fabio SAVINO, Giampaolo
SINTONI, Dario RUBERI.
©2011 By Sede Nazionale del CNOS-FAP
(Centro Nazionale Opere Salesiane - Formazione Aggiornamento Professionale)
Via Appia Antica, 78 – 00179 Roma
Tel.: 06 5137884 – Fax 06 5137028
E-mail: cnosfap.nazionale@cnos-fap.it – http: www.cnos-fap.it
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SOMMARIO
1. LA RICERCA VA A SCUOLA (L. Mortari) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5
2. IL PERCORSO DELLA RICERCA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13
3. I RISULTATI DELLA RICERCA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27
4. CONCLUSIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 201
5. BIBLIOGRAFIA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 205
INDICE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 209
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1. La ricerca va a scuola
di Luigina Mortari
La scuola e le altre istituzioni formative sono da tempo bersaglio di ogni possi-
bile critica. Il lavoro degli insegnanti e dei formatori è difficile. Tuttavia, non solo è
poco sostenuto, ma è anche svalutato.
Si dice che chi non sa fare insegna, come se insegnare fosse cosa facile. L’in-
segnamento può essere un’arte, come diceva Dewey, e molti docenti vivono con
impegno il lavoro quotidiano dell’insegnare.
È un mestiere difficile perché di esso non c’è sapere certo; non ci sono manuali
che sappiano indicare agli insegnanti e ai formatori con precisione cosa fare per
trovare buone esperienze educative, quelle che sono di valore per quei precisi al-
lievi che ci si trova di fronte, come trovare le strategie per appassionare all’appren-
dere; come organizzare i tempi in modo che il progetto formativo sia realizzabile,
come costruire i rapporti col territorio ecc. Per affrontare la problematicità del quo-
tidiano, i docenti inventano sapere.
Ma di tutto questo sapere che quotidianamente viene elaborato a scuola non ri-
mane traccia. O meglio rimangono le parole scritte nei documenti burocratici, ma
non rimangono parole capaci di restituire il sapere dell’esperienza educativa. Nel
mondo dell’educazione mancano le “voci dei docenti”.
Da tempo si parla della necessità di una ricerca educativa che si metta in
ascolto delle parole dei docenti, per raccogliere quelle parole che dicono nel vivo
l’esperienza educativa, che svelano quel sapere esperienziale pazientemente co-
struito nel bel mezzo della pratica. La ricerca che qui viene documentata risponde a
questo appello.
La restituzione del lavoro di ricerca può seguire due strade: quella tecnica, che
si limita a dire cosa e come è stato fatto, e quella meditativa, che risale al para-
digma di riferimento e lo esplicita. Noi abbiamo scelto questa seconda opzione.
Esplicitare il paradigma di riferimento, indicare le scelte euristiche di fondo e darne
ragione; in questo modo si consente al lettore di entrare nel vivo del lavoro di ri-
cerca.
1. PRINCIPIO DI UTILITÀ
Secondo Rorty ci sono due modi per interpretare il lavoro di ricerca (1994,
p. 29): quello di oggettività e quello di solidarietà. Fare ricerca nella cornice del
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principio di oggettività significa considerare la verità «come qualcosa che si deve
perseguire per se stessa», mentre per il principio di solidarietà la verità da ricercare
è quella che costituisce un bene per la comunità (Rorty, 1994, p. 30). Secondo
Rorty, un ricercatore che mira alla verità oggettiva non si preoccupa delle persone
reali, ma è interessato alle logiche interne della comunità scientifica. Quelli che in-
vece, adottando la prospettiva solidale, vanno in cerca di una verità utile alla vita
sono definiti da Rorty “pragmatisti” (Rorty, 1994, p. 31). Il pragmatismo interpreta
il lavoro di ricerca non come un lavoro intellettuale che dovendo godere della mas-
sima libertà non è tenuto a tener conto delle cose del reale, ma come lavoro di ser-
vizio. Adottare una visione pragmatista della ricerca significa assumere come prin-
cipio dell’agire quello di utilità, ossia implementare ricerche che possano fornire un
contributo per interpretare e progettare l’azione educativa.
Il sapere pedagogico di origine accademica risulta spesso un sapere non utile,
perché, poco radicato nei problemi reali, quasi disimpegnato, non sa fornire stru-
menti utilizzabili nella problematicità quotidiana. Al ricercatore è richiesto di fare
buone ricerche; è tesi condivisa che una ricerca sia buona quando è considerata va-
lida dalla comunità scientifica; quando un ricercatore o un team di ricerca ritiene di
avere realizzato una buona ricerca, si adopera per pubblicarla su riviste scientifica-
mente accreditate e, per riuscire a pubblicare, è necessario che una ricerca risponda
ai criteri di scientificità in cui si riconosce la comunità scientifica che ha dato vita a
quella rivista. Il problema è che da questo processo è escluso il mondo reale della
pratica educativa, cioè ciò per cui la ricerca educativa ha ragione di essere. La con-
seguenza è che la capacità di una ricerca di fornire indicazioni utili a orientare e
migliorare la pratica educativa non rientra fra i criteri di validazione, mentre indici
rilevanti sono la sua raffinatezza nell’argomentazione teoretica e l’adeguazione a
certi principi metodologici. I pratici, invece, hanno necessità di ricerche capaci di
produrre dati utili per provocare processi di miglioramento dell’azione educativa.
Una ricerca che non sta in ascolto dei problemi veri e che cerca la fonte delle
indagini solo nei libri e nelle riviste scientifiche perde il contatto con la realtà e
così perde il suo valore. Maria Zambrano oppone a un pensiero chiuso “nella ra-
gione”, quindi razionalistico, astratto, autoreferenziale, un pensiero che “entra nella
realtà”, lasciandosi contagiare dai movimenti veri della vita. Certa ricerca che
manca del sapore della realtà, poiché ha reciso il contatto con i problemi veri, si
consuma in un dire senza parola, impassibile e senza vita. Interrompere il dialogo
con la realtà produce un vuoto, evidente nei saperi vacui, inutili, che esauriscono il
loro senso nel momento stesso in cui vengono pronunciati.
La ricerca qui presentata è stata concepita nella prospettiva pragmatista; si
tratta di una ricerca che ha per oggetto d’indagine la pratica didattica dei docenti di
area matematica e scientifica che operano nell’Istruzione e formazione professio-
nale. Il suo obiettivo è quello di documentare il sapere esperienziale dei docenti im-
pegnati ad insegnare queste discipline, attraverso un metodo di ricerca costruito
sulla categoria dell’ascolto.
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Ascoltare i docenti e mettere in parola il loro sapere risponde al criterio di
utilità perché: (a) chiedere di raccontare la pratica significa riconoscere valore ai
docenti; (b) scrivere racconti sulla pratica didattica significa mettere a disposi-
zione un capitale di sapere; gli insegnanti apprendisti, quando entrano nel mondo
della scuola o della formazione, più che di libri hanno bisogno di racconti di
pratica.
2. IL PRINCIPIO DI REALTÀ
Una ricerca solidale in senso pragmatista, cioè utile, ha come necessaria condi-
zione di partire da domande di ricerca generate dall’analisi di problemi veri, ossia
realmente vissuti da coloro per i quali la ricerca viene messa in atto. Per intercet-
tare i problemi veri, è necessario prestare attenzione al reale osservando ma soprat-
tutto ascoltando le voci di chi quotidianamente è impegnato nel difficile lavoro del
fare formazione. Se la ricerca sta in ascolto del reale, se entra nella realtà, non può
non cogliere come un’evidenza per certi aspetti drammatica che la scuola e le altre
istituzioni formative stanno vivendo momenti difficili e che i docenti vivono un
profondo disagio di fronte al difficile del fare scuola.
Un problema fortemente sentito nei Centri di Formazione Professionale è la
didattica dell’italiano e della matematica. Gli studenti mostrano fatica e in certi casi
resistenza nei confronti di queste discipline. In genere scelgono questo tipo di
scuola per la sua impronta pratica, operativa, tecnica; ritrovarsi a interpretare testi
poetici o a calcolare il volume di un solido non è dunque fra i compiti di apprendi-
mento che destano immediato interesse.
Capire cosa fanno i docenti che insegnano queste discipline significa portare
alla luce le strategie che ciascuno di loro mette a punto per affrontare i problemi di-
dattici: come rendere chiaro un concetto, come motivare all’apprendimento di
un’abilità il cui valore non è immediatamente comprensibile; come radicare l’inse-
gnamento di una competenza dentro il mondo della vita dello studente; come aiu-
tarlo a nutrire fiducia nelle sue capacità di apprendere.
Capire cosa fanno i docenti in classe significa accedere alla loro esperienza. È
tesi ampiamente condivisa che l’esperienza debba essere oggetto di investigazioni
di tipo qualitativo. La ricerca qualitativa non è interessata a raccogliere dati su
quelle che vengono definite opinioni di superficie come nella “survey research”
(Merriam, 2002, p. 19), ma assume come oggetto d’indagine i significati che le per-
sone attribuiscono alla loro esperienza e ha come obiettivo di pervenire ad una
comprensione quanto più adeguata possibile del punto di vista dei partecipanti
(Merriam, 2002, p. 6).
A caratterizzare la ricerca qualitativa è quella che viene definita “naturalistic
inquiry”, i cui elementi strutturali (Mortari, 2007) hanno orientato l’organizzazione
della ricerca qui documentata.
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La ricerca è stata sviluppata in un setting naturale, ossia nei luoghi dove il
fenomeno oggetto d’indagine ordinariamente accade. La raccolta dei dati riguar-
danti l’esperienza vissuta va effettuata nell’ambiente di vita dei partecipanti, dove
il ricercatore può avere rapporti diretti con loro e avere accesso ad informazioni
che, non previste, possono essere di aiuto per una corretta interpretazione dei dati.
Il principio di aderenza alla realtà così come accade obbliga anche, tenendo conto
che l’oggetto d’indagine è l’esperienza dei partecipanti, ad assumere come dati le
loro produzioni linguistiche quotidiane, e non materiale strutturato in modo forma-
listico come sono le brevi frasi decontestualizzate proprie delle interviste prestrut-
turate, o i dati desensibilizzati funzionali alle analisi computazionali (Polkinghorne,
1995, p. 6).
Nella ricerca quantitativa è importante disporre di un campione rappresenta-
tivo della popolazione. Anche la ricerca qualitativa può essere interessata a questo
tipo di campionamento, ma in genere, avendo per obiettivo la comprensione appro-
fondita di una questione, tende a preferire che l’individuazione dei partecipanti
segua il principio del “purposeful sampling” (Merriam, 2002, p. 12), che va alla ri-
cerca di quelli che – alla luce di criteri definiti sulla base della domanda di ricerca –
si qualificano come informatori significativi. Sulla base di questo principio, per in-
dividuare i partecipanti ci siamo lasciati guidare dalle indicazioni di chi ha cono-
scenza delle scuole dove si attivava la ricerca.
La ricerca qualitativa considera il ricercatore il vero strumento per la raccolta
dei dati; per tale ragione sono esclusi dalla borsa degli attrezzi tutti i vari tipi di stru-
menti standardizzati, per richiedere invece al ricercatore un processo di autoforma-
zione che lo renda capace di attivare con i partecipanti interazioni feconde per
quanto riguarda la raccolta dati. Questo modo di intendere la competenza del ricerca-
tore ha richiesto diversi incontri di formazione, non solo prima di andare sul campo,
ma anche dopo che i primi dati erano stati raccolti, perché l’analisi di questi consen-
tiva di mettere a fuoco punti di forza e punti deboli delle competenze di ciascuno.
Partendo dal presupposto che la realtà presenta un livello di complessità tale
da non essere comprimibile entro nessun approccio conoscitivo predefinibile, la
“qualitative inquiry” valuta epistemicamente riduttivo strutturare il disegno della
ricerca in modo dettagliato e definitivo già prima di accedere al campo e preferisce
invece una definizione rigorosa ma non definitiva, per consentire al disegno di ri-
cerca di modularsi sulla qualità dei fenomeni che indaga. Di conseguenza l’im-
pianto epistemico all’inizio è stato codificato solo nella sua struttura generale, per
poi definirsi gradualmente, sulla base di una continua valutazione dell’andamento
del processo epistemico. A coloro che si muovono nell’orizzonte del paradigma po-
sitivistico questa concezione evolutiva della ricerca appare discutibile perché giudi-
cata non rigorosa. I ricercatori naturalistici, invece, considerano questa flessibilità
un requisito di alto valore epistemico perché costringe ad adattare continuamente il
disegno al profilo delle strutture morfogenetiche dei fenomeni così come si ven-
gono delineando nel corso dell’azione.
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Impegnarsi a definire nel modo più preciso possibile il disegno di ricerca, anti-
cipando tutti i possibili nodi critici che si possono presentare e ipotizzando disposi-
tivi risolutivi è compito inaggirabile per il ricercatore, ma se si ritenesse concluso il
lavoro di progettazione allora si cadrebbe nell’errore di recintare il processo euri-
stico dentro piani che, per quanto raffinati, mai possono pretendere di anticipare
ogni aspetto dei fenomeni. La traduzione del concetto di pianificazione dell’atto
euristico in una formalizzazione cristallizzata dello stesso solo apparentemente è
espressione di razionalità; in realtà opera una razionalizzazione del reale che ha
come effetto quello di alienare al ricercatore pezzi di realtà.
Come risulterà dalla ricostruzione dell’esperienza, la ricerca qui presentata ha
tutte le caratteristiche di una “naturalistic inquiry”, perché: la raccolta dei dati è
avvenuta in un setting naturale; i partecipanti alla ricerca sono docenti che hanno
aderito in modo volontario: tutti sono stati considerati informatori competenti
poiché hanno esperienza didattica; il disegno della ricerca ha avuto un carattere
emergenziale e ha visto una continua ridefinizione del progetto di ricerca ma anche
del sistema di analisi dei dati, secondo una procedura rigorosamente induttiva.
3. IL PRINCIPIO DELL’ASCOLTO
Per documentare il sapere esperienziale che andavamo cercando abbiamo
chiesto ai docenti di parlare della loro esperienza in aula; per raccogliere i dati di
ricerca abbiamo utilizzato la tecnica dell’intervista.
L’intervista narrativa assume come “core question” da formulare ai docenti di
raccontare quello che fanno. Si può affermare che quando il pratico racconta quello
che ha fatto in una precisa situazione rispetto ad un preciso problema dia voce alla
sua conoscenza della pratica. Non sembra azzardato attribuire lo statuto di cono-
scenza pratica a quello che i docenti raccontano, perché raccontando quello che
fanno non enunciano idee astratte, che possono non avere nessuna relazione con la
pratica, ma parlano di pratiche agite e delle teorie che le supportano, teorie espe-
rienziali, costruite nel tempo e messe continuamente alla prova dei fatti; quello che
emerge dal racconto può essere considerato sapere pratico. Poiché i docenti quando
raccontano tendono a focalizzare il discorso su alcuni aspetti dando per scontato
che altri sono di poco interesse; per portare alla parola nella sua estensione e nella
sua profondità il sapere educativo esperienziale è necessario realizzare un modello
ricorsivo di intervista, che prevede da parte del ricercatore di iterare più volte
l’intervista fino a quando si perviene ad una saturazione del racconto.
L’intervista narrativa è uno strumento privilegiato di ricerca quando si vuol
indagare l’esperienza, poiché si può attribuire una forte capacità euristica a quei
resoconti verbali che consentono di ricostruire la tessitura degli eventi. Compito
dell’intervistatore è ascoltare con un’attenzione aperta al dire dell’altro, attivando,
per quanto possibile, un atteggiamento ricettivo, che non lascia spazio all’inter-
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vento degli abituali criteri di giudizio. Ciò significa che quando l’intervistato rac-
conta le sue azioni ed esplicita le sue “working theories”, l’intervistatore deve aste-
nersi da qualsiasi valutazione limitando il suo compito a formulare domande che
promuovano nell’intervistato un esame sempre analitico dell’esperienza.
Il grado di utilità di una ricerca non dipende solo dal tipo di risultati cui
perviene, ma anche dalle procedure euristiche attivate. In questo caso l’intervista
narrativa consente non solo di accedere all’esperienza didattica dei partecipanti, ma
si rivela anche come strumento di attivazione di un setting formativo. Un’intervista
narrativa che chiede di ripensare all’azione didattica ordinaria e di ricostruirla nel
modo più analitico possibile e attivando uno sguardo critico si struttura come un
setting formativo, perché incrementa le capacità riflessive e di revisione critica del
proprio operare. Inoltre non è da sottovalutare la ricaduta simbolica di questa
azione, perché chiedere ai docenti di mettere in parola il loro sapere quotidiano
significa riconoscere loro il ruolo di artefici del sapere pedagogico. Si sa per espe-
rienza come il vedere riconosciuto il proprio lavoro costituisca una molla propul-
siva per continuare ad impegnarsi nella produzione di sapere.
4. IL PRINCIPIO DEL RISPETTO
Sin dall’inizio abbiamo optato per un impianto di tipo naturalistico, perché tale
interpretazione liberale del metodo consente di riaggiustare il progetto sulla base
delle informazioni che il ricercatore ricava mentre l’indagine è in corso. Così
quando ci siamo trovati a leggere i dati per avviare un’analisi di tipo paradigma-
tico, abbiamo dovuto sostare e pensare. Le interviste spesso restituivano l’espe-
rienza a frammenti, non erano ben leggibili; fin tanto che si era dentro la ricerca il
materiale parlava, poi sottoposto alla trascrizione e al processo di analisi paradig-
matica si impoveriva.
Dopo aver riletto più volte i testi, ho pensato che fosse necessario intervenire
in modo trasformativo sulle trascrizioni, al fine di renderle di più facile fruizione al
lettore. Perché se una ricerca dev’essere utile ai pratici allora i dati debbono essere
presentati in modo da facilitare il loro uso.
La decisione di procedere in questo intervento di testualizzazione non è stata
facile da prendere, poiché la filosofia fenomenologica che da tempo costituisce
l’orizzonte di riferimento del mio lavoro di ricerca induce ad evitare interventi
significativi sui dati, poiché considerati contrari al principio di fedeltà che chiede di
restituire un fenomeno nella sua datità originaria.
Certamente più si manipolano i dati più aumenta il rischio di venir meno al
principio del rispetto per l’alterità dell’altro, tuttavia applicare il principio di fedeltà
non necessariamente si traduce nell’evitare in modo radicale interventi sul testo.
Piuttosto da cercare è un intervento che sia capace di restituire del testo tutta la sua
forza tematica e la sua specificità linguistica. Dalle interviste si è così ricavata una
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serie di brevi racconti esperienziali che condensano l’expertise didattica di cui i
docenti ci hanno parlato.
Gli outcome specifici di questa ricerca sono dunque di due tipi:
(a) la procedura di analisi, che sviluppa un intervento trasformativo sul testo er-
meneuticamente presidiato, in modo da garantire il principio del rispetto della
qualità originaria del materiale e, allo stesso tempo, la valorizzazione estetica
delle parole raccolte;
(b) i resoconti esperienziali che danno voce ai docenti portando all’evidenza un
sapere didattico che altrimenti tenderebbe a rimanere tacito.
5. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
ERLANDSON D.A., HARRIS E.L., SKIPPER B.L., ALLEN S.D. (1993), Doing Naturalistic Inquiry, Sage,
Newbury Park.
MERRIAM S.B. AND ASSOCIATES (2002), Qualitative research in practice, Jossey-Bass, San Francisco,
CA.
MORTARI L. (2007), Cultura della ricerca e pedagogia, Carocci, Roma.
MORTARI L. (2009), Ricercare e riflettere, Carocci, Roma.
NIAS J. (1989), Primary teachers talking. A study of teaching as work, Routledge, London.
POLKINGHORNE D.E. (1995), Narrative configuration in qualitative analysis, in «International Journal
of Qualitatives Studies in Education», 8/1, pp.5-23.
RORTY R. (1994), Scritti Filosofici. Volume I, Laterza, Bari [tit. or. Essays on Heidegger and Others
Philosophical Papers. Vol. I, Cambridge University Press, Cambridge 1991].
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2. Il percorso della ricerca
La ricerca che viene qui presentata si inserisce all’interno di un progetto più
ampio, di durata biennale, intitolato “Didattica dell’italiano e della matematica
nell’IFP” e commissionato nel 2008 dalla Federazione Nazionale CNOS-FAP1 al
Centro di Ricerca Educativa e Didattica (Cred) del Dipartimento di Filosofia,
Pedagogia e Psicologia dell’Università di Verona.
L’intento della ricerca era di individuare alcuni elementi di quel sapere pratico
sull’insegnamento che è rinvenibile nelle pratiche di formatori2, alle prese con
specifici ambiti disciplinari nel sistema dell’Istruzione e formazione professionale
regionale3.
Questo primo volume intende dar conto della parte della ricerca che ha coin-
volto i docenti di area matematica e di area scientifico-tecnologica. Un secondo vo-
lume presenterà i risultati dell’analoga ricerca condotta parallelamente con i forma-
tori che operano nell’area dei linguaggi.
Mentre la ricerca pedagogica che va sotto il nome di “analisi delle pratiche
educative” risulta essere attualmente un cantiere effervescente in Italia4 e un filone
consolidato in ambito internazionale, soprattutto in area francese e anglosassone5,
non esiste una ricerca empirica altrettanto robusta sulle pratiche dei formatori che
operano nel contesto della formazione professionale iniziale e in particolare del
1 La Federazione Nazionale CNOS-FAP (Centro Nazionale Opere Salesiane - Formazione e
Aggiornamento Professionale) è un’Associazione senza fini di lucro, costituita il 9 dicembre 1977, che
coordina tutte le realtà italiane gestite dalla congregazione salesiana, che sono impegnate a promuovere
un servizio di pubblico interesse nel campo dell’orientamento, della formazione e dell’aggiornamento
professionale, ispirandosi allo stile educativo di San Giovanni Bosco.
2 Chiedo scusa fin d’ora se, in questo lavoro, per indicare i formatori e le formatrici o gli allievi e
le allieve, utilizzerò prevalentemente i termini maschili. Lo faccio solo per esigenze di brevità.
3 Per inquadrare le caratteristiche principali del contesto dell’IFP e della sua recente evoluzione,
posso rimandare ad uno “Speciale” della rivista “Tuttoscuola” (n. 505/2010), intitolato appunto “Tutto-
formazione”, in cui è inserito anche un mio contributo sull’articolazione del sistema (cfr. Tacconi,
2010a).
4 Il filone di ricerca pedagogica che va sotto il nome di “analisi delle pratiche” è molto sviluppato
(per uno sguardo articolato sul panorama nazionale e internazionale di questo tipo di ricerca, cfr. Da-
miano, 2006; Laneve, 2010) e riguarda prevalentemente l’ambito scolastico (su questo, cfr. anche la
ricerca presentata in Mortari, 2010, a cui ha collaborato anche chi scrive).
5 Per quanto riguarda l’area francese, basti ricordare qui i lavori di Marguerite Altet (compendiati
in Altet, 2003), che è stata tra i fondatori del Réseau Open (Observation des pratiques enseignantes)
francese. Per quanto riguarda l’area anglosassone, si può citare il lavoro dell’Isatt (International Study
Association on Teachers and Teaching). Tra i lavori più significativi in ambito anglofono, mi piace
segnalare i seguenti: Day, 2004; Bain, 2004; Jackson, 2009, che sono stati per me di ispirazione non
solo in questa ricerca.
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sottosistema italiano dell’Istruzione e Formazione Professionale regionale6. Per
questo si è sentita l’esigenza di realizzare il presente lavoro, che può essere inse-
rito a tutti gli effetti all’interno dell’approccio dell’analisi delle pratiche, con l’uti-
lizzo del metodo di impronta fenomenologica messo a punto da Luigina Mortari
(2007; 2010; cfr. anche Van Manen, 1990). La fenomenologia, infatti, in forza di
una radicale apertura al dato, guida ad un lavoro di descrizione e di analisi delle
esperienze – nel nostro caso le pratiche didattiche – che aiuta a coglierne le speci-
ficità essenziali.
1. I PARTECIPANTI
Nel corso di circa un anno e mezzo, dal mese di maggio 2008 al mese di ot-
tobre 2009, hanno partecipato a questa parte della ricerca 45 formatori e formatrici
di area matematica e/o scientifico-tecnologica, appartenenti a Centri di Formazione
Professionale (CFP) prevalentemente della Federazione Nazionale CNOS-FAP
(solo un piccolo gruppo è costituito da formatori/trici di un CFP della Federazione
CIOFS-FP7), presenti nelle seguenti Regioni italiane: Veneto, Lombardia, Pie-
monte, Liguria, Umbria, Lazio, Sicilia.
14 formatori (8) e formatrici (5) di area matematica o scientifico-tecnologica
dei CFP salesiani di Verona, Mestre, Padova e Milano, operanti prevalentemente
nei settori meccanico, elettromeccanico e grafico dei percorsi di formazione profes-
sionale iniziale e 1 formatore del CFP di Fossano sono stati intervistati individual-
mente; 50 formatori e formatrici, operanti nei più diversi settori della formazione
professionale iniziale, sono stati coinvolti complessivamente in 5 Focus Group
(FG) o interviste di gruppo. Circa venti partecipanti hanno preso parte a più mo-
menti di raccolta: intervista individuale e/o uno o più FG, in una prospettiva che
prevede una certa ricorsività nella raccolta dei dati.
Tutti i formatori coinvolti condividono, oltre all’appartenenza a realtà sale-
siane8, anche una certa cultura della formazione, pur provenendo, come indicato
sopra, da diversi contesti regionali. La quasi totalità dei formatori intervistati indi-
vidualmente ha maturato almeno 5 anni di esperienza di insegnamento nell’Istru-
6 Per quanto riguarda l’ambito della formazione professionale, posso citare alcuni miei lavori di
questi anni: Tacconi 2007a; 2007b; 2009a. Un insieme di 4 ricerche, ispirate ad un approccio analogo
a quello seguito in questa, è stato poi realizzato da chi scrive e da Gustavo Mejia Gomez nel contesto
dei CFP del CIOFS-FP presenti nella Regione Puglia (cfr. Tacconi, Mejia Gomez, 2010).
7 Il CIOFS-FP (Centro Italiano Opere Femminili Salesiane) è un ente analogo al CNOS-FAP,
che fa riferimento alla Congregazione delle suore salesiane (Figlie di Maria Ausiliatrice, FMA). Si
sono voluti includere nella presente ricerca anche i dati relativi ad un piccolo gruppo di formatori di
un CFP del CIOFS-FP di Padova, che erano stati raccolti secondo la stessa metodologia, nell’ambito
di una ricerca analoga, ma che non erano ancora stati adeguatamente utilizzati.
8 Solo un partecipante ad uno dei FG appartiene però alla Congregazione salesiana in quanto
religioso. In tutti gli altri casi, si tratta di personale dipendente laico.
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zione e Formazione Professionale (IFP) e, nella maggior parte dei casi, hanno
avuto esperienze di insegnamento, prevalentemente supplenze, anche in altri ordini
di scuola. Tra i partecipanti ai FG invece, erano presenti anche formatori con meno
anni di esperienza.
I partecipanti alla fase delle interviste individuali sono stati prevalentemente
scelti, su segnalazione dei direttori dei rispettivi CFP, tra i docenti che i colleghi
considerano essere particolarmente esperti. Ai FG hanno invece partecipato i do-
centi che, su base elettiva, prendevano parte a degli incontri (estivi o autunnali) for-
mativi e informativi, organizzati dalla sede nazionale del CNOS-FAP per i docenti
di area culturale dei CFP salesiani sparsi in Italia.
2. IL GRUPPO DI RICERCA
La ricerca è stata condotta prevalentemente da chi scrive, con la supervisione
costante di Luigina Mortari, coordinatrice del Cred di Verona. Alla riflessione ini-
ziale sull’impostazione da dare alla ricerca e a diverse fasi della raccolta dati hanno
partecipato anche altri colleghi, che verranno di volta in volta nominati.
L’approccio scelto porta a considerare i partecipanti stessi parte integrante del
gruppo di ricerca.
Il fatto che nessuno di chi scrive o di chi ha collaborato alla conduzione della
ricerca si occupi specificamente di didattica della matematica o delle scienze, dato
che tutti sono impegnati nella ricerca in didattica generale e/o nella formazione dei
formatori, ha reso particolarmente essenziale, per la qualità del lavoro di ricerca
stesso, la costruzione di quella solida e proficua alleanza tra ricercatori e pratici
(cfr. Damiano, 2006) che è comunque il presupposto di qualsiasi ricerca educativa
che intenda essere anche utile ai pratici.
Riguardo a tutto il processo, da parte di chi scrive e di tutti coloro che hanno
collaborato alle prime fasi della ricerca, è stato tenuto un diario di ricerca e un
diario della vita della mente (Mortari, 2007), che hanno consentito di conservare
traccia dell’evoluzione del progetto, dei suoi snodi principali, e di esplicitare le
idee e i problemi che scaturivano nel processo di ricerca e le ragioni delle scelte
che venivano di volta in volta compiute.
È solo quando riflette accuratamente su se stessa, infatti, che una ricerca ha la
possibilità di dirsi rigorosa. Nel dar conto delle fasi della ricerca, attingeremo am-
piamente alle note stese in questi diari.
3. LE FASI DELLA RICERCA
Nella sua prima fase, la ricerca si è concentrata su quattro CFP salesiani, quelli
di Mestre, Milano, Verona e Padova, i primi tre appartenenti al CNOS-FAP, l’ul-
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timo al CIOFS-FP9. Successivamente, la ricerca si è allargata ad indagare l’espe-
rienza di formatori e formatrici provenienti da CFP salesiani sparsi in altre Regioni
d’Italia, che si riunivano per partecipare ad uno degli incontri formativi e di rac-
cordo che la Sede Nazionale del CNOS-FAP organizza periodicamente (general-
mente all’inizio dell’estate e in autunno) per i docenti di una specifica area o set-
tore disciplinare, in questo caso l’area matematica e scientifico-tecnologica.
I ricercatori10 hanno dapprima contattato personalmente i direttori dei Centri
coinvolti, spiegando loro il taglio della ricerca, i criteri di scelta dei partecipanti e
concordando con loro le modalità di gestione di un primo incontro con il gruppo
dei docenti che i direttori stessi avrebbero indicato come rispondenti alle caratteri-
stiche proposte dal gruppo di ricerca (formatori considerati, per la loro esperienza,
punti di riferimento da parte dei loro colleghi). Il colloquio preliminare con i diret-
tori è servito anche a raccogliere elementi utili di conoscenza dei contesti locali.
Gli incontri con il gruppo dei docenti coinvolti hanno consentito innanzitutto
di esplicitare il senso del lavoro e il tipo di coinvolgimento che sarebbe stato loro
richiesto e poi di concordare un calendario per la realizzazione delle visite in aula,
per l’osservazione etnografica, e successivamente per le interviste.
Dopo questi incontri, sono iniziate le fasi di raccolta e di analisi dei dati che
sono procedute simultaneamente e parallelamente.
3.1. L’osservazione etnografica
L’osservazione etnografica (Ronzon, 2008) è stata condotta, nei mesi di aprile
e maggio 2008, dai ricercatori, durante alcune ore di docenza tenute dagli inse-
gnanti che sarebbero poi stati intervistati, nei quattro CFP da cui la ricerca ha preso
le mosse. Per le visite, si è rivelato molto importante un colloquio previo con i sin-
goli docenti, per precisare loro il senso di tale attività di osservazione e ridurre così
l’“ansia da valutazione” che la presenza di un osservatore esterno in classe inevita-
bilmente comporta. Altrettanto utile è stato curare in aula una brevissima presenta-
zione di questa azione alla classe, che consentisse agli allievi di comprendere il
motivo per cui eravamo lì e il fatto che per noi era importante osservare i loro do-
centi per imparare da loro qualcosa su come si insegna.
I ricercatori che hanno partecipato come osservatori a tali lezioni hanno steso
delle note di campo, ma l’esigenza di fondo di questa azione non era quella di rac-
cogliere dati, attraverso un impiego “puro” dei metodi etnografici, ma quella di co-
struire uno sfondo che consentisse poi di leggere le pratiche narrate dai formatori.
Avendo infatti prevalentemente esperienza di scuola, volevamo avvicinarci al la-
9 Va precisato che qui si presenta una parte della ricerca, quella che ha coinvolto i docenti di ma-
tematica e scienze. Il lavoro però è proceduto parallelamente anche con i docenti di italiano. Di questa
parte, si darà conto in una prossima pubblicazione.
10 Alla fase iniziale della ricerca – soprattutto la raccolta delle interviste – hanno partecipato,
oltre a chi scrive, anche il Prof. Alberto Agosti e il dott. Claudio Girelli, che si ringraziano per il com-
petente e generoso apporto.
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voro quotidiano dei formatori di CFP e raccogliere alcuni elementi per rappresen-
tarci le azioni che poi ai docenti sarebbe stato chiesto di narrare. L’utilizzo di
questa tecnica ha avuto un positivo effetto a livello di processo (andando poi ad in-
cidere sul clima complessivo delle interviste) ed ha consentito ai ricercatori di ca-
larsi nel vivo delle situazioni didattiche, ma non è servita per raccogliere dati con-
cretamente utilizzabili nella ricerca.
3.2. Le interviste
La prima tecnica di raccolta dati impiegata è stata l’intervista narrativa focaliz-
zata (cfr. Mortari, 2007). Le 14 interviste realizzate inizialmente, nei vari CFP dai
quali ha preso avvio la ricerca, a formatori di area matematica e scientifico-tecnolo-
gica, sono state condotte seguendo una traccia indicativa ed hanno avuto una durata
di circa un’ora ciascuna. Più che una griglia di domande, come intervistatori, abbia-
mo ritenuto opportuno concentrarci su una serie di fuochi, lasciando libero corso alla
narrazione da parte dei docenti intervistati. L’attenzione è stata infatti prevalente-
mente rivolta a far generare descrizioni dense e accurate (cfr. Van Manen, 1990) del-
la pratica11, che, del resto, difficilmente può essere detta, se non in forma di racconto.
Traccia di riferimento (indicativa) per le interviste
Dati
- Quanti anni hai? Da quanti anni insegni? In quale area disciplinare? In quale Settore? Hai insegnato anche
in altri tipi di scuola?
Domande sul fare:
- Che cosa fai quando insegni? Potresti fare degli esempi?
- “Fammi capire come fai questo...”.
- Quali sono i nuclei di sapere che ritieni essenziali nella tua disciplina?
- Che cosa ti riesce meglio insegnare? Potresti raccontare un esempio?
- Che cosa ti riesce meglio insegnando? Potresti raccontare un esempio?
- Quali unità trovi più difficili? Potresti descriverne una?
- Quali strategie trovi ti siano più utili?
Domanda sui processi generativi della competenza pratica:
- Dove hai imparato a fare quello che fai?
Feedback sull’intervista:
- Come ti sei sentito/a in questa intervista?
Le interviste nascevano esplicitamente con l’intento di “dar voce” ai formatori
(Elbaz-Luwisch, 2005), di attribuire loro lo statuto di fonti del sapere sull’insegna-
mento, a partire dal presupposto che, nella didattica, il sapere davvero rilevante è
quello dell’azione (cfr. Damiano, 2006, pp. 86-124) e che, per accedere a tale sa-
pere, è indispensabile nutrire fiducia nelle storie di cui sono depositari gli attori
(cfr. Grassilli, Fabbri, 2003; Lackey, Sosa, 2006). Particolare cura è stata perciò de-
dicata a creare un setting in cui le persone potessero sentirsi se stesse, vedersi come
11 Ci interessava insomma raccogliere racconti di pratica e non pensieri generali sulla pratica.
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portatrici di una conoscenza davvero rilevante per i ricercatori (autenticamente in-
teressati ad apprendere da loro e privi di intenti valutativi) e raccontare le proprie
esperienze. Con tutti i partecipanti si è riusciti a costruire una relazione davvero fi-
duciosa e cordiale12.
Ci siamo ripetutamente chiesti se una ricerca che si proponeva di analizzare le
pratiche a partire dai racconti di pratica poteva davvero consentirci di andare oltre i
pensieri dei docenti “sulla” pratica e di accedere ad alcuni elementi di pratica effet-
tiva. Ammesso che esista un qualche metodo che consenta di accedere alla pratica
“effettiva” (e, attraverso le osservazioni etnografiche, ci eravamo già resi conto che
anche queste producevano “solo” dei racconti, le nostre versioni della pratica osser-
vata), abbiamo ritenuto che fosse utile adottare qualche accorgimento, per evitare
di raccogliere solo pensieri generali sulla formazione professionale iniziale. Ci è
sembrato che, sollecitando i docenti ad esemplificare, a raccontare con ricchezza di
particolari aneddoti ed episodi, i racconti avrebbero potuto avvicinarsi maggior-
mente alla pratica e restituirne con maggiore densità alcuni elementi, pur attraverso
la prospettiva soggettiva del pratico narratore.
I docenti hanno risposto brillantemente alle nostre sollecitazioni. I loro rac-
conti sono ricchi di particolari, tanto da consentirci spesso di “vedere” il colore
della pratica, di sentirne l’odore e il sapore13. Spesso poi abbiamo notato che, nel
raccontare gli episodi, i docenti avvertivano l’esigenza di riportare frammenti del-
l’interazione verbale che essi intrattengono continuamente con i loro allievi (come
si potrà notare, è infatti molto frequente il ricorso da parte loro al discorso diretto),
restituendo così qualcosa di quella conversazione che si identifica col processo
stesso di insegnamento-apprendimento. Per quanto lo scarto tra qualsiasi racconto e
la pratica rimanga incolmabile, possiamo dire che i racconti dei nostri formatori ci
avvicinano in modo intensivo alla pratica stessa, perché ce ne fanno cogliere aspetti
che vanno ben oltre la superficie.
I testi delle interviste sono stati audio-registrati, accuratamente trascritti14 e in-
seriti in una matrice che ne facilitasse l’analisi. Qui di seguito riportiamo la matrice
utilizzata:
12 Come afferma E. Wenger: «...bisogna chiedere alle persone cosa fanno nel loro lavoro [...]. La
comunità di lavoro dice: “Questo è un posto dove si impara”. Ma dovrai ottenere abbastanza fiducia
perché le persone comincino a parlare dei propri problemi in maniera reale, e non nel modo in cui sa-
rebbe meglio presentarli al cospetto dei propri manager (gli stessi che, a fine anno, dovranno valutare
le loro prestazioni)» (Wenger 2006, p. 314).
13 Possiamo notare fin d’ora una certa relazione tra il loro approccio “sensibile” alla pratica di-
dattica in relazione alla matematica e il loro approccio altrettanto “sensibile” al racconto della pratica.
14 Nella trascrizione dei testi, abbiamo adottato delle convenzioni che riportiamo qui di seguito:
- ... = sospensione nel parlato;
- testo - = inciso;
“...” = discorso diretto nel testo oppure particolare enfasi data ad una espressione;
(testo normale) = un’aggiunta redazionale, resa necessaria da esigenze di comprensibilità;
(testo in corsivo) = notazioni del ricercatore sul non verbale;
[...] = testo (parole o frasi) eliminato.
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Intervista (Codice)
Data: ....................., ora: .........; luogo: ........................................................; durata dell’intervista: ...................;
età: ......; anni di insegnamento: ......; discipline insegnate: ......; Cfp di appartenenza: ........................................;
altro: .......................................................................................................................................................................
Nr. progressivo Parlanti Unità di testo Etichette Categorie
1. Parlante 1 Testo della domanda...
2. Parlante 2 Testo della risposta...
Il processo di analisi dei dati delle interviste ha comportato continue letture e
riletture dei testi. Inizialmente, ho proceduto intervista per intervista, cercando di
individuare le unità di testo significative rispetto all’oggetto della ricerca, di attri-
buire loro delle etichette concettuali, di far lentamente emergere le principali cate-
gorie. Non sono partito da un sistema di categorie ben definito, con cui andare a
“pescare” nei dati, ma ho cercato di far emergere temi e categorie dai testi stessi,
secondo il principio fenomenologico della fedeltà al dato (Mortari, 2007; 2010). In
tutto questo processo non c’è nulla di automatico. I passaggi sono stati ripetuti
varie volte e essenziali sono stati i momenti di confronto con chi supervisionava la
ricerca. In seguito a queste riflessioni, si è deciso di focalizzare l’attenzione su
unità narrative, i racconti di pratica, per evitare il rischio di vivisezionare la pratica
stessa sottoponendola ad un eccesso di analisi.
3.3. La raccolta di materiali elaborati dai docenti e dai CFP
I formatori, durante le interviste, sono stati invitati a mostrare (e, quando pos-
sibile, a procurare in formato elettronico) vari materiali di lavoro o prodotti tipo
degli allievi, ma anche i progetti regionali (i loro “programmi”), le unità di appren-
dimento da loro elaborate, i libri di testo. Questo ci ha consentito di raccogliere una
notevole quantità di materiali, che ci hanno aiutato a “leggere” meglio i racconti di
pratica raccolti.
Inoltre, presso la Sede Nazionale della Federazione, è stato possibile acquisire
altri materiali: quelli elaborati nell’ambito di laboratori nazionali per la realizza-
zione di unità di apprendimento (Centro Risorse Educative per l’Apprendimento -
CREA), oltre ai vari documenti (ricerche, progetti, raccolte di buone pratiche ecc.)
pubblicati negli ultimi anni dalla Sede Nazionale del CNOS-FAP15.
3.4. I Focus group realizzati nell’estate 2008 (FGMat1, 2 e 3)
Nell’estate del 2008, abbiamo condotto tre Focus Group (FG) a Roma, della
durata di circa due ore ciascuno, con circa 10 formatori per gruppo, nell’ambito di
un incontro formativo di formatori di Centri CNOS-FAP convenuti a Roma da di-
15 Per accedere a tutti questi materiali, che sono prevalentemente disponibili in rete, cfr. il sito
della Federazione CNOS-FAP: http://www.cnos-fap.it/.
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verse Regioni italiane. I FG sono stati condotti ciascuno da un ricercatore16, sulla
base di una griglia. Anche qui, la focalizzazione prevalente era sulla raccolta di nar-
razioni di aneddoti, di episodi di pratica professionale. Anche se il FG rappresenta
una tecnica differente dall’intervista (cfr. Albanesi 2004; Zammuner 2003), perché il
racconto di un partecipante influenza inevitabilmente il racconto degli altri, propo-
nendo associazioni e attivando ricordi, l’attenzione dei conduttori è stata rivolta non
tanto ad animare una discussione sui temi proposti, quanto a stimolare la narrazione
di episodi da parte di tutti coloro che desideravano intervenire. Quello che emerge
dai FG è dunque prevalentemente una raccolta di altri racconti, in qualche modo as-
similabili ai materiali raccolti attraverso le interviste, nella prima fase della ricerca.
Traccia (indicativa) per la realizzazione dei FG dell’estate 2008
– Pensate ad un contenuto difficile e rilevante, in ordine al vostro ambito disciplinare, e descrivete come siete
riusciti a provocare un buon apprendimento in relazione a questo (si tratta di descrivere analiticamente le
azioni, di raccontare cosa si è fatto per rendere efficaci questi momenti).
– Partendo dal presupposto che è importante costruire un collegamento tra asse tecnico-professionale e assi
culturali, raccontate degli esempi ben riusciti di raccordo (ossia: come, attraverso l’organizzazione del mo-
mento professionale, siete riusciti a facilitare l’apprendimento di contenuti disciplinari?)
– Ritenete di aver inventato qualche strategia particolarmente efficace per risolvere uno specifico problema di
apprendimento (ad esempio: per far tenere l’attenzione sul compito, per facilitare l’acquisizione di contenuti
specifici, per far apprendere modi di pensare...)? Provate a raccontarla.
Anche i testi di queste interviste di gruppo sono stati audio-registrati, accurata-
mente trascritti17 e inseriti all’interno di una matrice analoga a quella utilizzata per
analizzare i testi delle interviste. L’analisi dei testi dei FG è stata condotta leggendo
e rileggendo i testi stessi, cercando di individuare le unità narrative significative in
ordine all’oggetto della ricerca, di titolare i singoli racconti (operazione questa che
corrisponde all’etichettatura) e di raggruppare poi i titoli per affinità, facendo così
emergere un sistema di categorie18, articolate per livelli.
3.5. La raccolta di dati integrativi
Per ogni azione di raccolta dei dati (interviste e FG), è stato costruito un “testo
unico”, contenente tutti i testi raccolti nel corso di quell’azione. I testi unici sono i
seguenti: interviste realizzate nel CFP di Verona (IntVr), interviste realizzate a Mi-
lano (IntMi), interviste realizzate a Mestre (IntMe) e interviste realizzate a Padova
(IntPd)19; primo FG realizzato a Roma (FGMat1); secondo FG realizzato a Roma
(FGMat2); terzo FG realizzato a Roma (FGMat3).
16 Il primo dei tre FG realizzati nell’estate del 2008 è stato condotto da chi scrive, il secondo da
Alberto Agosti, il terzo da chi scrive e da Alberto Agosti congiuntamente.
17 La trascrizione è stata svolta da Luciana Alessi e da Gustavo Mejia Gomez.
18 Le categorie concettuali nascevano individuando dei macro-titoli adatti a rappresentare le
aggregazioni di racconti.
19 I testi unici relativi alle interviste contengono anche le interviste realizzate nei vari CFP con i
docenti di area linguistica. In questa parte della ricerca vengono considerati ovviamente solo i testi dei
docenti di area matematica e scientifico-tecnologica.
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I testi delle interviste e dei FG sono stati inviati ai partecipanti per e-mail. Solo
pochi hanno risposto e inviato per e-mail delle integrazioni scritte, che sono state
inserite in fondo al testo della relativa intervista, nel “testo unico” di partenza.
Questo fatto testimonia che non è semplice, per i pratici, mettere per iscritto la pro-
pria esperienza o trovare un tempo disteso per farlo. In alcuni dei CFP da cui aveva
preso avvio la ricerca, non era stato ancora possibile realizzare tutte le interviste
inizialmente previste. Per questo, nell’ottobre del 2008, sempre approfittando di
uno degli incontri che i formatori di area matematica e scientifico-tecnologica ave-
vano a Roma, sono state realizzate alcune interviste per integrare i materiali prece-
dentemente raccolti. Queste interviste sono confluite o nel testo unico delle raccolte
precedenti (se i formatori venivano intervistati per la prima volta e provenivano da
uno dei CFP da cui era partita la ricerca) o in un ulteriore “testo unico” (IntRoma),
se i formatori avevano già partecipato a precedenti fasi della ricerca e venivano ora
intervistati nuovamente per approfondire alcuni aspetti rilevanti che erano emersi
nei loro interventi precedenti.
3.6. La stesura e la consegna di un primo Report provvisorio
Tra la fine del 2008 e il mese di marzo del 2009, è stato elaborato un primo
Report che, oltre a dar conto dell’avanzamento del progetto di ricerca e delle azioni
compiute, restituisse una prima analisi dei materiali.
Per realizzare il primo report provvisorio, è stato necessario integrare l’analisi
svolta sui testi delle interviste individuali con quella svolta sui testi dei FG.
La forma prevalente assunta dalla sezione del report dedicata ai risultati è stata
quella di una “raccolta di racconti”, senza alcun commento da parte dei ricercatori,
collocati però all’interno del sistema di categorie che era gradualmente emerso dal-
l’analisi e che era stato articolato in livelli (macro-categoria, categoria, micro-cate-
goria).
Una volta steso il Report, si è provveduto ad una sistemazione formale dei testi
dei racconti: leggeri interventi, attenti a non modificare in alcun modo il senso dei
testi, ma orientati a ridurre alcuni elementi tipici del parlato e a rendere gradevol-
mente leggibili – e dunque più facilmente fruibili dai pratici – i testi stessi. Que-
st’opera di “carpenteria fine” e di leggera correzione del parlato, la cosiddetta “cura
del testo”, si è rivelata essere una vera e propria ulteriore azione di analisi, che
in diversi casi ha aiutato a comprendere meglio il senso stesso del testo e talvolta
ha comportato una ricollocazione dei racconti all’interno del sistema di categorie
(coding system) o una modifica del sistema stesso.
3.7. Il FG realizzato nell’estate del 2009 (FGMat4)
Il FG realizzato a Verona, nell’estate del 2009, sempre nell’ambito di un in-
contro formativo per formatori di CFP salesiani, provenienti da varie Regioni ita-
liane, è stato condotto in modo differente, rispetto a quelli dell’anno precedente. Si
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è potuto infatti realizzare nel contesto di una intera settimana residenziale di lavoro
con il gruppo di formatori coinvolti20. Con tempi così dilatati, si è potuto perciò cu-
rare un setting che consentisse una particolare qualità di ascolto reciproco e un
clima particolarmente riflessivo. Ai docenti era stato infatti consegnato e presentato
in precedenza il fascicolo che riportava la sezione del Report provvisorio conte-
nente i brani estratti dai materiali raccolti e analizzati nella fase precedente della
ricerca. Lo stimolo di partenza per la riflessione e l’ulteriore raccolta di racconti era
dunque, in questo caso, costituito dai racconti stessi dei formatori che, ai parteci-
panti, era stato concesso il tempo di leggere attentamente. Circa la metà dei 19 par-
tecipanti al FG realizzato nell’estate del 2009 avevano avuto la possibilità di parte-
cipare anche ad alcune delle fasi precedenti della ricerca – interviste e/o FG svolti
nell’estate precedente – e dunque potevano facilmente ritrovare frammenti dei loro
racconti nei testi del report loro consegnato.
In particolare, ai partecipanti al FG, è stato possibile proporre due stimoli: un
primo stimolo è nato appunto dalla possibilità di prendere visione, da parte dei par-
tecipanti stessi, dei materiali elaborati al termine della fase precedente della ricerca;
a questo riguardo, lo spunto riflessivo è stato costituito dalla seguente domanda:
Leggendo, cosa pensi? Ci interessano le tue impressioni, non ci interessa valutare le pratiche raccontate dai
formatori. Ti ritrovi in come sono stati raggruppati i racconti? Che cosa si muove nella tua mente leggendo
questi racconti?
Questo primo giro di riflessioni ha svolto la funzione di una sorta di valida-
zione intersoggettiva (member-check), da parte dei partecipanti stessi, dell’analisi e
in particolare delle categorie individuate nell’analisi; l’interazione è stata verbaliz-
zata dai conduttori e ha prodotto indicazioni che successivamente sono state utiliz-
zate per apportare modifiche e aggiustamenti all’analisi dei materiali.
Un secondo stimolo – questa volta narrativo –, proposto ai partecipanti, in un
giorno diverso da quello in cui si è lavorato sull’analisi condivisa dei racconti, è
stato il seguente:
Quelle che avete visto erano “buone invenzioni” nate dalla pratica. Provate a pensarne un’altra ed eventual-
mente a descriverla individualmente per iscritto...
La consegna invitava a pensare a concrete situazioni, a concreti episodi, ana-
loghi a quelli già raccolti e analizzati, e ad abbozzarne – se lo si riteneva utile – la
scrittura, in una prima fase di lavoro individuale. In questo modo, venivamo in-
contro alla difficoltà che avevamo riscontrato precedentemente a dare forma scritta
alla propria esperienza, offrendo comunque a chi desiderava la possibilità – e il
tempo necessario – di fare anche questa esperienza di distacco e di riflessione sulla
propria pratica. Dopo la fase di lavoro individuale, in cui i partecipanti potevano
20 La settimana di formazione e di ulteriore raccolta di dati, tutta basata sulla lettura di racconti e
la narrazione, è stata condotta congiuntamente dal sottoscritto e da Gustavo Mejia Gomez.
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annotare appunti che li aiutassero a ricordare (e che sarebbero rimasti a loro), il
conduttore ha invitato i partecipanti che lo desideravano a leggere e/o a raccontare
agli altri l’episodio che avevano abbozzato per iscritto o a cui avevano semplice-
mente pensato. Gli altri partecipanti potevano intervenire con domande di chiari-
mento al proponente. I racconti e le interazioni sono stati audio-registrati21.
È stato così possibile sperimentare come i racconti raccolti nella prima fase
riuscissero a generare altri racconti e ad attivare una riflessione sia in chi narrava
che in chi ascoltava. La densità narrativa e la qualità descrittiva di questi racconti è
risultata mediamente più consistente di quella dei racconti raccolti nei FG prece-
denti, anche per la cura del setting che, nell’estate del 2009, si è potuta avere, dis-
ponendo di tempi più distesi, ma soprattutto per la possibilità di sostare su racconti
di pratica e di cogliere con maggiore precisione il tipo di contributo atteso dai
ricercatori. Del resto, è difficile spiegare in che cosa consista una “buona” narra-
zione. È di gran lunga più efficace mostrare narrazioni esemplari e in seguito invi-
tare a raccontare a propria volta.
In occasione della settimana di laboratorio con i docenti di matematica, all’in-
terno della quale sono stati realizzati i FG, si è ritenuto opportuno anche offrire la
possibilità a chi lo desiderava di raccontare altri episodi, attraverso interviste indi-
viduali. Ci sembrava opportuno infatti non perdere la ricchezza dei racconti di
questi partecipanti, limitando la loro narrazione ai tempi del FG. Anche questi testi
sono comunque confluiti in un “testo unico”, quello siglato come FGMat4.
3.8. Il ritorno sull’analisi
A questo punto, si avevano a disposizione i testi delle interviste individuali e
quelli di 4 FG realizzati tra l’estate del 2008 e l’estate del 2009. In vari casi, i
partecipanti hanno avuto modo di prendere parte a diversi momenti di raccolta e di
integrare i propri racconti. Nel corso dell’estate del 2009, si è potuto ritornare sul-
l’analisi dei testi, anche alla luce delle osservazioni emerse dai partecipanti stessi,
integrando l’analisi svolta precedentemente con l’analisi dei nuovi materiali rac-
colti e introducendo questa volta anche alcune parole del ricercatore, che fossero in
grado di ridire le parole dei parlanti.
3.9. Il FG realizzato nell’autunno del 2009 (FGMat5)
Il racconto della pratica non si identifica con il sapere pratico. Il passaggio dal
semplice racconto ad una certa formalizzazione del sapere pratico, che ha sempre
una dimensione tacita e implicita, si ha quando, restituendo ai pratici il tentativo
che il ricercatore ha fatto di dire fedelmente la pratica narrata, l’effetto che si
ottiene è una frase di questo genere: “Ecco, è proprio quello che intendevo dire!”.
21 Riguardo a questo modo di impostare l’intervista di gruppo e alla differenza tra questa tecnica
e quella ormai consolidata del FG, cfr. anche Tacconi, Mejia, 2010, pp. 17-18.
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A noi questo è capitato spesso, negli incontri con i formatori, in particolare nel
FG realizzato sempre a Roma, nell’autunno del 2009, anche qui nel contesto di un
incontro organizzativo di un gruppo di 11 formatori convenuti da varie Regioni
d’Italia. Il FG dell’autunno 2009, oltre a consentire un’ulteriore validazione inter-
soggettiva delle analisi compiute, ha dato la possibilità di operare un’ulteriore rac-
colta di dati, a partire dallo stimolo costituito questa volta dalla lettura di alcuni
brani scelti dal ricercatore nei materiali delle fasi precedenti e ponendo un’unica
domanda: “A te sono capitate situazioni analoghe? Prova a raccontarle con ric-
chezza di particolari...”.
3.10. L’analisi dell’intero corpus dei dati raccolti e la scrittura del Report finale
A questo punto, la fase di raccolta dei materiali era completata. Si trattava ora
di tornare sull’analisi dell’intero corpus di dati e dei materiali raccolti, integrandola
con l’analisi degli ultimi dati raccolti, ma inevitabilmente anche tornando ancora
una volta sull’insieme e riorganizzando parzialmente le categorie. Un’attenzione
importante era quella di dar conto sia degli elementi estesamente presenti, nel
senso che venivano detti dalla maggior parte dei formatori, sia di quelli nominati
magari solo da pochi, ma ugualmente rilevanti e in grado di restituire aspetti utili
ad illustrare l’essenza del fenomeno indagato, la pratica formativa (su questo cfr. il
capitolo introduttivo a Mortari, 2010).
Dopo l’analisi, si è passati alla scrittura del Report finale. La fase della scrit-
tura è il momento maggiormente caratterizzante di questo tipo di ricerca, quello in
cui si mietono i frutti di tutto il lavoro precedente di analisi. È come se tutte le
azioni svolte precedentemente, la raccolta dei dati, l’analisi ricorsiva, la riflessione
continua, la validazione intersoggettiva, con il contributo dei partecipanti e di altri
ricercatori, non fossero altro che azioni che permettono di ascoltare e dunque di far
parlare i testi. A tal proposito, si può forse dire che, in questo tipo di ricerca, è
essenziale praticare una sorta di “ascesi” o “disciplina dell’ascolto”.
La scrittura poi è come un gioco di echi che rimandano ad ulteriori echi: i
brani – che tengono dentro l’eco delle pratiche – sono avvicinati tra loro per affi-
nità, cioè perché fanno tra loro eco; i commenti che il ricercatore aggiunge ai brani,
nello sforzo di trovare parole per dire ciò che dicono i testi, sono spesso delle rifor-
mulazioni, ancora una volta quasi un eco ai brani stessi; anche i riferimenti e le ci-
tazioni riportate non servono tanto a supportare quanto emerge dalle esperienze dei
parlanti con riferimenti ad altre ricerche, documentate in letteratura, ma a trovare
parole per dire la pratica dei docenti. La mente del ricercatore infatti è, a questo
punto, completamente dentro alla ricerca e tutto ciò che si legge in quel periodo
conduce in qualche modo lì. Forse si può dire che il sapere dei pratici viene dav-
vero a galla quando, cercando di riprodurne i molteplici echi, si nota che la voce
che ne risulta è una voce insieme ripetuta e nuova.
Nel capitolo che segue, cercheremo di comprendere a fondo cosa significhi in-
segnare matematica e scienze nell’IFP, prendendo a prestito diversi brani estratti
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dai testi dei parlanti22. Per dirla con Van Manen, infatti, «...il senso della ricerca
fenomenologica è di “prendere a prestito” le esperienze di altre persone e le loro
riflessioni sulle loro esperienze per essere maggiormente capaci di giungere ad una
comprensione del più profondo senso o significato di un aspetto dell’esperienza
umana, nel contesto del tutto dell’esperienza umana» (Van Manen, 1990, p. 62).
Talvolta si tratta di estratti di dimensioni modeste, più spesso di unità narrative
ampie, veri e propri racconti. Sono proprio questi che abbiamo cercato di privile-
giare, per la capacità che essi hanno di restituire in modo ricco la pratica e di far-
cela quasi toccare con mano.
22 I brani vengono riportati con un codice che consente di riferire l’estratto al tutto del “testo
unico” da cui esso è tratto (IntVr, IntMe, IntMi, IntPD, IntRoma, FGMat1, FGMat2, FGMat3,
FGMat4, FGMat5). Tutti i “testi unici” sono stati consegnati al committente e sono disponibili presso
la sede del Cnos-fap nazionale. Il numero progressivo dopo le interviste indica il numero dell’inter-
vista nel rispettivo “testo unico” (ad es.: IntVr1, IntVr2 ecc.); il numero che segue la barra (/) indica il
numero progressivo del turno di parola in cui è collocato il brano estratto nel testo unico. Per i FG,
spesso è riportato l’intervallo all’interno del quale è contenuto il brano estratto. Tutto questo consente
di riandare in qualsiasi momento al testo nella sua interezza.
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3. I risultati della ricerca
Insegnare matematica non è la cosa più semplice di questo mondo. Farlo nel
contesto dell’Istruzione e Formazione Professionale (IFP) lo è ancor meno. Il focus
principale di questa ricerca era inizialmente rivolto proprio alle pratiche didattiche
di quei formatori che, nel sistema dell’IFP, in particolare nei CFP salesiani italiani,
operano nell’area matematica. In realtà, nel corso della ricerca ci siamo resi conto
che diventava indispensabile raccogliere racconti riferiti anche a pratiche didattiche
relative all’asse scientifico-tecnologico che, nella formazione professionale ini-
ziale, è strettamente intrecciato con l’asse matematico, dato che la matematica che
si fa al CFP non è una matematica pura, ma una matematica prevalentemente appli-
cata allo studio dei fenomeni fisici, chimici, biologici, economici e sociali1.
A partire dai racconti dei partecipanti alla ricerca e dalle categorie gradualmente
emerse nell’analisi dei dati, è possibile proporre una “teoria della pratica didattica”
dei formatori di area matematica e scientifico-tecnologica che operano nei CFP della
Federazione CNOS-FAP. È quanto tenteremo di fare qui di seguito, organizzando il
materiale intorno ad alcuni nuclei ricorrenti, peraltro spesso tra loro intrecciati: le
pratiche volte ad esplorare il vissuto dei soggetti in apprendimento in relazione alla
disciplina, le pratiche orientate a far cogliere il senso di ciò che si propone, le pra-
1 La ricerca si è centrata più su come i formatori insegnano che su che cosa insegnano, per
quanto sia chiaro che i due aspetti non sono tra loro separabili. Per quanto riguarda i curricoli dei per-
corsi formativi (il che cosa si insegna), basti qui accennare al fatto che essi vengono definiti a livello
regionale, quindi variano da Regione a Regione. Gli accordi raggiunti in sede di Conferenza Stato-
Regioni, in seguito alla legge 53/03, avevano definito gli esiti formativi dei percorsi di IFP in termini
di “Standard formativi minimi” relativi alle competenze di base (che riguardavano le seguenti aree:
dei linguaggi, scientifica, tecnologica e storico-socio-economica) e alle competenze tecnico/professio-
nali e trasversali (accordo del 5 ottobre 2006). Gli insegnamenti di matematica sono stati definiti al-
l’interno degli Standard formativi minimi relativi alle competenze di base, nell’Accordo del 15 gen-
naio 2004 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 29 del 5 febbraio 2004). Più tardi, il “Regolamento
per il nuovo obbligo di istruzione”, emanato nell’agosto del 2007 dal MPI, in seguito alla legge
296/06, ha definito i saperi e le competenze che è necessario maturare per l’assolvimento dell’obbligo
di istruzione, riferendoli a quattro assi culturali: dei linguaggi, matematico, scientifico-tecnologico,
storico-sociale. Dato che i percorsi di IFP sono stati riconosciuti validi ai fini dell’assolvimento del
nuovo obbligo di istruzione (scelta confermata dalla legge 133/2008 e dall’accordo Stato-Regioni del
29 aprile 2010), diverse Regioni hanno dovuto rivedere i curricoli dei percorsi di IFP per adeguarli ai
nuovi traguardi indicati. Per quanto la normativa di riferimento – anche per i CFP della Federazione
CNOS-FAP – sia quella regionale, per avere un quadro essenziale dei percorsi previsti per l’asse ma-
tematico e scientifico-tecnologico, si possono consultare i “Traguardi Formativi Comuni relativi al
Triennio di Qualifica Professionale e al Quarto anno di Diploma Professionale”, che vengono assunti
come riferimento nel documento “Linee guida per i percorsi di istruzione e formazione professionale”
della Federazione CNOS-FAP (Nicoli 2008). In ogni caso, si tratta di indicazioni essenziali, che gene-
ralmente lasciano notevoli spazi alla discrezionalità del formatore.
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tiche legate ad un’organizzazione efficace e flessibile della lezione, le pratiche indi-
rizzate a far svolgere in modo intelligente anche gli esercizi più ripetitivi, le pratiche
centrate sulla valorizzazione dei problemi reali e sugli utilizzi pratici dei saperi ma-
tematici e scientifici, le pratiche volte ad attivare connessioni tra i saperi disciplinari
ed altre aree culturali, le pratiche valutative pensate per migliorare l’apprendimento,
le pratiche per gestire in modo efficace la relazione con i singoli e con i gruppi. È
inevitabile che alcuni temi compaiano con frequenza, perché le varie dimensioni,
nella pratica, appaiono simultaneamente. Il lettore dunque noterà qualche ridon-
danza in questo capitolo. Del resto, come nella fase di raccolta dei dati abbiamo sol-
lecitato il racconto di esempi, situazioni, aneddoti, così anche nella restituzione ab-
biamo scelto di riportare, come estratti, ampie unità narrative e non solo frammenti
di testo. Le unità narrative contengono la totalità inseparabile di quegli elementi che
caratterizzano la complessità dell’azione didattica. Talvolta, uno stesso brano può
fornire dunque evidenza di più dimensioni dell’agire didattico. Solo quello che, di
volta in volta, è parso il nucleo prevalente del racconto ha autorizzato la colloca-
zione di quel brano all’interno di una categoria rispetto ad un’altra.
È bene precisare che non si tratta di una “teoria” in senso forte, ma di quella
“teoria della pratica”, sempre provvisoria, che nasce dalla progressiva sistematizza-
zione del repertorio di strategie e di tecniche didattiche che i formatori interpellati
– che possiamo considerare, a tutti gli effetti, parte di una comunità professionale
(cfr. Tacconi, 2010b) – hanno considerato utili nel loro lavoro2.
Oltre a strategie articolate, ragionate e complesse, nei racconti abbiamo trovato
anche invenzioni nate sul momento, trucchi del mestiere e dispositivi operativi che
i docenti hanno constatato possono funzionare in pratica. Non è la didattica che
generalmente trova spazio nei manuali per gli insegnanti – e che magari risponde a
tutti i criteri di correttezza epistemologica della disciplina – ma è la didattica viva e
reale, che nasce sempre da un incontro conversazionale tra le abilità del docente (le
conoscenze che sa mettere in campo e il background di consapevolezza che lo ac-
compagna), le caratteristiche dei singoli allievi (la loro storia, la loro esperienza, i
loro interessi), le dinamiche affettive e relazionali che si creano in aula, le caratteri-
stiche ambientali, le complesse variabili sociali (compresa la considerazione social-
mente diffusa riguardo alla formazione professionale) e situazionali (persino quelle
metereologiche!).
Leggendo il resoconto di questa ricerca, gli esperti disciplinari (coloro che si
occupano specificamente di didattica della matematica e di didattica delle scienze)
potranno essere più o meno d’accordo. Riguardo ad alcuni passaggi, potranno addi-
rittura sorridere o storcere il naso e considerare poco rigorosi e attendibili i metodi
2 È questo il criterio principale che ci ha guidati nell’analisi. Non si trattava dunque di andare
a pescare, nei racconti dei formatori, le pratiche considerate “buone” in riferimento ad un modello
assunto come “griglia per la pesca”, ma di dare effettivamente loro la parola, di attribuire loro la
competenza di dirci ciò che avevano trovato davvero utile nella loro esperienza di formatori.
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utilizzati dai nostri formatori. Il fatto è che qui non abbiamo a che fare con la mate-
matica dei matematici o con la scienza degli scienziati di professione, ma con quei
saperi che i formatori si sforzano di rendere insegnabili e che, in qualche modo,
modificano e ricreano con i propri allievi nell’atto stesso di insegnarli. Allora, i
concetti matematici e scientifici si mescolano con nozioni più elementari, talvolta
al limite del banale, ma non sono mai avulsi da un contesto applicativo che cerca di
dare loro significato. Bisogna poi osservare che saperi e relazioni, elementi cogni-
tivi ed emozionali, si intrecciano in maniera inestricabile nella pratica didattica.
Inoltre, sembra che, dalla particolare tipologia di allievi con cui hanno a che fare, i
nostri docenti abbiano imparato a ribaltare la prassi comune, che nella scuola tende
a proporre una matematica ridotta a tecnica priva di significato, e a muoversi verso
approcci diversi, che valorizzano l’esperienza lavorativa come luogo in cui pos-
sono avvenire apprendimenti molteplici.
Sono convinto che i risultati della ricerca, pur nascendo da un contesto partico-
lare (quello dei CFP della Federazione CNOS-FAP), possano assumere una valenza
più generale, risultando utili non solo per i partecipanti alla ricerca, ma anche per
altri formatori e formatrici e – perché no? – anche per i docenti impegnati in altri
ambiti del sistema di istruzione e formazione. Il sapere pratico è sì sempre conte-
stuale e situato, non si dà in generale, ma può offrire l’occasione di un proficuo
confronto, che inneschi processi riflessivi dal valore trasformativo (Mezirow,
1991). Inoltre, se, leggendo i brani che riportiamo, i docenti e i formatori non ri-
usciranno a ricavare strategie immediatamente utilizzabili nei loro contesti, certa-
mente potranno però attingere ad un repertorio di idee che, con gli opportuni adat-
tamenti, potrà ispirare anche la loro azione e orientare a cogliere – facendo magari
propri – l’atteggiamento di fondo, la passione, l’attenzione relazionale, che ani-
mano da dentro le pratiche dei nostri formatori e rendono particolarmente vive le
tecniche e le strategie che essi scelgono di utilizzare.
Ritengo infine che anche chi ha responsabilità per la formazione dei formatori
o per le decisioni politiche riguardanti il sistema dell’IFP nelle varie Regioni e Pro-
vince autonome, potrà trovare, in ciò che emerge da questa ricerca, indicazioni e
spunti utili per valorizzare sempre di più il sapere che nasce dall’esperienza e la
professionalità di tanti docenti e formatori che, nonostante un processo di delegitti-
mazione in atto nel nostro Paese riguardo a tutte le figure che si occupano di inse-
gnamento e formazione, fanno bene il loro mestiere. In questo senso, la ricerca as-
sume a mio avviso anche una valenza politica e può suggerire modalità innovative
di coniugare ricerca, riflessione e formazione dei formatori.
1. ESPLORARE IL VISSUTO DEI RAGAZZI NEI CONFRONTI DELLA MATEMATICA
Sull’apprendimento incide in maniera considerevole l’atteggiamento comples-
sivo che un soggetto sviluppa nei confronti di un’area disciplinare. Una visione ne-
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gativa della disciplina può compromettere seriamente il percorso. Per questa
ragione molti formatori dedicano del tempo, in avvio di percorso, ad esplorare tali
atteggiamenti, soprattutto nei confronti della matematica, e cercano di mostrare il
volto “amichevole” della disciplina. Non si tratta ancora di un lavoro specifico sul-
l’apprendimento della matematica, ma di una azione che agisce su alcuni presup-
posti indispensabili per l’apprendimento stesso.
1.1. “Mi presento...”, “Io e la matematica...”
Molti dei ragazzi che accedono ai percorsi di Istruzione e Formazione Profes-
sionale sono giunti alla conclusione che la matematica non faccia per loro; la perce-
piscono come disincarnata, fredda, ostica e distante, ne hanno sofferto l’apprendi-
mento (o il non apprendimento), senza ricavarne senso e piacere. Il loro rapporto
con la matematica, in molti casi, si carica di ansie e paure e il volto di questa disci-
plina assume il triste aspetto dei giudizi o dei voti in pagella che molti di loro hanno
ottenuto alla fine della scuola secondaria di primo grado. Per questo alcuni formatori
notano che è molto difficile accendere in loro anche un minimo di interesse:
per il tipo di utenza che abbiamo, la matematica è sicuramente una delle materie peg-
giori; diventa veramente difficile interessarli, entusiasmarli, renderli partecipi a qualche
cosa che loro considerano assolutamente distante dalla loro realtà e dalla loro vita; arri-
vano che già odiano la matematica ed è difficile riuscire a fargliela anche solo accettare
[...] (IntMi6/8);
chi arriva nei CFP ha conoscenze della matematica che sono espresse da un voto delle
medie solo sufficiente o addirittura insufficiente; spesso, hanno alle spalle dei veri e
propri insuccessi scolastici e una capacità logica e deduttiva minima; [...] nei primi col-
loqui, i genitori dicono: “Ah, mio figlio la matematica non l’ha mai studiata; mio figlio
ha sempre avuto degli insegnanti che non glie l’hanno saputa spiegare; ha sempre avuto
delle insufficienze!” [...] (IntMi3/27);
i ragazzi arrivano da un percorso di scuola elementare e media, in cui hanno maturato un
odio profondo nei confronti di questa materia; molti arrivano dicendo: “Io la matematica
non la capisco” (IntMe2/338); [...] vediamo ragazzi che vengono dalla scuola media con
il risultato di “sufficiente” (IntMe2/348); probabilmente sono quelli che sono stati vissuti
[...], all’interno del gruppo classe [...], un po’ come l’ultima ruota del carro, come la
zavorra del gruppo che magari poteva viaggiare e che loro rincorrevano sempre
(IntMe2/352); [...] non mi stupisco che molti abbiano maturato una disaffezione riguardo
alla materia e una scarsa autostima (IntMe2/354);
vedo che sono bloccati proprio dalla materia, soprattutto in prima [...]: “Prof, io la mate-
matica non l’ho mai capita!”; partono con un blocco, che è più psicologico, perché sono
cose semplici; si inizia infatti dai numeri naturali, proprio dalla base; non puoi essere
bloccato sui numeri naturali, se no non vai neanche a fare la spesa (IntVr8/22).
Per dirla con Walter Maraschini (2008, p. 2), molti di questi ragazzi sono “ma-
tematicamente morti” e risulta molto difficile “resuscitarli” o quantomeno accen-
dere in loro qualche scintilla e instillare il dubbio che qualcosa se ne possa capire,
che qualche piacere se ne possa ricavare. Spesso, questi ragazzi sono vittime di una
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concezione dell’insegnamento della matematica che ha ridotto tale materia a pura
astrazione e ha espulso da essa il corpo, l’esperienza, le percezioni. Si sono trovati
troppe volte a rincorrere i loro compagni “bravi in matematica” e, ad un certo
punto, il fiatone li ha costretti a fermarsi. Hanno interiorizzato l’idea che non ci
fosse niente da fare. Del resto, a quell’età, l’idea che gli altri – gli insegnanti, i ge-
nitori ma anche i compagni di classe – si fanno di te, diventa spesso l’idea che tu
stesso ti fai di te.
Per questo alcuni insegnanti trovano utile prestare una particolare attenzione,
all’inizio dell’anno, ad una ricognizione attenta dei vissuti e delle rappresentazioni
degli allievi in relazione alla matematica, attraverso una sorta di autopresentazione,
pratica che qui di seguito viene accuratamente descritta:
dedico, all’inizio dell’anno, due o tre settimane [...] alla conoscenza della classe: faccio
scrivere a ciascuno una relazione il cui contenuto è riservato e che si intitola: “Mi pre-
sento...”; i ragazzi hanno carta bianca, possono scrivere quello che vogliono su loro
stessi; chiedo soltanto di specificare le materie nelle quali alle medie hanno trovato mag-
giore difficoltà, il loro rapporto con la matematica, le difficoltà che hanno riscontrato
[...], il loro percorso di studi pregresso in matematica e i motivi, a loro giudizio, delle dif-
ficoltà. Possono scrivere quello che vogliono di loro stessi; molti, per esempio, scrivono
le loro difficoltà nell’affrontare le interrogazioni orali, altri scrivono che hanno un pro-
blema di ansia, di controllo delle emozioni, altri di rapporto con l’insegnante; tantissimi
scrivono che il rapporto con l’insegnante, alle medie, è stato un fallimento, soprattutto
nelle materie come la matematica o l’italiano, in modo particolare la matematica. La ma-
teria non è molto amata! Ritiro queste relazioni, le leggo con calma, mi segno le cose che
mi interessano e così conosco i ragazzi (IntVr3/3); ...loro si sentono liberi di scrivere; io
premetto: “Questo rimane a me! Il contenuto è riservato, non dovete impressionarmi in
senso positivo! Voglio sapere quello che pensate di voi stessi, [...] il vostro pregresso sco-
lastico, [...] le difficoltà che avete incontrato in passato e perché, a vostro parere, i pro-
fessori ce l’avevano con voi alle medie [...]” [...]. Loro si sentono liberi: “Non vi giudico,
ma voglio sapere chi siete; siete nuovi, per me” (IntVr3/11);
all’inizio dell’anno, ho detto: “Ragazzi, facciamo così, vi chiedo [...] qual è il vostro rap-
porto con la matematica”. “Ah, mi no capiso gnente!” (“Ah, io non capisco niente!”, ndr)
[...] (IntMe5/185);
il primo periodo è un contatto diretto con i ragazzi: far loro capire come lavoro io, come
sono io, e far sì che loro si facciano conoscere, per capire quali sono le loro modalità
di lavoro o [...] le loro difficoltà nell’affrontare i 50 minuti di matematica; solo allora
si riesce a capire quali possono essere le strategie da adottare con classi, che sono tutte
diverse (IntMe2/56);
a settembre o ottobre, quando loro ancora mi devono conoscere, c’è una fase di presenta-
zione: loro devono capire come sono fatto io ed io devo capire come sono fatti loro e
soprattutto che cosa hanno alle spalle e a casa (IntPd1/16);
ho cercato di smontare il problema di ragazzi a cui era stato detto e ridetto, fino a che se
ne sono convinti, che non sapevano niente. Prima di tutto, bisogna smontare questo pre-
giudizio! (FGMat4/174).
L’esplicitazione dei vissuti prevalentemente negativi in relazione alla disci-
plina consente di problematizzarli e di disinnescarne il potere distruttivo. La stra-
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tegia adottata dai nostri insegnanti trova conferma in quanto osserva Walter Mara-
schini, sulla base della sua esperienza personale di allievo e di docente: «Chi inizia
un nuovo ciclo di studi che implichi più matematica [...] dovrebbe [...] essere intro-
dotto a una nuova visione, privata della polvere e delle incrostazioni che offuscano
e distorcono la realtà matematica. Occorre una sorta di preliminare pulizia mentale,
simile a quella che Paperino opera con la ramazza all’interno della sua testa, para-
gonata a un disordinatissimo stanzino nel disneyano film del 1959, Paperino nel
mondo della matematica. Tale messa in ordine riattraverserà nodi e difficoltà in-
contrati nel passato e non può che condurre ad una sorta di autoanalisi che permetta
di comprendere se l’abbandono o il rifiuto dello studio di un mezzo di conoscenza
così universale e versatile è dovuto a qualche causa specifica [...]. Per molti e di-
versi motivi [...] la comprensione della matematica può infatti risultare difficile, so-
prattutto a causa della barriera dovuta al linguaggio e al simbolismo usati: è bene,
quindi, non soltanto armarsi di pazienza, di penna e di carta, ma anche riflettere
sugli elementi di freddezza o antipatia che tale disciplina in passato ha suscitato.
Senza un cambio di visuale e senza la fiducia di poter partecipare a un mondo par-
ticolare, da non identificare soltanto con freddi calcoli, ma anche con appassionanti
concetti e ragionamenti, il riavvicinamento può infatti risultare difficile o confer-
marsi in una nuova delusione» (Maraschini 2008, p. 13). Il primo passo, per atti-
vare quel cambio di sguardo di cui parla questo autore, è allora proprio quello che
compiono i nostri formatori guidando i loro allievi ad esplicitare le proprie espe-
rienze pregresse e i propri vissuti in ordine a questa disciplina, ma anche le loro
aspettative e i loro desideri. Questa operazione, per molti, costituisce il passaggio
preliminare per accedere ad una matematica dal volto differente e comunque con-
sente almeno di alimentare il dubbio che la matematica possa essere anche diversa
da come gli allievi spesso l’hanno sperimentata in passato.
1.2. Far diventare la “matematica” “calcolo professionale”
È come se, nel vissuto dei ragazzi che frequentano i CFP, segnato per lo più di
brutti ricordi, timori e ansie, la matematica fosse qualcosa che, a differenza di altri
ambiti del sapere, che pure richiedono un consistente impiego di calcoli matema-
tici, risulta priva di corpo e di concretezza, e dunque, per loro, di senso:
forse la matematica rimane ancora distante, mentre (i ragazzi) ritengono più utili materie
tipo economia, che ha una serie di conti [...], richiede tanti esercizi; non so, in economia
devi fare la liquidazione, quindi devi proprio contare [...], però loro vedono l’economia
più utile della matematica, perché vedono che a qualcosa serve, che comunque nel
mondo del lavoro è presente (IntPd5/140), [...] mentre, davanti all’esigenza di distin-
guere un triangolo da un cerchio, loro ti dicono: “Va beh, a che cosa ci serve?”, oppure,
quando si tratta di sapere come si calcola il raggio o l’area di un cerchio, [...] non sono
così disponibili a comprendere (IntPd5/144).
Rispetto a questo vissuto, alcuni formatori hanno escogitato una curiosa stra-
tegia motivazionale, quella di “descolarizzare” la disciplina, nominandola in modo
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diverso e agganciandola decisamente ai percorsi professionalizzanti, oppure sem-
plicemente utilizzando denominazioni concrete per gli esercizi:
con i nostri ragazzi, nella formazione iniziale, che hanno di per sé un pregiudizio soprat-
tutto nei confronti della matematica – lo noto semplicemente nel dire: “Allora, alla
quarta ora, che cosa avete?”. “Matematica...” (espressione di disgusto) –, anziché chia-
marla “matematica”, la chiamiamo “calcolo professionale”. Ha già un effetto diverso,
perché altrimenti, a priori, loro pensano così: “Accidenti, c’è di nuovo matematica. Non
la so!!!” [...]. Tutto ciò che si presenta loro come un fare scolastico ha scarsissimo effetto
e provoca subito chiusura (FGMat1/6) [...]; [...] parlando di matematica, i ragazzi si
tirano indietro; parlando di calcolo, il discorso comincia a cambiare. È una cosa che
dovremmo [...] approfondire, per dare ai ragazzi l’idea di una matematica diversa, che sia
amica e non nemica (FGMat1/14);
la metodologia che utilizzo è quella di associare la matematica, che ne so, nel settore
elettro, all’elettrotecnica, nel settore meccanico, alla tecnologia; perché loro queste ma-
terie le vedono come materie che devono effettivamente studiare, forse per il nome, [...]
come materie “più importanti”, mentre la matematica, soprattutto a causa degli insuc-
cessi che hanno avuto in passato, la vedono come qualcosa che non dovrebbero nem-
meno avvicinare, essendo loro appunto in questo contesto e non “a scuola” (FGMat2/
205);
è il nome che fa la differenza, oppure il titolo dell’esercizio: al posto di “Esercizio n.1”, è
meglio mettere: “Lo sconto sull’i-pod” (IntPd1/122), oppure “Il mio diciottesimo com-
pleanno” [...] (IntPd1/124), invece di “Esercizio n. 2”, perché altrimenti sbuffano. Se tu
dai l’“Esercizio n. 1”, non prendono neanche in mano la penna (IntPd1/126).
Si tratta di aiutare i ragazzi a guardare alla matematica in modo diverso da
quello a cui erano abituati nella scuola precedente, di scoprire che ci può essere una
“matematica amichevole”, che ha a che fare con la vita di tutti i giorni. È ciò che
avviene anche in altri ambiti disciplinari, quando, ad esempio, l’italiano viene inse-
rito in un modulo che riguarda la “comunicazione efficace...”. Nell’IFP, viene in-
fatti rovesciata la gerarchia delle discipline che normalmente governa la scuola: gli
ambiti disciplinari che, agli occhi degli allievi, assumono maggiore importanza
sono quelli tecnico-professionali. Ecco allora l’esigenza di agganciare la matema-
tica a queste aree. Questo comporta spesso per i docenti una vera e propria conver-
sione culturale:
se devo dire la verità, è stata molto difficile per me questa svolta: [...] io ho sempre fatto
matematica pura. Avevo i miei esercizi, non ero in un percorso professionale, in cui, ef-
fettivamente, devi sempre trovare il collegamento tra scuola e lavoro [...]; per me, piom-
bato in questo nuovo mondo, è stato molto difficile rivoluzionare [...] la mia idea di ma-
tematica [...] e trovare delle situazioni concrete e specifiche e che, in più, piacessero a
loro (IntPd1/110).
I formatori non intendono banalizzare la disciplina, ma rilevarne il valore
d’uso e orientarla allo sviluppo di solide competenze, che, facendo riferimento alla
vita reale, non possono mai essere “solo” disciplinari. Inoltre, per quanto i numeri
non esistano nella realtà fisica, perché esprimono dei rapporti tra le cose, che si
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possono cogliere solo con la mente, essi sono in realtà molto utili e proprio il cal-
colo, scritto o mentale che sia, rappresenta un passaggio obbligato per affrontare e
risolvere molti problemi che la vita quotidiana pone. Del resto, sembrano dire i for-
matori, solo legando la matematica a qualcosa di utile e strumentale, è possibile
aprire una porta di ingresso anche alla disciplina vera e propria3 e magari accendere
in alcuni dei loro ragazzi il desiderio di saperne di più.
2. FORNIRE RAGIONI PER IMPEGNARSI
Già dalle battute precedenti, cogliamo la centralità di un’azione volta a creare
le precondizioni perché possa avvenire apprendimento. E, se è difficile aspettarsi
che in tutti gli allievi si accenda un’autentica passione per la matematica, è forse
possibile fare in modo che almeno non si sviluppi avversione. Diventa allora im-
portante far sì che il processo di apprendimento assuma per gli allievi un signifi-
cato che possa giustificare l’impegno. Come ci insegna Jarvis, infatti, l’apprendi-
mento è sempre legato ad una attribuzione di senso (cfr. Jarvis, 2009). Per far co-
gliere questo, i formatori hanno sviluppato alcune strategie: innanzitutto rispondere
alla domanda “A cosa serve studiare matematica?”, esplicitando le ragioni che cia-
scuno ha maturato nella sua esperienza, ma poi anche far incontrare testimoni che
possano attestare l’utilità dello studio della matematica e aiutare gli allievi a col-
mare le lacune che si portano dietro dai livelli scolastici precedenti e che possono
costituire un fattore di demotivazione.
2.1. Rispondere alla domanda: “A cosa serve?”
Se non si assiste ad un vero e proprio rifiuto, c’è comunque il rischio che gli
allievi facciano fatica a cogliere un senso in quello che si propone loro. Talvolta,
sembra che al massimo si riesca ad ottenere uno sforzo solo “scolastico”: quello
che l’insegnante richiede si fa “perché bisogna”, non perché se ne comprenda l’in-
tima ragione. L’incontro con la matematica fatica allora a tradursi in apprendi-
mento. Molte difficoltà sono insomma legate alla fatica di darsi ragione di ciò che
si fa. Ecco un esempio di come si esprime questa difficoltà:
prendo un esempio, “le equazioni di primo grado”; loro non ne volevano sapere e fonda-
mentalmente la domanda ricorrente è: “Che ce ne facciamo? A che ci serve?”; [...]
quando tu ti trovi di fronte ad una classe che ti chiede: “Perché lo dobbiamo fare?”, non
è facile rispondere. Già è difficile spiegare un contenuto così, in più ti senti dire: “Che ce
famo?”, “Tanto, noi dobbiamo andare a lavorare, dobbiamo solo spingere dei bottoni”,
“Tanto, la macchina va da sé...” [...] (FGMat2/18).
3 A questo riguardo, e in genere sul rapporto tra formazione professionale e formazione generale,
cfr. Blum, Strässer, 1992. Sulla denominazione di “calcolo professionale”, cfr. anche Strässer,1996.
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Si tratta allora di favorire «...il formarsi di quella precondizione dell’apprendi-
mento, che è la passione o quanto meno la non ostilità per ciò che si studia» (Mara-
schini 2008, pp. 12-13), rispondendo alla fatidica domanda, che prima o poi ogni
docente si sente fare: “A che ci serve?”. Infatti, se gli allievi riescono a cogliere un
senso in quello che fanno, possono sentirsi maggiormente stimolati ad esplorare. Il
problema è come rispondere a tale domanda. Sempre Maraschini, attingendo alla
sua esperienza di insegnante, suggerisce: «È una domanda alla quale sul momento
si può rispondere soltanto nel più piatto dei modi, agganciandosi a quella inelutta-
bilità del reale spesso introiettata anche dai più ribelli, sognatori o svagati degli
adolescenti: sai, la matematica è insegnata in tutto il mondo, per tutti gli anni di
scuola e nessuno pensa di abrogarla. Insomma, studiala, perché così si è sempre
fatto e una ragione ci sarà» (Maraschini, 2008, p. 30).
Alcuni dei nostri docenti, a partire da una attenta considerazione dei vissuti dei
loro allievi, tentano di rispondere “spiegando” loro quale possa essere il senso della
matematica e fornendo quelle indicazioni che loro stessi hanno maturato nella pro-
pria esperienza:
[...] qualsiasi cosa io faccia in matematica, la devo motivare: “Guarda che, nella realtà,
certe cose ti torneranno utili! [...]. Se vai al supermercato e hai soltanto 10 euro, non puoi
spenderne 10,50, devi riuscire a stare dentro ai 10 euro”; devi mostrare loro le ragioni di
tutto, così riesci a motivarli (IntVr3/13). Loro mi chiedono a che cosa serva studiare i po-
linomi (IntVr3/236): “Tu vai al supermercato e non ti chiederanno mai come si sviluppa
un prodotto notevole!”; “Allora, guarda, ti do alcune ragioni che sono state anche le mie,
alle superiori: studia la matematica a) per non fare una figuraccia nella vita, per un mi-
nimo di orgoglio personale, un minimo di conoscenza; b) perché un domani ti troverai
davanti ai tuoi figli che ti chiederanno: ‘papà, mamma, spiegami queste cose!’; non po-
tete fare la ‘figuraccia’ di non saperlo fare! [...]; c) perché vi troverete ad andare al super-
mercato e un minimo di elasticità mentale (vi serve), quattro operazioni, quattro calcoli
(li dovete fare); io non porto mai la calcolatrice al supermercato, mi faccio la somma di
tutti i prezzi, e, alla cassa, so più o meno quanto dovrò spendere; [...] entri in un negozio
per un bel paio di pantaloni, costano 50 euro, c’è il 10% di sconto; che operazione fai?
Sai calcolare il prezzo? Bene, ma questo è un allenamento che ti viene facendo matema-
tica in classe. È logico che lo sviluppo di un polinomio nella vita è difficile da incontrare,
però questo ti dà un minimo di nozioni e soprattutto la possibilità di allenare la mente...”
[...] (IntVr3/240);
il percorso scolastico che precede il loro approdo al CFP [...] è incatenato a tutti quei pro-
grammi ministeriali che devono essere completati entro un certo tempo e che magari non
concedono al ragazzo che non è così brillante [...] (IntMe3/78) di acquisire tutto ciò che
deve acquisire. Che cosa significa? Che loro studiano tutto, e magari di corsa, ma come
corre un ragazzo del CFP, che avrebbe bisogno di tempi di apprendimento un po’ più
lunghi. A loro sfuggono le ovvietà (IntMe3/80); [...] molti di loro arrivano qui, in prima,
non avendo ben chiara la storia professionale che seguirà (IntMe3/88) [...]; arrivano qui
perché il CFP è, secondo l’idea generale, la scuola più facile (IntMe3/90). “Io sono
uscito con sufficiente”, ci dice la maggior parte dei ragazzi (IntMe3/92). “Ora, posto che
sei arrivato qui, cerchiamo di ottimizzare il tuo percorso. Per ottimizzarlo, tu devi però
partire con una sorta di lente nuova nell’occhio (IntMe3/98), che ti permetta di affrontare
con una certa scaltrezza le difficoltà che ti si presenteranno in laboratorio (IntMe3/100).
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Queste lenti devono pulire l’occhio da tutte quelle formule che si imparano a memoria,
da tutti quei problemi che vengono fatti in maniera pedissequa, e aggiungere un elemento
nuovo” (IntMe3/102). Il cambiamento è che, se la matematica devo proprio studiarla, al-
meno che io abbia un riscontro diretto del fatto che mi è utile. Quindi, prima di intro-
durre la matematica, introduciamo alcuni concetti di base: io vivo in un mondo tridimen-
sionale; questo mondo, lo dicevano già i filosofi, secoli prima di noi (IntMe3/104), parla
il linguaggio della matematica e della geometria; cerchiamo di sapere in che termini
(IntMe3/106); basta leggerlo; infatti, una volta capito che quello che ho davanti è effetti-
vamente un problema di aritmetica o di geometria, prendo le formule che mi servono, le
studio, le imparo e le applico al problema (IntMe3/108) [...]. Io non ti insegno la formula
e poi ti spiego a che cosa serve (IntMe3/412) ma, in base a quello che ti serve, elaboro
con te una formula [...] (IntMe3/414). Parto, ad esempio, dallo studio del vettore, nelle
due dimensioni, che è proprio l’elemento base del pacchetto di programmi che loro
usano in grafica (IntMe3/416), e a quello applico lo studio del piano cartesiano
(IntMe3/418). Un altro punto di forza è l’interdisciplinarietà, che mi permette di dare an-
cora più valore a quella formula o a quel problema. Non solo ti spiego che, se questa
cosa va così, è perché c’è quella formula sotto, ma tu puoi applicare quella formula
anche ad altre discipline e così quella cosa ti è doppiamente utile, perché la studi in ma-
tematica, ma è perfettamente fruibile in chimica, in fisica e in tecnologia; tutto questo
conferisce una motivazione diversa (IntMe3/432).
MR. (IntVr3) tenta di “raccontare” a cosa può servire la matematica. Più che le
ragioni che porta, sembra importante per lei il fatto di portare sempre delle ragioni,
che diventano convincenti nella misura in cui sono le “sue” ragioni, quelle che
hanno mosso lei ad intraprendere lo sforzo di imparare. E. (IntMe3) invita innanzi-
tutto i suoi allievi ad assumere uno sguardo nuovo sulla matematica, disturbando –
cosa che, come vedremo, i formatori tentano di fare a più riprese – l’immagine
“scolastica” che questa materia ha assunto ai loro occhi. Sottolinea inoltre l’onni-
presenza dei numeri nell’esperienza che abbiamo del mondo e rileva le innumere-
voli applicazioni di questa branchia del sapere. È interessante notare poi che la se-
quenza di lavoro proposta non prevede la successione classica: spiegazione della
teoria seguita da un esercizio di applicazione, ma l’offerta di un’esperienza a cui
far seguire un tentativo di formalizzazione che possa arrivare fino alla teoria. Forse,
si può concludere che, per questa docente, a costruire un contesto che faccia scat-
tare “motivazione” non sono solo – o tanto – le parole, ma la sequenza di attività
che si scelgono e l’epistemologia che le fonda.
Qualche altro formatore tenta di rispondere alla domanda del “a che cosa
serve?”, proponendo giochi logici, che, se non aiutano proprio a svelare il senso
della disciplina, almeno legano la matematica a qualcosa di piacevole4:
normalmente ripeto tutti gli anni un giochetto [...] che serve a rispondere alla prima do-
manda che i ragazzi generalmente mi fanno quando inizio a fare matematica con loro:
“ma a che cosa serve la matematica?”. Io ho sempre risposto loro che la matematica
serve a non farsi fregare. Ovviamente banalizzo, serve a molto di più, ma per me quello
che è utile a loro in quel momento è proprio questo. Inizio con un giochino scaricato da
4 Sulla leva del gioco torneremo anche più avanti.
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internet, facilissimo, che si chiama Lettura del pensiero. È un programmino abbastanza
semplice, che fa in modo che ai ragazzi sia chiesto di pensare ad un numero di due cifre,
di [...] sommare le cifre tra loro, di sottrarre la cifra ottenuta al primo numero. Poi il pro-
gramma fa comparire sullo schermo tutta una serie di simboli e, ad ogni simbolo, corri-
sponde un numero; apparentemente sono tutti diversi, ma in realtà tutti i multipli del
nove hanno lo stesso simbolo e, facendo quel giochetto, si ottiene un multiplo del nove.
La cosa funziona dicendo: “Fai molta attenzione, concentrati su questo simbolo, visualiz-
zalo bene, fammelo percepire...”, dopo di che il programma rielabora questi dati e fa ap-
parire questo simbolo; i ragazzi rimangono a bocca aperta e dicono: “Sì, è quello che
avevo visualizzato, quello che avevo pensato; ma, allora, il computer sa leggere il pen-
siero!”. Questo li cattura e io dico: “Vedete, la matematica serve a non farsi fregare,
perché io adesso vi svelerò che questo gioco ha una spiegazione matematica e che il
computer non sa leggere il pensiero”. Poi c’è un altro giochino, abbastanza simile [...],
quello dell’elefante nero in Danimarca; anche lì scoprono come, grazie alla matematica,
riescono a non farsi fregare. Anche “l’elefante nero in Danimarca” si trova su internet
[...]: non ricordo bene tutti i passaggi, però sta di fatto che si fanno sottrarre delle cifre,
aggiungere delle altre, per fare in modo che la lettera dell’alfabeto che corrisponde al nu-
mero che devono pensare sia una “E”, e si dice: “Pensa ad un animale che inizia con
quella lettera” – ovviamente è l’elefante, perché non c’è possibilità di sfuggire da questo
–; poi si va avanti, facendo sommare le cifre in maniera che venga la lettera “D” e si
chiede di pensare ad una nazione che inizia con quella lettera e ovviamente viene fuori
“Danimarca”; sommando altre cifre, si fa in modo di ottenere la lettera “N” e si chiede
loro di pensare ad un colore con inizi quella lettera, ovviamente il nero; alla fine si
chiede: “che cosa fa un elefante nero in Danimarca?” e loro dicono: “Come fa questo a
sapere che avevo pensato all’elefante, alla Danimarca e al colore nero?”. Si tratta sempli-
cemente di giochini logici (FGMat5/2).
L’effetto di questi rompicapi, facilmente reperibili in internet, sembra agire in
senso motivante: fa capire che la matematica serve magari anche solo a “non farsi
fregare”. Lo svelamento consente cioè di comprendere che è bene non fidarsi delle
conclusioni più immediate e che il “trucco” che sta sotto spesso ha a che fare con la
matematica. Ma il docente stesso non sembra contare più di tanto sull’efficacia di
questa strategia. Attività di questo genere servono infatti al massimo a suscitare un
po’ di interesse e di curiosità, che non bastano, ma sono comunque presupposti ne-
cessari per avventurarsi verso l’esercizio diretto della matematica, volto a risolvere
problemi e a fare scoperte.
La modalità che sembra più efficace per rispondere alla domanda “A che cosa
serve?” è quella che passa dall’esperienza. Avremo modo di approfondire più
avanti le strategie basate sul far fare esperienze. Per ora basti, alla luce dell’e-
sempio riportato sotto, ricordare come, attraverso l’esperienza diretta, i soggetti in
apprendimento riescano più facilmente ad attribuire un senso a ciò che fanno:
lavoriamo veramente molto [...] in sinergia con il laboratorio, perché è il modo più sem-
plice per dare qualche risposta alla domanda che tutti fanno, credo, da nord a sud: “A che
cosa mi serve quello che mi sta dicendo il prof?” [...]. Allora io l’“a che cosa mi serve
quello che mi sta dicendo” davvero spesso riesco a concretizzarlo, perché loro fanno, al
controllo numerico in particolare, dei test che sono veramente complessi, [...] come pro-
filo geometrico. Provare a scomporre un profilo geometrico, andare a cercare delle coor-
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dinate – utilizzando ovviamente gli strumenti che ci fornisce la geometria analitica – e
poi andare sulla macchina e verificare che il punto che si è calcolato è realmente quello:
vi garantisco che tutto questo cambia la prospettiva dell’allievo [...] (FGMat2/189); [...]
per far passare dei concetti complessi, come quelli di geometria analitica [...], noi, come
modalità operativa, colleghiamo sempre i concetti al particolare che poi loro realizzano
effettivamente in officina, in modo tale che abbiano davvero concretamente la possibilità
di vedere che quello che fai teoricamente, su un foglio o alla lavagna, poi lo fa la mac-
china e che, se la coordinata che dai è sbagliata, la macchina ti fa un pezzo sbagliato [...],
che non funziona [...] (FGMat2/191).
Negli indirizzi meccanici, l’utilizzo di macchine a controllo numerico mette a
confronto con strumenti di tipo matematico: assi cartesiani, trigonometria, ecc. La
possibilità di trovare senso in ciò che si fa passa dalla capacità del docente di far ri-
conoscere il rapporto che esiste tra i processi meccanici o elettrici ecc. e quelli ma-
tematici.
2.2. Far sperimentare che la matematica allarga il pensiero
Non si tratta di far diventare tutti dei matematici, ma di far cogliere, attraverso
esperienze dirette, che questa dimensione del pensiero, che poi è la chiave d’ac-
cesso al mondo scientifico e tecnologico, è essenziale anche nella vita:
mi capita, non tanto quando spiego [...], ma quando propongo loro dei problemini, di ve-
dere la partecipazione: mi piace vedere che sono attivi, che si pongono delle domande,
perché il mio obiettivo è quello, insomma, [...] che si facciano delle domande sul perché
delle cose, sul perché facciamo matematica in classe, ma anche sul perché di tante altre
cose che vedono fuori. Faccio riferimento – visto che insegno anche informatica – al-
l’uso dei computer, quindi [...] al sistema binario, al perché, a come funziona, a grandi
linee, [...] sempre stimolandoli ad interrogarsi sul perché delle cose, anche al banale:
“Perché, se faccio ‘salva’, le cose restano nel PC?” (IntVr8/72);
(quelli in cui sono impegnati) sono tutti settori in qualche modo creativi: la stampa, la
prestampa, la meccanica, l’elettronica sono chiamate alla risoluzione di problemi che non
sono scontati (IntMe3/228). Sviluppare questa creatività non è semplice e può essere
fatto anche attraverso la matematica, [...] insegnando loro a vedere delle cose che acca-
dono (IntMe3/230); questo è [...] il motivo che giustifica questa analisi del mondo
(IntMe3/232).
M. (IntVr8) sostiene che la matematica aiuta a pensare al perché delle cose e
sollecita ad interrogarsi, ad elaborare congetture, a scoprire nessi, in breve a ragio-
nare argomentando. Non limitarsi al che cosa e orientarsi al perché è l’essenza
stessa della matematica, ma, nello stesso tempo, educa un habitus importante per
la vita di ogni persona. E. (IntMe3) cerca di far guadagnare ai suoi allievi un punto
di vista in più sul mondo proprio attraverso la matematica che affina lo sguardo,
aiuta a comprendere meglio il mondo, consente di descrivere “cose e relazioni che
accadono”.
Riguardo alla questione del pensare, alcuni degli intervistati pongono il clas-
sico tema dell’uso della calcolatrice. Il problema – sembra dire J. (FGMat1/28-30),
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un formatore di origini albanesi che lavora a Torino – non sta tanto nel far usare o
meno la calcolatrice, che oggi del resto i ragazzi hanno sempre a portata di mano
anche sul loro cellulare, ma nell’abituare a forme di ragionamento rigoroso:
tante volte, nelle nostre riunioni, si solleva il problema che i nostri ragazzi non sanno fare
le quattro operazioni; io la vedo un po’ diversamente. Un ragazzo che non sa fare le
quattro operazioni è come un insegnante di università che stava spiegando una cosa
molto profonda – è successo davvero [...] –; era venuto fuori un calcolo molto semplice,
“7x5”, e il docente, un professore con la barba, altolocato, stava spiegando in modo diffi-
cile e rimase così (mima il docente, bloccato, con il gesso in mano), perché non si ricor-
dava quanto fa “sette per cinque” (FGMat1/28); ...dalla platea gli dicono uno “37” e un
altro “32” e l’insegnante, che era una mente razionale, dice: “Datemi un valore”; accet-
tava, perché non si ricordava, però l’unica obiezione che ha fatto era la seguente: “Non
datemi due valori!”. Con ciò voglio dire che anche le quattro operazioni [...] sono opera-
zioni meccaniche; se hai la calcolatrice, metti i numeri sulla calcolatrice e hai il risultato;
secondo me, è questa la soluzione. Io invece mi preoccuperei di più di un ragazzo che
non è in grado di ragionare, un ragazzo a cui tu dai tutte le possibilità per risolvere un
problema, deve fare solo un piccolo passo e non è in grado di farlo; questa è la cosa più
importante da fare con i nostri ragazzi: far acquisire fiducia in se stessi e portarli ad es-
sere in grado di ragionare, di risolvere problemi in situazioni simili ma sempre nuove
(FGMat1/30);
[...] Abbiamo le calcolatrici, i ragazzi le usano tutti; [...] io dico: “L’avete in mano! È
inutile che io dica: ‘Non usatela!’, tanto, quando siete da soli, quando siete in officina,
la usate; quindi, usiamola!”; [...] ma questo è un puro e semplice premere i tasti, invece
è molto più importante capire cosa significa fare quell’operazione; nell’esecuzione, uno
può essere più o meno abile, ma ci sono degli strumenti che ti aiutano; il fatto di ri-
uscire a ragionare è altra cosa. Ad esempio, proprio quest’anno ho chiesto ai ragazzi:
“Sapete calcolarmi il volume di un pacco?”. “Certo!”. “Benissimo! Allora, avete una
scatoletta di queste dimensioni; ne vogliamo imballare un certo numero dentro uno sca-
tolone di cui vi ho dato le dimensioni; è un prisma questo e un prisma quest’altro; mi
dite quante scatole stanno là dentro?”. “Professore, non c’è mica nessun problema: vo-
lume del prisma grande diviso volume del prisma piccolo e abbiamo il numero delle
scatole”. “Ragazzi, facciamo il disegno e mettiamo sulla lavagna i disegni delle scato-
lette che sono dentro”. Li mettiamo: una, un’altra, un’altra, un’altra ancora. Ogni scato-
letta era alta 1 cm, ad esempio; 1 cm, moltiplicato per la lunghezza della scatola, ci dà
già un volume che è maggiore di quello della singola scatola, per cui: “Voi le avete
contate, ne avete tagliato una fetta e l’avete spalmata lungo tutta la superficie. È vero,
sapevate farlo, ma dovete imparare a ragionare sulla situazione in cui vi trovate. Dovete
riuscire a superare il fatto che ‘so la formula, applico la formula meccanicamente e
sono certo di giungere alla meta’...”. È in questo che molto spesso mancano gli allievi,
cioè nella capacità di [...] ragionamento [...]. E questo per me, è ciò su cui occorre lavo-
rare. Per me, l’unica maniera è proporre tanti esempi pratici, casi diversi, che li mettano
ogni volta in difficoltà, in situazioni diverse, fino a far loro avvertire anche l’esigenza
di risolvere la questione in modo più generale [...]. C’è poi, ad esempio, la questione
della formula inversa: ricavare la formula inversa, sapendo la capienza totale del vo-
lume di un solido; non ci si può limitare semplicemente a dare la formuletta e poi a
dire: “Esiste anche la formula inversa”. No, partiamo da un caso pratico e ricaviamo in
quel caso quello che vogliamo. Ad esempio, con i tecnici, ho detto: “Benissimo, ra-
gazzi, vedete quel porta-mantelli che c’è laggiù, in fondo all’aula? È un tubolare; vor-
remmo sapere, più o meno, quanto ce ne occorre per farne uno per un cliente. Allora,
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pensiamo a come fare. Ecco, andiamo a misurare”. Allora è partito un ragazzo: “Ma
non ho niente!”. “Hai il righello. Arrangiati e lavora con quello. Dai le misure ai tuoi
compagni!”. Dopo di che [...], nel calcolo c’era chi magari dimenticava il piedino, chi
dimenticava l’altra parte. Dopo di che: “Professore, il peso specifico del ferro. Non lo
so!”, “Benissimo, 7,58”. “7,58 cosa?”. “Prova tu a vedere cos’è questo 7,58 e poi ne ri-
parliamo”. “Ah, sì, sono kg!”. Allora, kg per cm3: “Pesa 860 kg!” (risata generale).
Prendevo il più piccolino e dicevo: “Prova a portarlo!”. “Allora, o abbiamo in classe un
fenomeno o il vostro risultato oggi ha qualche problema!”. Anche in questo caso, si an-
dava a definire quale poteva essere l’errore eseguito nel corso dell’esercizio e dal caso
particolare si andava poi ad affrontare il caso più generale (FGMat1/33). Il problema è
che spesso non riescono a capire l’errore: molte volte, ad esempio, usano la calcola-
trice, viene un risultato assurdo e loro lo prendono, senza ragionare su quello che ar-
riva. Una volta, mi ricordo, ho scritto un’espressione alla lavagna e ho detto: “Fate
prima da soli, senza calcolatrice”. Io andavo scrivendo alla lavagna tutti i risultati che
venivano da loro. “Adesso usate la calcolatrice. Se avete usato la calcolatrice, dovrebbe
venire a tutti un risultato uguale [...]”. Anche lì, molti risultati erano diversi [...]. Si
tratta quindi di riuscire a farli ragionare sul perché andare a togliere quel valore e pren-
derne un altro [...] (FGMat1/35).
Capita spesso, nella scuola, che la calcolatrice non sia bene accetta, perché è
vista come uno strumento che, se migliora alcune prestazioni, rischia di affievolire
la capacità di calcolo mnemonico5. Ma il problema non è questo. Il problema è
che, con o senza l’uso della calcolatrice, sia possibile sviluppare la capacità di ra-
gionare. Anche un grande matematico, ci dice il nostro formatore, potrebbe non
possedere abilità di calcolo “superiori”. Nel secondo racconto, M. (FGMat1/33-35)
ci offre alcuni esempi di come, attraverso una conversazione riflessiva, si possano
stimolare alcune capacità di ragionamento, innanzitutto di carattere pratico e poi
anche matematico. Dal punto di vista didattico – e soprattutto epistemologico –
il problema è, pur partendo da oggetti e realtà empiriche, far comprendere che
gli oggetti propri della matematica non sono propriamente cose che si vedono,
si toccano, si prendono in mano. La matematica ha a che fare con “cose” più gene-
rali che, proprio per questo, possono valere nei vari casi particolari. L’esempio pra-
tico fornisce rappresentazioni immediatamente accessibili (anche se talvolta li-
mitate) dei concetti e aiuta a stimolare l’intuizione, ma su questo è necessario poi
articolare un ragionamento, orientando a considerare lo stesso problema in casi
analoghi.
2.3. Far incontrare testimoni
Una strategia che qualche formatore trova efficace nel CFP è organizzare mo-
menti di incontro tra allievi ed ex-allievi. Questi ultimi vengono invitati a portare la
5 Sull’importanza del calcolo manuale e sul rischio che l’uso delle calcolatrici atrofizzi la mente,
può essere interessante leggere (e magari far leggere ai propri allievi) il racconto di fantascienza di
Isaac Asimov, dal titolo Nove volte sette, incluso nella raccolta di racconti matematici curata da
Claudio Bartocchi (2003).
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loro testimonianza, relativa all’impegno lavorativo, ma anche all’utilità dell’espe-
rienza formativa vissuta al CFP. Ecco un esempio:
vincente [...] per me è stato far intervenire spesso degli ex-allievi, che vengono a portare
la loro testimonianza. Ho ragazzi che due o tre anni fa erano esattamente in quelle stesse
aule, facevano quelle stesse cose; siccome sono lì da venticinque anni, ho i miei ex-al-
lievi che vengono a raccontare realmente del mondo del lavoro, di dove sono collocati, di
che cosa utilizzano concretamente di quanto si spiega a scuola. Per i ragazzi [...] la pre-
senza di questi testimoni è estremamente (FGMat2/189) motivante, molto utile, perché
davvero scatta l’interesse di dire, ok, intanto: “Quanto prendi al mese?” – che è certa-
mente una delle variabili [...] che interessa a tutti –, ma poi anche: “Come hai fatto ad ar-
rivare nel posto in cui sei? Che responsabilità hai? Ma i disegni te li fai da solo o te li
controlla qualcuno [...]? E i calcoli?”. È una cosa interessante, perché davvero si crea un
dialogo che è costruttivo e motivante (FGMat2/191).
Gli ex-allievi offrono ai loro compagni ancora seduti ai banchi una via di ac-
cesso al mondo reale, stimolano in loro la capacità di “vedersi da grandi”, e dunque
di dare direzionalità e senso all’impegno che viene loro richiesto nel presente, ma
anche la consapevolezza che non si smette mai di imparare e che ciò che si impara
al CFP può essere utile per la vita.
2.4. Far recuperare le conoscenze di base
Far recuperare alcune conoscenze di base risulta essere un’azione necessaria,
soprattutto con le classi prime, anche per aiutare a trovare ragioni per impegnarsi.
Talvolta, infatti, il divario accumulato tra ciò che si sa e ciò che, a quel livello della
formazione, sarebbe richiesto di sapere è talmente incolmabile, da indurre a scorag-
giarsi e ad alzare bandiera bianca:
ho notato che, in questi anni, soprattutto in prima, c’è da fare un grosso recupero delle
[...] competenze che loro dovrebbero sviluppare alle medie e che purtroppo, in linea
di massima, chi arriva al CFP non possiede; [...] questa è la grossa difficoltà, perché poi
ci sono ragazzini “bravini”, ma che, fin dalle scuole medie [...], sono stati un po’ messi
da parte e perciò (non possiedono) gli strumenti fondamentali [...]; in prima, (il lavoro)
è questo: recuperare le cose che non sono state fatte (IntVr1/2); [...] recuperare concetti –
più che concetti, “strumenti” – che loro non hanno [...] (IntVr1/12);
(faccio) una prima valutazione delle loro conoscenze pregresse [...] delle medie e anche
delle elementari; riparto semplicemente dalle tabelline – sempre, durante le prime due o
tre settimane –, da cosa sanno o non sanno di matematica: le classiche quattro operazioni
fondamentali, le tabelline, cose molto semplici; pensando a quest’anno [...], le difficoltà
più grosse che ho riscontrato, nelle prime due o tre settimane, erano proprio difficoltà di
calcolo (IntVr3/3): [...] non sapevano fare le operazioni più elementari; le tabelline, per
esempio, erano delle perfette sconosciute per molti (IntVr3/5);
ho cominciato chiamando qualcuno di loro alla lavagna [...] (IntMe5/15); venivano alla
lavagna, facevano degli esercizi; coglievo l’occasione dell’errore fatto nell’esercizio per
proporre un lavoro ulteriore; all’inizio erano cose abbastanza semplici, del tipo: risol-
vere espressioni. Avevano un po’ di confusione in testa su quali operazioni svolgere
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prima, su come si facevano certe operazioni; sono partito proprio dalla base, dagli in-
siemi più semplici, dai numeri naturali, e poi abbiamo fatto uno scalino in più e siamo
andati avanti con i numeri interi, poi con i numeri razionali ecc., usando sempre lo
stesso tipo di esercizio, cioè prima un’espressione svolta solo con numeri naturali, poi le
operazioni con i numeri naturali, poi i numeri interi e i numeri razionali [...] (IntMe5/
17); siccome, nel momento in cui diciamo: “Va bene, affrontiamo un altro insieme”, loro
pensano che il primo è tutto da resettare, dico: “No, ragazzi, non è così, dobbiamo tenere
a mente quali sono le regole di base e andare avanti applicandole sempre”. [...] Gli
ultimi argomenti che stiamo svolgendo riprendono alcune cose sulle proprietà delle
operazioni; allora ho detto: “Vedete, ragazzi, a volte le cose ritornano, quindi non pos-
siamo imparare a compartimenti stagno” [...], perché poi i collegamenti ci sono sempre
(IntMe5/21).
F. (IntVr1) rileva la necessità di basare buona parte del suo lavoro del primo
anno sul recupero delle conoscenze di base, soprattutto di carattere strumentale.
Anche MR. (IntVr3), dopo aver dedicato un tempo adeguato alla conoscenza della
classe, riserva una particolare attenzione alla diagnosi delle conoscenze pregresse
effettivamente possedute dai suoi allievi e al recupero di elementi che avrebbero
dovuto essere già stati acquisiti. P. (IntMe5) procede con gradualità e dedica parti-
colare attenzione a far cogliere i collegamenti e l’importanza di tenere insieme i
vari elementi appresi. Questo invito alla riflessione vuole anche evitare che il recu-
pero di conoscenze “di base” si identifichi con una serie di attività tra loro sgan-
ciate e svolte acriticamente.
Alcuni formatori, per proporre esercizi di recupero, ricorrono alle nuove tecno-
logie, mettendo a disposizione risorse accessibili in rete anche in tempi diversi
dagli orari scolastici:
mi aiuto molto con il computer; tutto ciò che è visto in un’ottica di recupero delle cono-
scenze delle medie, cerco di trasferirlo [...] sul computer (FGMat1/51);
il lavoro che ho realizzato con una seconda acconciatori, all’inizio dell’anno formativo,
aveva come tematica il ripasso delle cose fondamentali [...] del primo anno; abbiamo
scelto di delimitare gli argomenti a “monomi” e “prodotti notevoli” [...]. Ho usato il sito
che utilizzo spesso; ho diviso la classe in gruppi di quattro [...], senza tener conto dei più
bravi o dei meno bravi, ma semplicemente seguendo l’ordine alfabetico del registro di
classe, dall’uno al quattro, dal cinque all’otto e via così. Poi, con la collaborazione di una
collega, che assisteva il resto della classe, li ho accompagnati quattro per volta nell’aula
di informatica, che è attigua a quella in cui loro fanno normalmente lezione; là hanno
eseguito [...] tre test; il primo della classe [...] faceva da segretario e quindi segnava i
punteggi; [...] alla fine, abbiamo selezionato [...] il gruppo che aveva ottenuto il pun-
teggio più alto [...]. È stato interessante, perché il tutto era la conclusione di un lavoretto
durato circa un mese, dal quindici settembre al quindici ottobre, di ripasso del pro-
gramma svolto l’anno precedente [...] (FGMat4/19).
W. (FGMat4/19), a conclusione di un percorso sul ripasso dei contenuti affron-
tati l’anno precedente, ha proposto ai suoi allievi, articolati in gruppi, alcuni test ac-
cessibili in rete. Ma per affrontare la questione in una prospettiva più ampia e pre-
ventiva, M. (FGMat4/51) racconta, nel brano seguente, che a Fossano, in Piemonte,
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i formatori hanno avvertito l’esigenza di mettere in piedi un progetto articolato che,
sul potenziamento delle competenze di base, coinvolgesse le varie istituzioni scola-
stiche e formative presenti sul territorio:
vorrei presentare una cosa in divenire, che ha cercato di rispondere al problema delle
difficoltà o meglio delle lacune degli allievi in ingresso. Noi ci trovavamo, tutti gli
anni, quando facevamo i test di ingresso – quelli veri, non quelli imposti – e ci confron-
tavamo tra insegnanti, a ripeterci: “Sai che ho degli alunni che non sanno la tabellina
del sette!”, “Io ho due dei miei che credono che 2:8 sia impossibile!”. L’anno dopo ci
scambiavano le classi, ma i problemi rimanevano gli stessi; anno dopo anno, ci trova-
vamo sempre con i medesimi problemi; quindi cercavamo di recuperare queste lacune.
L’anno scorso siamo partiti con un’idea diversa: “Perché non cercare di evitare queste
lacune in ingresso?”. È partito allora un progetto che ha coinvolto [...] tutte le scuole
della città [...], le scuole medie, i CFP e le scuole superiori. Ci siamo trovati divisi per
discipline, gli insegnanti di matematica, gli insegnanti di italiano ed gli insegnanti
di lingue. Gli insegnanti delle scuole medie hanno descritto quello che facevano [...].
C’erano insegnanti che dicevano: “Ai miei faccio fare le mappe concettuali”; un’altra
diceva: “io faccio il grafico delle funzioni esponenziali, voi che problemi avete?”. “Noi
saremmo contenti se sapessero le tabelline, quando arrivano da noi!”. C’è stato un
primo confronto abbastanza serrato su cosa era necessario far apprendere, su cosa gli
insegnanti delle superiori speravano che gli allievi provenienti dalle scuole medie
sapessero. Quindi, si sono fatti una serie di incontri in cui sono stati stabiliti i contenuti
minimi che noi ci aspettavamo che gli allievi conoscessero, nel momento in cui arri-
vavano da noi. La stessa cosa hanno fatto gli insegnanti del liceo e di tutte le altre
scuole superiori. Si è fatto un confronto, si sono estrapolati una serie di contenuti mi-
nimi comuni a tutte le classi, a tutte le scuole superiori e, d’accordo con gli insegnanti
delle medie, si è deciso di insistere su questi contenuti. Le scuole medie si sono prese
l’impegno di rinforzare queste parti del programma [...]. Tutte le scuole medie, da cui
arriva praticamente il 90% dei nostri allievi, hanno sottoposto ai propri allievi una serie
di test [...], senza voti, in cui si insisteva su queste parti. Questi test [...] saranno ripro-
posti [...] anche dal nostro CFP; i risultati [...] verranno riportati alle scuole di prove-
nienza. In questa maniera, si vede che traccia ha lasciato l’insegnamento dopo i mesi
delle vacanze estive; allo stesso tempo, si vede se la spiegazione è stata efficace o se,
nel momento dell’elaborazione dei test, ci sono stati degli elementi, per così dire, inqui-
nanti. A regime, ci sarà un feedback continuo tra CFP o Istituto superiore e Scuola
media, per far sì che quelli che sono considerati contenuti imprescindibili siano rinfor-
zati e opportunamente stimolati da parte della scuola media ed evitare così ciò che suc-
cede al CFP, che le tabelline, al momento dell’entrata, sono praticamente sconosciute ai
più (FGMat4/51).
Queste forme di collaborazione tra enti ed istituzioni sollecitano un confronto
e stimolano all’individuazione dei nuclei fondamentali del curricolo, creando le
basi per assicurare una migliore continuità tra i vari livelli di scuola e per aiutare
tutti gli allievi a raggiungere i livelli essenziali di apprendimento.
2.5. Quando ciò che muove è l’affetto che lega all’insegnante
Sulla crucialità dell’elemento relazionale avremo modo di tornare più avanti,
ma già ora è importante notare come la qualità della relazione con il docente
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agisca in modo consistente proprio sulla motivazione ad apprendere. General-
mente, l’apprendimento richiede anche una sorta di patto implicito tra il soggetto
in apprendimento e il docente, che comporta inizialmente una specie di affida-
mento del primo all’autorevolezza del secondo. Se però la relazione non funziona,
non può avvenire quell’affidamento che è necessario per compiere i primi passi
nell’apprendimento:
alcuni di loro (vanno male) [...] perché hanno un certo tipo di rapporto con l’insegnante e
decidono di “farla finita” con quella materia (IntMe5/205). Quando hanno deciso questo,
solo se si riesce a recuperare in qualche modo il rapporto, si vede qualche risultato,
perché [...] magari fanno quello sforzo in più e dicono: “Va beh, faccio qualcosa, provo a
fare qualcosa” (IntMe5/207);
loro studiano la matematica per noi, non per la matematica, cioè loro si affezionano tan-
tissimo a noi; non tutti, però tanti si affezionano a noi, e quindi la mattina ti fanno i com-
plimenti per come sei vestita, perché hai cambiato pettinatura...; sono cose che non cen-
trano niente con la matematica, però poi questo crea il clima per partire con la lezione
(IntPd4/98); avevo un vestito fucsia e mi dicono: “oh, lei vestita in fucsia, è fashion,
prof! Oh, che bene le stanno i capelli questa mattina!”. Oppure vogliono sapere spesso
alcune cose sulla mia famiglia, vogliono vedere le foto dei miei figli; un giorno ho por-
tato loro le foto dei miei figli e [...] un ragazzino mi ha detto: “Prende anche me come
figlio?”. “Sì, sì” (IntPd4/102);
(cerco) di attirare la loro attenzione sulla materia, perché poi questa è la difficoltà e,
con la matematica, spesso non è facile. [...] Ci sono alcuni contenuti che possono spo-
sarsi bene con la produzione che sono tenuti a fare per l’esame di qualifica: con i
meccanici, i cenni di trigonometria, collegati poi a quello che loro usano quasi quoti-
dianamente nel lavoro, nella fase di progettazione, nel disegno; sono argomenti che si
sposano bene a questo contatto diretto con quello che “ti serve saper fare”. Ci sono
tanti (temi), quelli che rappresentano un po’ la base della matematica, con i quali è
invece più difficile trovare questo collegamento: lavorare su un prodotto notevole con
i ragazzi diventa complicato, perché è meno riconducibile ad una realtà concreta; là
si gioca sulla motivazione allo studio [...]. Quando ho chiesto ai ragazzi (qual era la
loro motivazione a studiare), spesso la risposta è stata: “lo faccio perché il mio inse-
gnante mi sta a genio!”. Purtroppo questa non è una buona motivazione (IntMe2/36);
dico “purtroppo” perché mi rendo conto che noi facciamo tanta leva su questo e la
maggior parte dei nostri ragazzi si butta sui libri il pomeriggio o durante i recuperi
perché: “l’insegnante me lo ha detto, e siccome io non posso tradire quell’insegnante,
allora io lo faccio per lui” (IntMe2/40). A me non piace il finale, perché a mio avviso il
processo dovrebbe essere questo per agganciarli, per far loro vedere che, lavorando
anche poco, raggiungono dei buoni risultati, poi dovrebbero arrivare a guadagnare
autostima, trovare un metodo e sganciarsi dall’insegnante, dicendo: “Bene, adesso vado
avanti indipendentemente da te; ti ringrazio perché mi hai fatto capire questa cosa, ma
ho maturato un mio obiettivo, una mia realizzazione...” (IntMe2/42). In terza, si arriva
talvolta a raccogliere il risultato, quando i ragazzi maturano anche la sete di continua-
re a studiare (IntMe2/44). In altri casi, si vede che magari perdono la loro insegnante
o perdono il contatto con quell’insegnante e allora tutto crolla... (IntMe2/46); penso
che questo, da una parte, sia il nostro tesoro, perché gli insegnanti qui sono bravi a
fa-re questo, ma è anche un punto critico [...] (IntMe2/48), [...] un problema [...],
nel momento in cui il ragazzo non arriva a maturare una sua autonomia nello studio
(IntMe2/50).
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Nel bene o nel male, il rapporto che lega al formatore determina in buona mi-
sura anche il rapporto che un soggetto costruisce con la disciplina. Nei confronti di
quei ragazzi che, proprio per un rapporto difficile con precedenti insegnanti, deci-
dono di “farla finita” con la matematica, P. (IntMe5) sostiene che, solo recupe-
rando il rapporto, si riesce a mobilitare qualche energia per l’apprendimento. A.
(IntMe2) sostiene che, soprattutto quando si affrontano oggetti di apprendimento
che sono intrinsecamente meno motivanti, perché più sganciati dall’esperienza
concreta, diventa decisiva la qualità della relazione che si instaura con l’inse-
gnante. Sempre A. riconosce che, nella realtà del suo CFP (ma il discorso può es-
sere in certa misura generalizzato a tutti i contesti di provenienza dei partecipanti
alla ricerca), i formatori riescono bene su questo fronte. Ma questo non può che
rappresentare solamente il punto di partenza. L’obiettivo non è se-durre, ma far
guadagnare agli allievi fiducia nelle proprie capacità di apprendere e autonomia, in
modo che possano camminare con le proprie gambe. La qualità della relazione tra
allievi e formatori è dunque funzionale a far crescere i soggetti in apprendimento e
non è un fine in sé.
3. ORGANIZZARE LA LEZIONE IN MODO EFFICACE E FLESSIBILE
Buona parte dell’efficacia dell’insegnamento passa, a detta dei docenti-forma-
tori che hanno partecipato alla ricerca, dalla qualità dell’organizzazione didattica
della lezione, tanto più che diversi formatori avvertono l’esigenza che la parte più
consistente dei processi di apprendimento avvenga già durante le ore che i ragazzi
passano in aula, prevalentemente al mattino6:
noi ad esempio non diamo più nessun compito a casa, di nessuna materia [...] però ab-
biamo dovuto elaborare delle strategie per far sì che quel tempo che dedichiamo ai ra-
gazzi diventi estremamente produttivo [...] (FGMat1/65).
Questo comporta un’organizzazione particolarmente attenta dell’attività, il che
non significa programmare ogni passo, impedendosi così di cogliere e di valoriz-
zare l’imprevisto e ciò che avviene in situazione, ma riservare una specifica atten-
zione ai diversi momenti di una lezione, in particolare all’avvio, al corpo centrale e
alla conclusione. Dedicheremo più avanti una specifica attenzione alle dimensioni
dell’attività, del fare e delle consegne di lavoro. Qui di seguito riportiamo le indica-
zioni che, dal racconto dei formatori intervistati, possono essere ricavate sul modo
in cui organizzare la lezione nelle sue varie fasi.
6 Questo anche in considerazione del fatto che i ragazzi del CFP trascorrono la maggior parte del
loro tempo presso la struttura formativa.
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3.1. Curare l’avvio
L’avvio di una lezione o di un’unità di lavoro risulta essere un momento cru-
ciale, per i nostri formatori, dal quale dipende, in buona misura, la possibilità di
creare le condizioni perché i propri allievi si dispongano a lavorare proficuamente e
problematizzino l’impressione tra loro diffusa che la matematica sia qualcosa di
freddo e antipatico.
3.1.1. Creare il clima e l’aggancio relazionale
Un rapporto cordiale ha sempre un effetto positivo sulle persone. I formatori
dedicano una specifica attenzione a rendere i primi minuti della lezione particolar-
mente caldi, utilizzando un registro personale e colloquiale:
un’altra cosa che pensavo è di [...] valorizzare l’aspetto umano. Loro non vogliono sentirsi
soggetti da indottrinare: “Adesso ci sta riempiendo di queste informazioni! Lasciamola
parlare, tanto dopo se ne va fuori!”. In terza A, basta un occhiata per capire se l’ora prece-
dente è stata un disastro, se qualcuno ha preso un brutto voto, se uno si è tagliato i capelli,
se uno è depresso, se uno ha perso l’i-Pod; basta un occhiata per vedere le emozioni; l’a-
spetto umano lo trovo fondamentale, poi è logico, [...] passo l’intervallo a chiedere cosa è
successo: “Serena7, cosa è successo?”... (IntVr3/258); me ne accorgo anche dopo, durante
il corso della lezione, passando tra i banchi, e dico: “Cos’è successo? Qualcosa che non
va?”. Ad esempio, Everet, che l’altro giorno non avevo capito, mi ha fatto segno con la
mano e mi ha detto: “Cosa vuole?”; aveva il pugno sul “cinque” di inglese; era il motivo
per il quale non aveva più seguito matematica [...]. Gli ho detto: “Senti Everet, per cor-
tesia non pensarci. Fai matematica perché, se no, prendi un cinque anche in matematica e
fanno due; poi domani pensi a recuperare l’inglese!”. Oppure, non so, tante piccole cose,
anche semplicemente dire a una ragazza: “Ti sei tagliata i capelli, stai veramente bene!”
sembra una sciocchezza, però il sentirsi ragazzi non valutati e conosciuti soltanto per
quello che hanno per la testa, ma anche per come sono loro umanamente è fondamentale
(IntVr3/260);
a me piace tantissimo parlare della matematica, ma mi piace anche parlare con loro di
altro; [...] se vedo uno studente che è giù o uno che è troppo esuberante oppure addirit-
tura... (IntPd1/134) ...irrefrenabile, io [...] mi fermo anche durante l’ora [...] e cerco di
capire, di andare a fondo; non mi fermo in superficie, [...] non mi fermo all’esterno; [...]
loro mi aiutano [...] o ringraziandomi o dicendomi: “Bravo, prof” o stando zitti anche,
con lo sguardo semplicemente [...] (IntPd1/136).
Sia nel caso di MR. (IntVr3) che nel caso di M. (IntPd1), i formatori dimo-
strano di sapersi accorgere di ciò che succede, di intercettare gli stati d’animo del
gruppo e dei singoli, di comunicare attenzione e vicinanza, ma anche di saper
riportare con delicatezza l’attenzione verso il lavoro che si sta facendo. Le routine
che si stabiliscono per l’avvio dell’ora sono diverse, soprattutto da CFP a CFP, ma
vengono gestite sempre con una forte attenzione relazionale:
7 I nomi propri – in questo e in tutti gli altri brani che verranno riportati – sono ovviamente nomi
di fantasia, dato che quelli presenti nei testi raccolti sono stati modificati.
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ci sono dei momenti ricorrenti: entrare, fare l’appello, aspettare cinque minuti che ci sia
silenzio, cosa non sempre semplice, perché loro hanno sempre da raccontare le loro cose
(IntVr1/52);
per esempio, per me è molto importante l’entrata in classe: i ragazzi devono essere in
piedi e, se non sono in piedi, aspetto fino a quando non lo sono; io sono in piedi con loro
[...]; loro si accorgono e cominciano a far silenzio, soprattutto dopo che la cosa è rodata;
quando io mi siedo, dico: “seduti!”, e loro si siedono. Questa cosa... (IntMe6/4), comin-
ciare anche in maniera formale [...], per me, dà l’idea ai ragazzi che sono entrato, che
non è più il cambio dell’ora, che incominciamo in qualche maniera a lavorare
(IntMe6/6). Poi di solito firmo i registri e faccio l’appello, il che non vuol dire che i ra-
gazzi siano perfettamente in silenzio, nel senso che io personalmente li lascio ancora un
attimo tirar fuori il quaderno, sistemare le loro cose; quando ho finito di fare la parte bu-
rocratica, che di solito ti porta via un po’ di tempo, si comincia (IntMe6/8);
entro [...] e saluto tutti in modo sereno [...]; di solito, la domanda più gettonata è: “Prof,
posso andare al bagno? Prof, vado al bagno...” ecc., e la mia risposta, ovviamente, è
sempre: “No!”, perché loro sanno che la risposta completa è: “No, prima tutti seduti, poi
ci organizziamo” [...]. In due o tre minuti, insomma, ottengo la “dignità” della classe e
poi inizio la mia lezione (IntPd1/26); [...] la lezione non va avanti, finché non ottengo
quel minimo di attenzione per continuare (IntPd1/32).
Sia F. (IntVr1) che P. (IntMe6) consentono, mentre sbrigano le faccende buro-
cratiche (firma del registro e verifica delle presenze...), che i propri allievi chiac-
chierino sottovoce (continuino a “raccontarsi le loro cose”...) o sistemino sul banco
il quaderno e gli altri strumenti. P. esige però che i ragazzi si alzino in piedi al suo
ingresso. Questo gli consente di segnalare la sua presenza. In questo modo, i ra-
gazzi capiscono che è il momento di cominciare a fare silenzio per poter lavorare.
Anche M. (IntPd1) dedica i minuti iniziali alla creazione di un clima decoroso che
consenta di iniziare l’attività.
3.1.2. Inquadrare l’argomento
Il primo passo dei nostri formatori è normalmente quello di annunciare il tema,
l’argomento su cui si andrà a lavorare o gli obiettivi che ci si aspetta di raggiungere
durante la lezione che sta per cominciare. Alcuni trovano utile elencare e scrivere
alla lavagna obiettivi e strutturazione della lezione (articolazione delle fasi di la-
voro). Vediamo un esempio:
nel momento in cui devo affrontare una lezione, seguo un po’ l’iter tradizionale
(IntVr1/4). Prima dico: “Oggi affronteremo questo argomento...”, poi faccio una breve
premessa di come lo inseriamo, dove si inserisce; qualcuno qualche volta fa una do-
manda di tipo storico (IntVr1/6), quando ad esempio faccio riferimento al nome di un
matematico che non conoscono [...] (IntVr1/8) [...]. Spiego il percorso in generale e dopo
vado al dettaglio e dico: “Adesso ci soffermeremo su questo...”, (spiego) perché lo fac-
ciamo, a che cosa ci servirà... (IntVr1/34). [...]. Se devo iniziare un argomento nuovo,
[...] lo contestualizzo, dico: “Questo sarà fatto in modo tale che andremo a raccontare
prima quali sono gli elementi che ci servono per poter, appunto, portare avanti il nostro
ragionamento...”; e, man mano, vado a descrivere, dicendo: “Oggi, in particolar modo...”
(IntVr1/52).
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L’inquadramento – al quale ci si può richiamare durante tutte le fasi del lavoro
– consente agli allievi di collocare il tema della lezione nell’insieme del percorso e
di cogliere così le connessioni tra le varie parti che vengono svolte. Inoltre, offre
loro delle indicazioni sul senso, sul perché il docente ha scelto di affrontare quel
determinato argomento o di lavorare su quegli aspetti proprio a quel punto del per-
corso. L’insegnante inoltre introduce globalmente ciò che nel corso della lezione
verrà poi ripreso e analizzato in dettaglio.
3.1.3. Riprendere il filo rosso del percorso, facendo fare il “riassunto della puntata
precedente”
È importante che il filo rosso che lega i vari momenti di un percorso (le varie
lezioni di un’unità o i vari momenti di una lezione...) sia ben riconoscibile, per il
docente e per gli allievi. Per questo, i nostri docenti dedicano una particolare atten-
zione, ad esempio, in avvio di lezione, alla ripresa di quanto svolto nelle lezioni
precedenti:
ogni volta che entro, faccio il riepilogo della puntata precedente: “Allora, che cosa ab-
biamo fatto l’ultima volta? Chi è che esce volontario e scrive?” [...] (IntVr1/80); [...] per
un argomento già iniziato, ho detto: “Vi ricordate la settimana scorsa?”; rifaccio il di-
segno, cerco di andare a rivedere le cose essenziali (IntVr1/54). (L’argomento era quello
dei) triangoli qualunque: “Sì, sì, prof, quel disegno l’ha già fatto”. “Bene, vediamo se ho
messo le lettere giuste”; io, nel frattempo, avevo visto che le avevo messe allo stesso
modo, perché c’è sempre quello che è avanti, è bravo, scrive tutto, e quindi ho riprodotto
lo schema che avevano già fatto... (IntVr1/56);
tendo sempre a chiedere all’inizio se ci sono dubbi o questioni sull’argomento spiegato il
giorno prima (IntPd1/26).
La consegna di fare un breve sommario della “puntata” precedente, o la ri-
chiesta di esplicitare domande ed eventuali dubbi su quanto affrontato nell’ora pre-
cedente, permette agli allievi di ricollegarsi a quanto appreso, ma anche di richia-
mare alla memoria il percorso, con i suoi obiettivi, i contenuti e i metodi.
Anche la correzione dei compiti assegnati per casa, che nelle interviste viene
più volte menzionata, assume talvolta la funzione di collegare il lavoro che si sta
per cominciare con il percorso svolto in precedenza:
avevo fatto la correzione dei compiti per casa: la faccio sempre; do sempre due o tre eser-
cizi [...] (IntVr1/56); ad esempio, la settimana scorsa, [...] avevo assegnato i compiti per
oggi e [...] allora, prima di iniziare la lezione vera e propria, ho fatto il controllo dei com-
piti per casa; i compiti per casa riguardavano i triangoli rettangoli, invece l’argomento
che dovevo affrontare erano i triangoli qualunque. Ho detto: “Bene, ora confrontiamo e
vediamo che differenza c’è. Perché, secondo voi, ora facciamo questo? Rivediamo le ope-
razioni che avevamo fatto prima; possiamo applicarle a questo caso?”. In un triangolo
qualunque trovo delle similitudini [...]. “Posso risolverlo allo stesso modo?”. Allora, qual-
cuno, sempre il più bravino, risponde [...] (IntVr1/58). [...]: “Ci sono elementi simili?
Possiamo trattarli allo stesso modo?”. “No? Ecco, invece sì!”. [...] Arriviamo alla conclu-
sione che li possiamo usare e allora dico: “Bene, ho questi triangoli”; illustrando l’eser-
cizio disegnato alla lavagna, chiedo: “Con che cosa posso risolverlo? Mi servono le re-
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gole che avevamo visto prima? No? Allora, cosa facciamo?” [...] (IntVr1/60). [...] (Si
tratta) di stimolarli almeno a [...] rielaborare quel che è stato fatto in aula (IntVr1/124).
La correzione dei compiti fa tornare sul percorso pregresso, consente di ripren-
derne i passaggi principali e di innestare su quello l’introduzione del nuovo argo-
mento da affrontare.
3.1.4. Agganciare conoscenze pregresse
Quando l’argomento è nuovo, diversi docenti trovano utile agganciare e valo-
rizzare le conoscenze che i ragazzi possiedono già, perché maturate in precedenti
esperienze scolastiche o semplicemente nella vita:
dico: “Vi ricordate questo?”, [...] perché il programma di prima è tutto agganciato a
quello che hanno fatto alle scuole medie (IntVr1/18);
partendo con un argomento nuovo, [...] ad esempio l’equazione di primo grado, ci può
essere un argomento da ripetere, perché non do per scontate le conoscenze pregresse
(IntMe2/114);
ultimamente abbiamo iniziato il calcolo letterale, [...] le espressioni letterali, le operazioni
con i monomi prima e con i polinomi poi (IntMe5/143). Per introdurre il calcolo letterale,
ho cercato di rifarmi a cose che loro avevano già visto, che non venivano chiamate “cal-
colo letterale”, ma che in sostanza si traducevano in espressioni di calcolo letterale; allora
ho detto: “Va beh, ragazzi, ho disegnato un rettangolo alla lavagna”; ho detto: “Bene, ho
segnato la base con la lettera b, e l’altezza con la lettera h; ditemi come si calcola l’area
del rettangolo”; allora tutti: “base per altezza”, perché hanno imparato la formula. “Va
bene, allora scriviamo base per altezza: b x h. Che cosa abbiamo utilizzato per scrivere
questa formula? Abbiamo utilizzato delle lettere. Nel momento in cui io vi do i dati, cioè
il valore da attribuire ad ogni lettera, voi mi dite qual è il risultato, espresso nell’opportuna
unità di misura [...]”. E poi ho ripercorso tutte le figure geometriche principali che loro co-
noscevano, come il triangolo, il rettangolo, il rombo, il cerchio, esprimendo l’area della fi-
gura con delle lettere. Dopo aver fatto questo percorso, ho detto: “Va bene, ragazzi, adesso
introduciamo un argomento nuovo: i monomi; cosa sono i monomi? I monomi sono delle
espressioni letterali in cui compaiono solo operazioni tra lettere. Guardate che operazioni
ci sono tra queste lettere: nell’area del rettangolo, tra la base e l’altezza che operazione
c’è?”. “Una moltiplicazione”. “Bene, e nel triangolo?”. “Lo stesso...”; [...] secondo me,
poteva essere più utile partire da qualcosa che loro conoscevano già (IntMe5/145).
I formatori trovano utile ricollegarsi a ciò che gli allievi conoscono già. P.
(IntMe5), ad esempio, per introdurre il calcolo letterale, si aggancia a conoscenze
già acquisite dai suoi allievi, quelle relative alle abbreviazioni simboliche per indi-
care la base e l’altezza delle varie forme geometriche. Anche in quel caso infatti si
tratta di lettere. L’intento è quello di rendere più familiare i segni e di guidare a pe-
netrarne gradualmente i significati.
3.1.5. Inserire qualche elemento spiazzante
Talvolta può essere utile un avvio differente dal solito, che introduce qualche
elemento provocatorio, un aneddoto personale, un’analogia inusuale o la menzione
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di una notizia o di un’inchiesta giornalistica recente, che possano suscitare inte-
resse e curiosità. Ecco alcuni esempi:
mi è capitato di prendere articoli di giornali; per esempio, l’anno scorso, c’era un articolo
– non mi ricordo se sul Corriere o su Repubblica – in cui si diceva che, in una popola-
zione dell’Amazzonia, la geometria è innata; questi non volevano studiare geometria, al-
lora, in modo provocatorio, avevo portato quell’articolo; abbiamo letto qualche passo e
poi da lì abbiamo ragionato su come mai in loro questa cosa non c’era; da una parte, crei
un po’ subbuglio, dall’altra, puoi far dire: “Ma come? Perché queste cose loro le sanno e
noi no?”; poi da lì, uno riporta l’attenzione su quello che deve fare (IntMi3/47);
un giorno sono entrato in classe con il cubo di Rubik [...] e tutti erano molto attenti a
questo gioco che sta ritornando in auge. Mi sono messo lì e, in un minuto, un minuto e
mezzo, l’ho completato. Loro avevano un’aria interrogativa: “Che viene a fare qui, con
questo giochetto? Lo fa solo per mettersi in mostra?”. Io ho detto: “Ragazzi, con questo
piccolo spettacolino, volevo farvi capire qualcosa della matematica: anche se sembra una
cosa complicata, conosco un trucco e il trucco sono delle formule, sono le mosse che mi
hanno insegnato, scrivendomi una cosa strana, H, L, L segnato, A, N; un po’ alla vota, mi
hanno spiegato che cosa volessero dire quei simboli. Io ho cercato di imparare, prima fa-
cendo l’esercizio con la formula davanti e, un poco alla volta, imparando la formula a
memoria, in modo tale da riuscire ad eseguire l’esercizio senza più guardare alla for-
mula; poi, per velocizzare il tutto, ho fatto tanta, tanta pratica. Sono diventato così abile a
fare questa cosa, che molti passaggi li faccio senza guardare. Ecco la matematica è così:
ha le sue regole e devi giocare con le sue regole per far venire fuori il cubo. Se tu giochi
con quelle regole, allora riuscirai a fare anche le cose che ti sembrano difficili, le saprai
fare bene, ti saprai divertire e magari saprai anche dare spettacolo”. Ecco, questo è stato
un piccolo trucchetto che [...] spero abbia colpito qualcuno (FGMat5/3);
molte volte, quando ho introdotto le lezioni sulle potenze, per cercare di stimolare l’at-
tenzione, di incuriosire, di colpire i ragazzi, ho proposto loro il gioco del foglio di carta
piegato su se stesso 64 volte, non dando, ovviamente, loro la soluzione di quale spessore
si poteva raggiungere, ma stimolando in loro la curiosità e quindi la voglia di cercare di
capire a quale valore si potesse pervenire. Notavo che tutti loro erano molto lontani dalla
soluzione finale; poi, piano piano, restavano sbalorditi nel sapere che il risultato era un
numero di gran lunga superiore a tutte le soluzioni che loro potessero immaginare; in-
fine, concludevo così: “Questo è l’aumento esponenziale e questo significa porre un nu-
mero sotto forma di potenza”. Spesso ho ottenuto un certo successo, non so poi se questo
si traducesse in altro e riuscisse a stimolare altri interessi o finisse lì, però sicuramente il
sistema [...] risultava efficace. Il risultato è sicuramente uno stimolo, uno stupore note-
vole, perché, piegando la carta 64 volte su se stessa, si arriva ad uno spessore pari alla di-
stanza tra la Terra e il Sole, qualcosa del genere, che va al di là dalle aspettative di qual-
siasi persona, a volte anche delle mie. Ma ci sono altri giochini per incuriosire i ragazzi.
Un altro è quello basato sulla geometria; cerco di riassumerlo: [...] dico ai ragazzi che
disponiamo di una corda che ha una lunghezza pari a quella dell’equatore, cioè della
massima circonferenza della Terra, più un metro, quindi poco più grande della massima
circonferenza che avvolge la Terra. Supponiamo di posizionarla in maniera concentrica,
in asse con la Terra. Essendo la corda un po’ più lunga, ovviamente non lambirà la super-
ficie terrestre che stiamo supponendo senza asperità e perfettamente regolare. Quindi, si
pone il quesito ai ragazzi: “Secondo voi, un gatto riuscirebbe a passare da un emisfero
all’altro, da una parte all’altra della Terra, sotto la corda senza neanche sfiorarla?”. Gene-
ralmente, anche se qualcuno sta zitto, tutti i ragazzi dicono: “Professore, non è possibile,
perché che cos’è un metro rispetto a 40.000 km di lunghezza della Terra, non è niente,
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quindi sarà vicinissimo, non può passare manco un surci!”, cioè un topo. Io allora mi di-
verto, facendo vedere loro che non è assolutamente vero. Si fanno scommesse in classe,
loro sono pronti a scommettere chi il motorino, chi il libretto, chi l’orologio, chi la fami-
glia, poi ovviamente vinco io, ma non sapendo che cosa farmene della loro nonna, mi
accontento della vittoria e basta (FGMat5/5). In altre parole, prendi i due capi della corda
e li tiri, quindi è chiaro che rimane un passaggio! (FGMat5/7). Devi cercare di capire e di
calcolare qual è il nuovo raggio, avendo detto che questa circonferenza è un metro
più lunga della circonferenza della Terra. Come si fa? La circonferenza della Terra è
2P greco x R Terra. Questa nuova circonferenza, chiamiamola C2, è 2π x R+1 [...]
(FGMat5/7). Insomma, attraverso delle formule geometriche abbastanza semplici, dimo-
stri loro il contrario, cioè che il gatto passa liberamente sotto e riesce anche a non toccare
la corda. Queste sono strategie che io utilizzo a volte per accattivare l’interesse dei ra-
gazzi, per sbalordirli, per far loro capire [...] che, attraverso il calcolo, è possibile risol-
vere problemi che altrimenti non sono risolvibili. Non sono mai calcoli particolarmente
difficili; difficile è soltanto ciò che non si conosce o che non si vuole apprendere; una
volta avvenuto l’apprendimento, spesso, mi dicono: “professù, ie troppu facili!” (profes-
sore è troppo facile!, ndr) (FGMat5/5)8.
Queste aperture hanno lo scopo di accendere l’interesse, di suscitare la curio-
sità e il desiderio di saperne di più e predispongono ad iniziare un’attività. Negli
esempi descritti da G. (FGMat5/5-7), l’elemento che produce una sorta di spiazza-
mento cognitivo è quello tipico dei problemi matematici – lo spessore di un foglio
piegato, la corda che circonda la circonferenza della terra – che, pur riguardando
dati immaginari (la terra perfettamente liscia, senza asperità, che non esiste nella
realtà), sono in grado di affascinare anche di per sé.
3.1.6. Curare lo spazio all’interno dell’aula
Fa parte della cura dell’avvio anche l’attenzione alla disposizione fisica del-
l’aula. Nell’esempio che segue, P. (IntMe6) sperimenta quasi per caso l’efficacia di
una disposizione diversa da quella canonica, in cui i banchi sono disposti in file
parallele, davanti alla cattedra:
in laboratorio, [...] hanno i tavoli disposti a quadrato. Questa disposizione è fenomenale
per fare lezione, perché sono tutti davanti e tu sei parte integrante di loro (IntMe6/160); si
guardano tra loro e guardano te, perché non hai niente davanti; sono tutti alla pari, tu sei
seduto lì con loro, non hai la cattedra [...] (IntMe6/162); questa cosa l’abbiamo sperimen-
tata per caso poco tempo fa, perché avevamo l’aula impegnata – avevo prestato l’aula di
tecnologia ad un collega che faceva il compito –; allora dico: “Bene, andiamo in labora-
torio” e, in laboratorio, fatalità, per una riunione che avevamo fatto noi, c’erano i tavoli
disposti a quadrilatero; questa cosa me la faceva anche notare un collega che era dall’altra
parte e mi diceva: “Non so come fai, i miei fanno casino e i tuoi stanno tutti tranquilli!” e
io: “Guarda che anche i miei normalmente fanno casino; probabilmente è la disposizione
che, in questo caso, ha aiutato” (IntMe6/164). [...] Il fatto è che ti vedono molto più al loro
livello; ti siedi con loro e la cosa strana è che, quando tu hai il tuo libro davanti
8 Come si vede, in questo brano, per rispettare la trama (plot) e la struttura interna del racconto,
si sono riorganizzate le frasi del testo originale. In questo modo il racconto assume maggiore coerenza
interna di quella che avrebbe nel testo originale.
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(IntMe6/174), magari sottolineato con i tuoi appunti, loro, almeno quelli che sono vicini,
guardano (IntMe6/176), curiosano e, in alcuni casi, ricopiano; [...] inoltre non c’è nessun
altro davanti e quindi quello che stai facendo è trasparente a tutti (IntMe6/178), nessuno si
può nascondere, nessuno ti fa la battuta; si ride o tutti o nessuno [...] (IntMe6/180). In
classe, mi è capitato di rivivere questa sensazione anche con i banchi lineari; [...] ad
esempio, quando dalla cattedra mi alzo e faccio un giro per i banchi e magari c’è un banco
libero, mi siedo e loro ti guardano come per dire: “Che cacchio sta facendo questo?”
(IntMe6/188); oppure, quando posso permettermelo – e di solito me lo permetto –, quando
loro fanno l’assemblea di classe, chiedo se vogliono che resti dentro con loro e, quando mi
dicono di sì – e generalmente me lo dicono –, io mi siedo nell’ultima fila o al posto dei
compagni che in quel momento stanno tenendo l’assemblea; di solito non parlo e, se devo
intervenire, alzo la mano come loro, proprio per dare un po’ di ordine alle cose
(IntMe6/190); anche lì ti riconoscono più al loro livello, vedono che giochi più o meno
alle stesse regole; poi la differenza la capiscono quando apri bocca e li fai ragionare sulle
cose che loro dicono; sono dinamiche che mi piacciono (IntMe6/192).
P. (IntMe6) fa l’esperienza che la disposizione dei tavoli a quadrilatero offre
notevoli vantaggi: riduce la separazione tra docente e allievi che la cattedra normal-
mente crea, facilita la partecipazione (mentre la disposizione classica consente a
qualcuno – soprattutto a quelli delle ultime file – di nascondersi e magari li “auto-
rizza” a disturbare), comunica l’idea di essere alle prese con un’impresa comune,
consente di sbirciare sui materiali del docente. Ma non è solo questione di disposi-
zione dei banchi: anche in aula in cui i banchi sono disposti in senso tradizionale, il
docente, dislocandosi, può comunicare un’idea diversa di spazio e, conseguente-
mente, di insegnamento-apprendimento.
3.2. Prestare attenzione alla qualità della comunicazione
Per quanto i nostri formatori risultino contrari ad ogni riduzione della matema-
tica a materia “verbale”, essi sono consapevoli dell’importanza di curare la qualità
della comunicazione. La lezione è una forma speciale di comunicazione, in cui en-
trano in gioco l’efficacia e la chiarezza espositiva, ma anche lo sguardo, il tono
della voce, i movimenti, i gesti, l’utilizzo di supporti che contribuiscono ad avvici-
nare gli allievi ai contenuti che si stanno presentando e ad aumentarne la compren-
sibilità. I docenti intervistati sono particolarmente attenti a catturare e a mantenere
l’interesse degli allievi dell’Ifp e sanno che questo dipende, in larga misura, dalla
qualità comunicativa.
3.2.1. Curare la chiarezza espositiva
La comprensione della matematica può essere resa difficile a causa del lin-
guaggio, che talvolta costituisce una vera e propria barriera. Vediamo un esempio:
[...] un errore che facevo i primi anni era che, quando non capivano, spiegavo loro nella
stessa identica maniera e loro mi dicevano: “Abbiamo sentito! È che non abbiamo ca-
pito!” (ride). Questo è effettivamente il problema. Parto sempre con una spiegazione nor-
male, poi è logico che, se non capiscono, devo cercare di “tagliargliela più sottile”, in-
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somma di arrivare anche alla banalità delle caramelle o della cioccolata, per dire, però il
modo di spiegare è fondamentale: deve essere adattato alla classe, deve essere [...]
nuovo, diretto, semplice. Bisogna comunicare il concetto. Una volta che hanno capito il
concetto, allora si può alzare il livello. La comunicazione è fondamentale (IntVr3/258).
La scarsa cura del linguaggio, da parte di un docente, può contribuire a cemen-
tificare l’idea che la matematica sia irrimediabilmente astrusa e incomprensibile.
Lo esprime bene anche Walter Maraschini, in relazione ad uno dei passaggi più de-
licati nell’apprendimento della matematica, il calcolo letterale: «Per chi ne ha fami-
liarità è naturale e comprensibile sentir dire o leggere incipit di frasi siffatti: “Sia x
un qualsiasi numero reale”. Se non si affronta con la dovuta gradualità, una frase
del genere, nella quale una lettera sta al posto di un qualunque numero, suona in-
vece bislacca tanto quanto suonerebbe, per chiunque, una sua corrispondente a
parti invertite: “Sia 4 una qualsiasi lettera dell’alfabeto”. Una affermazione vicina
al non-senso, qualcosa di stonato» (Maraschini, 2008, p. 17). Da qui l’esigenza di
curare in modo particolare la capacità di esprimersi in modo chiaro ed efficace.
Per tutti i formatori diventa essenziale utilizzare un linguaggio semplice, non
da iniziati, che sia comprensibile e soprattutto concreto. Più sotto vedremo in parti-
colare la cura che i formatori hanno nello scegliere gli esempi. Qui riportiamo al-
cuni brani che ci mostrano come per i formatori sia utile anche visualizzare i con-
cetti chiave o determinati oggetti matematici con dei colori:
può essere utile, ad esempio, [...] usare colori diversi alla lavagna (IntMe2/116). Se vedo
che fanno fatica, in una radice quadrata, a capire l’indice, allora, magari, usando colori
diversi, la memoria fotografica li può aiutare (IntMe2/128) e i concetti si visualizzano
meglio [...] (IntMe2/130). Vedo che a qualcosa serve, [...] perché tanti nel quaderno usano
i colori... (IntMe2/132) [...]. (Una cosa importante) è rendere più semplici possibile le
cose, spiegare nel modo più concreto possibile (IntMe2/364), [...] staccarsi da termini che
possono essere appropriati e presenti nel libro di matematica: che un’equazione sia “pura”
o “spuria” a loro interessa poco, ma magari quale sia il metodo con cui trovi la radice di
un numero è molto interessante; allora li richiamo su questo, piuttosto che su quello
(IntMe2/368); che qualcosa sia l’opposto o l’inverso non è inutile, ma è inutile insistere
sul termine in sé [...] ed è un peccato che loro perdano tempo ed energie sulla parola, che
magari crea confusione; li faccio uscire alla lavagna dicendo: “Vieni fuori quando lo sai
fare bene”; l’aspetto pratico per loro è importante [...] (IntMe2/372); [...] so che poi, al ra-
gazzo che ha capito concretamente la cosa [...], posso anche tradurre il tutto con i termini
corretti e lui impara subito, perché ha capito quello che sta facendo... (IntMe2/374);
(penso) ai ragazzi del primo anno, alle prese con le espressioni. Dopo aver fatto le quattro
operazioni a livello base, i ragazzi [...], quando si incomincia a parlare di espressioni, si
mettono le mani nei capelli: “Professò, ma a che servono le espressioni? Non servono a
niente!”. Allora io mi vado a cercare a che cosa possono servire le espressioni. Ho speri-
mentato che è utile proporre le espressioni non sotto forma di numeri ma sotto forma di
testo: “Un cuoco deve fare una torta, occorrono questi ingredienti, a questo costo e con
queste quantità...”. “Non è altro che un’espressione. Provate a tradurre il problema in nu-
meri e a fare l’espressione”. Oppure, per il reparto saldatura, devo costruire un cancello e
servono tanto ferro di questa qualità, tanti elettrodi, una saldatrice ecc.: “Andate a fare l’e-
spressione con il testo”. Si tratta quindi di tradurre il testo in espressione (FGMat5/16).
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A. (IntMe2) fa ricorso a diversi colori per stimolare la memoria visiva e far
comprendere “concretamente”. Davanti alla difficoltà dei ragazzi alle prese con le
espressioni, G. (FGMat5/16), che insegna in un CFP di Catania, trova utile tradurre
i segni di un’espressione negli elementi di una situazione viva e concreta. Anche
più avanti rileveremo lo sforzo di alcuni formatori di tradurre le situazioni concrete
nei segni della “lingua matematica”. Il lavoro dell’insegnante sembra infatti posse-
dere qualche analogia con quello del traduttore.
Alcuni dei formatori intervistati, per migliorare la chiarezza espositiva, sen-
tono l’esigenza di sollecitare dei feed-back da parte dei loro allievi e di verificare
così se una determinata comunicazione è stata realmente compresa:
io dico: “Non so quello che ho detto in classe, finché loro non me lo ripetono”
(IntMe3/240). Potrei credere di aver detto una cosa precisa e aver detto invece una vera
stupidaggine, nel momento in cui tutti loro mi rispondono con una vera stupidaggine
(IntMe3/242);
ho pensato spesso, al termine di una lezione: “Mah, sembra che abbiano capito tutti!”;
dopo, quando devo verificarlo con un compito, magari constato che non è vero. Sembra
che abbiano capito, oppure hanno capito ma poi si dimenticano [...] (IntVr8/72).
Il feedback, oltre a fornire al formatore una comunicazione di ritorno che gli
permette di interrogarsi sull’effetto del suo atto comunicativo sul ricevente, con-
sente agli allievi di comprendere se hanno compreso.
3.2.2. Valorizzare il contatto visivo e variare il tono di voce durante la spiegazione
La comunicazione non è solo questione di chiarezza espositiva. Si tratta anche
di curare il contatto visivo e di modulare adeguatamente il tono della voce:
si parla anche solo con lo sguardo, con un’occhiata, con un gesto, perché i ragazzi hanno
un canale di comunicazione molto aperto e lì si costruisce tutta la didattica più spicciola,
legata alla materia (IntMe2/34);
spesso, i ragazzini in gamba ti riconoscono, ti seguono, e anzi loro farebbero anche di
più; qualcun altro fa un po’ fatica (IntVr1/66). Quelli che seguono li vedi che rispondono
quando tu fai una proposta e chiedi qualcosa; sono sempre loro che rispondono; gli altri
semplicemente si limitano a fissare un punto (ride), la lavagna oppure un altro punto, e io
a questo sono molto attenta, perché è il mio carattere: se non ho lo sguardo fisso di tutti,
io mi fermo [...] (IntVr1/68) ...e aspetto, guardo; quando loro si accorgono che io sto
aspettando, dicono: “Sì, sì, scusi!”, e allora vado avanti. Ecco, ci vogliono tempo e pa-
zienza per riuscire a coinvolgerli, poi non so quanto io riesca a coinvolgerli lo stesso, non
so quanto colgano questa cosa; poi quando questi – che io chiamo “i costretti all’atten-
zione” – ci sono, dicono: “Ma adesso basta, siamo sfiniti!”, poi, va beh, “siamo sfiniti”
perché devono stare attenti; ripeto, più di qualcuno mi accorgo che ha anche compreso,
di questi spesso si capisce che non hanno compreso e lo fanno quasi per... (IntVr1/70)
...farmi contenta, perché sanno che – dicono loro – “...se no mi arrabbio, se non sono
attenti...”, ecco, però, per me, questo è anche già un traguardo, perché stimolandoli all’at-
tenzione, se non altro, ritengo che qualcosa possa rimanere (IntVr1/72); ...mi fermo [...]
e giro anche tra i banchi, se è per quello, quando vedo che qualcuno fa dell’altro, ecco,
allora vado là e dico: “Ma insomma!” (IntVr1/74).
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I formatori sono attenti a mantenere un contatto visivo con i propri allievi, co-
municando con il proprio sguardo ma anche cogliendo dai loro sguardi il livello di
attenzione. F. (IntVr1) è molto attenta ad afferrare i messaggi che le arrivano dagli
sguardi dei suoi allievi. Quando si accorge che essi non stanno più prestando atten-
zione, ricorre ad un’efficace strategia: si ferma e li guarda, oppure si avvicina loro,
muovendosi tra i banchi. Questo spesso le fa riguadagnare l’attenzione degli al-
lievi. Anche variare il tono di voce è importante e può stimolare l’attenzione:
è raro che manchi quella comunicazione o manchino quei sobbalzi di voce che sono tipi-
camente miei; loro lo sanno e dicono: “Per favore, prof, abbassi un po’ la voce!”, oppure:
“prof, per favore, si calmi un attimo” (IntPd1/170) perché ci metto proprio quel pathos
che è tipico di quando parli di una cosa che ti piace [...] (IntPd1/174).
Si tratta insomma di considerare le esigenze del corpo e di accorgersi anche
degli aspetti non verbali della comunicazione. Da qui nasce una certa attenzione
alla prossemica:
sto sempre alla lavagna oppure circolo tra i banchi, raramente sto seduto, ma proprio ra-
ramente; lo faccio solo se sono distrutto, tipo alla sesta ora (IntPd1/168).
Muovendosi tra i banchi, si può magari avvicinarsi a qualcuno che sta distur-
bando e ottenere il silenzio senza doverlo richiamare esplicitamente, ma si riesce
anche a dare maggiore dinamicità alla lezione.
3.2.3. Utilizzare supporti diversi
Per migliorare la qualità del contesto comunicativo, può essere utile l’utilizzo
di diversi supporti e mediatori. I formatori intervistati nominano, in particolare, i
video, le immagini, alcuni software e le risorse presenti in rete.
a. Video e immagini
F. (FGMat4/35), che insegna Fisica al CFP di Sesto San Giovanni, racconta
un’esperienza didattica realizzata con l’utilizzo di supporti audiovisivi:
ho fatto questa esperienza in due ore, con una seconda meccanici di ventisette studenti.
Ero arrivato alla parte di fisica, sull’energia cinetica, l’energia potenziale e l’energia
meccanica e ho scelto una strada un po’ diversa dalla solita lezione frontale, quella del-
l’audiovisivo. Dopo una serie di ricerche, ho trovato un dvd di recente fattura, che ri-
guardava appunto l’energia cinetica, meccanica e potenziale, ed era una sorta di lezione
arricchita di immagini, foto ecc. [...]. Nella prima ora, non ho proposto la semplice vi-
sione del filmato [...]; avevo infatti preparato una scheda di lavoro avendo visionato il
film precedentemente. Loro, guardando il filmato, dovevano prendere appunti seguendo
questa scheda guidata, che seguiva la cronologia del film. Alla fine dell’ora, ho ritirato la
scheda che avevano compilato, l’ho controllata e ho in qualche modo integrato le man-
canze; nella seconda ora, nei primi venti minuti, ho dato loro il compito di definire cia-
scuno sul proprio quaderno i concetti di “energia cinetica”, “energia potenziale” ed
“energia meccanica”; dopo di che, ho chiamato loro alla lavagna a rotazione, in modo del
tutto casuale, a spiegare al resto della classe questi concetti; ovviamente la mia presenza
serviva a chiarire e semplificare ciò che non era chiaro. Sicuramente l’audiovisivo utiliz-
zato con la scheda [...] è stato molto efficace (FGMat4/35).
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Oltre all’uso di supporti audiovisivi, val la pena di rilevare anche la sequenza
didattica descritta in questo brano, che anticipa alcuni aspetti che vedremo più
avanti, riguardo all’esigenza di variare le attività didattiche e le metodologie: il
video, analizzato in precedenza dal docente, serve per introdurre i concetti fonda-
mentali sui quali si sta lavorando; la visione del film è supportata da una scheda,
che aiuta a focalizzare l’attenzione sugli elementi fondamentali; a questa prima
fase del lavoro, che prevede anche un momento di verifica in itinere, segue la con-
segna individuale di scrivere le definizioni dei concetti e, successivamente, di
esporre al gruppo classe il proprio elaborato. Il docente, in tutto il percorso, inter-
viene offrendo chiarimenti e delucidazioni. Nell’esempio riportato da F., assistiamo
ad un uso didatticamente ricco del video, ma alcuni formatori segnalano anche i
possibili rischi insiti nel ricorso alle immagini:
una cosa che funziona molto con questi ragazzi è l’immagine, che però porta con sé [...]
un rischio; siamo in un momento in cui la persona, l’insegnante che parla, si propone,
deve essere estremamente motivante [...], però è come se fosse fuori moda; cioè siamo in
un momento in cui, ciò che predomina è l’assorbimento da parte delle immagini, quindi,
se io cerco di mettere tutto in forma di presentazione su uno schermo, su un immagine,
sicuramente ho un impatto migliore, perché proprio c’è l’abitudine di recepire, però, non
bisogna esagerare, perché, se no, continuiamo a tenere i nostri ragazzi sempre e solo in
una situazione di ricezione passiva. Stanno lì, bello, però alla fine noi non andiamo a svi-
luppare in loro il senso che invece per noi è più importante, quello di poter attivare dei
sistemi di ragionamento (FGMat1/51).
I mezzi di comunicazione, nella civiltà dell’immagine nella quale crescono le
nuove generazioni, fanno sì che i ragazzi entrino sempre meno in contatto con la
realtà e sempre più con l’immagine di essa. Ciò che davvero conta allora è ciò che
appare. Inoltre, sembra quasi che, per imparare a ragionare, sia necessario attivare
un confronto dialogico che il solo ricorso al video, e a quella forma di comunica-
zione senza sguardi che viene indotta dalle proiezioni, rischia di ottundere.
b. Software e rete
Come accennavamo sopra, in relazione al recupero delle conoscenze di base,
anche il computer può rappresentare un valido supporto per l’azione didattica, so-
prattutto per le risorse a cui consente di accedere:
c’è, da parte mia, tutta una ricerca in internet di quelle che possono essere le applicazioni
della fisica o della chimica o della matematica ai laboratori (IntMe3/380); in internet ci
sono interi siti, per esempio, sui giochi matematici (IntMe3/382);
un altro aiuto che ho trovato [...] sono le tecnologie informatiche. Chiaramente vanno
molto calibrate e osservate, perché non sono la panacea che risolve tutti i problemi, però,
se inserite in un contesto giusto, al momento opportuno, e soprattutto se controllate,
danno buoni risultati (FGMat2/88). Innanzitutto va fatta una ricerca degli strumenti di-
dattici a disposizione; ho visto che alcune associazioni e alcune scuole producono [...]
piccoli software che aiutano a spiegare un concetto, spesso sotto forma di gioco
(FGMat2/92). Le leve, ad esempio (FGMat2/94), la trave vengono illustrate con un perno
e con i palloncini. È un gioco in cui si appendono dei pesi, oppure si mettono dei pallon-
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cini; [...] vedono l’equilibrio di questa trave e poi chiaramente creano la relazione: il
braccio, la lunghezza e il peso [...] (FGMat2/96). Lo strumento informatico va molto
controllato, perché se ne può perdere facilmente il controllo [...], però funziona molto
bene, se il prodotto è fatto bene e inserito al momento opportuno (FGMat2/98). [...] Oggi
come oggi, i ragazzi vivono in un mondo dove la comunicazione canonica (FGMat2/108)
è saltata, perché viaggiano con telecomandi, con internet, con gli i-Pod e con tutte queste
tecnologie multimediali [...] (FGMat2/110); la multimedialità è un punto di appoggio e a
me personalmente risolve parecchi punti difficili, soprattutto con l’attenzione. C’è a
monte però una ricerca, perché comunque uno strumento didattico va visionato, per veri-
ficare se può essere calato in quel contesto (FGMat2/112);
adesso sto usando youtube, per esempio; tra le tante porcherie che ci sono dentro, ci sono
dei filmati che effettivamente sono molto utili alla didattica (IntMe6/140); vengono fuori
tanti filmati che altrimenti avrei dovuto realizzare io o chiedere alle aziende [...]
(IntMe6/142); i ragazzi si illuminano, perché youtube loro lo usano, è una cosa che
hanno come bagaglio [...] e quindi più di qualcuno dice: “Oh, bello questo!” e il giorno
dopo mi dice: “Professore, ho trovato questo video, le piace?” oppure “andiamo in sala a
vederlo assieme? È attinente a quello che stiamo facendo” (IntMe6/144);
nei compiti delle vacanze metto loro dei siti internet in cui ci sono giochi matematici o di
logica; questo compito lo do, per esempio, nella pausa di Natale, per far loro vedere che
ci sono anche altri risvolti (IntMi3/49). Per esempio, quest’anno, [...] sulla trigonometria,
la parte iniziale l’abbiamo presa da un sito, www.math.it, in cui c’è tutta la costruzione
delle funzioni di seno e coseno, attraverso dei passaggi che proprio fanno vedere come si
costruisce l’angolo, l’angolo orientato ecc.; allora abbiamo utilizzato direttamente il sito
internet in classe e poi avevo [...] detto: “Se qualcuno ha internet a casa, può fare gli
esercizi che ci sono nel sito” (IntMi3/51). Per lo meno [...] ottengo in alcuni maggiore
attenzione, in alcuni curiosità [...], poi c’è qualcuno che rielabora queste cose e in auto-
nomia cerca (IntMi3/53).
Anche delle risorse informatiche e/o di rete, i formatori sottolineano l’utilità,
senza trascurare gli elementi di criticità a cui prestare attenzione. Ad esempio, L.
(FGMat2/88-112) sottolinea l’utilità di alcuni programmi di simulazione, ad
esempio per la rappresentazione multimediale di alcuni concetti, ma anche la ne-
cessità di visionare in anticipo le risorse che si intendono mettere a disposizione
del percorso didattico e di valutarne l’adattabilità al contesto. P. (IntMe6) racconta
di come l’utilizzo di alcuni video didattici facilmente reperibili su youtube, soprat-
tutto per l’insegnamento delle scienze, attivi interesse e stimoli i suoi allievi alla
ricerca autonoma di ulteriori materiali. Anche C. (IntMi3) utilizza in classe alcune
risorse reperibili in rete9, attento a guidare verso una fruizione autonoma di queste
risorse.
9 Tra i siti, oltre a quello divulgativo citato dal nostro formatore, è opportuno segnalare quello
molto interessante del Gruppo di Ricerca e Sperimentazione in Didattica e Divulgazione della Mate-
matica (RSDDM) dell’Università di Bologna: www.dm.unibo.it/rsddm. Ci sono poi, in rete, moltis-
simi siti costruiti proprio da insegnanti di matematica.
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3.2.4. Schematizzare alla lavagna e far schematizzare sul quaderno i contenuti
essenziali
Così come, all’inizio della lezione, diversi formatori esplicitano l’organizza-
zione della lezione stessa, sempre dai racconti dei partecipanti alla ricerca rica-
viamo l’utilità di schematizzare sullo schermo o sulla lavagna lo sviluppo del per-
corso e di far costruire agli allievi la rappresentazione delle conoscenze maturate
in aula:
tendo a schematizzare tutto alla lavagna e mi impolvero da cima in fondo (IntVr1/14),
motivo per cui cerco di non vestirmi di scuro, perché abbiamo ancora le lavagne con i
gessi. Per questo, quando vado a casa, sono bianca. Non abbiamo un’aula audiovisivi.
Volendo, si potrebbe portar su il proiettore, ma io non ho mai provato e ogni volta si do-
vrebbero spostare gli strumenti (IntVr1/16). [...] Le cose fondamentali le facciamo scri-
vere sul quaderno, perché ci teniamo che loro costruiscano il loro percorso; controllo di
volta in volta [...]; sul quaderno, loro hanno tutto, perché quello che facciamo lo faccio
anche scrivere loro, faccio fare loro uno schema; spesso non sono in grado di seguire e
prendere appunti, quindi detto le cose fondamentali; faccio lo schemino alla lavagna,
dico: “Sottolineate”. A volte mi sento un po’ la mamma, perché dico: “Penna rossa”.
Addirittura loro chiedono proprio questo... (IntVr1/24): “Come devo scrivere? Cosa
posso scrivere? Devo sottolineare? Devo scrivere grande? Devo scrivere piccolo? Titolo
o sottotitolo?”. [...] Quando parto con una spiegazione, organizzo bene la lavagna e
dico: “Adesso scrivo grande il titolo”, questo per le prime; anche nelle altre classi faccio
così, dico: “Questo è il titolo dell’unità che faremo oggi”, faccio l’introduzione, poi,
mano a mano che procediamo, le cose fondamentali tendo a scriverle alla lavagna
(IntVr1/26) [...]. Siccome facciamo loro tenere i quadernoni [...], cerchiamo di scrivere
quello che facciamo in modo che rimanga loro, anche perché è un modo per essere con-
centrati; chiedendo loro di scrivere, non possono stare semplicemente ad ascoltare...
(IntVr1/76). Se c’è qualche piccola definizione, [...] loro hanno il libro, però spesso
qualcuno lo lascia a casa. Allora dico: “Scrivo alla lavagna tutte le pagine del libro, nel-
l’eventualità che qualcuno voglia approfondire...”, poi dico: “Guardate che sto dettando,
chi rimane indietro sappia che c’è la pagina del libro”. Dopo, [...] faccio lo schema,
faccio l’esempio, dico: “Sottolineate!”; quando spiego, alla fine, riempio un po’ di sca-
rabocchi quello che scrivo e allora mi chiedono: “Quella freccia lì?”. “No – dico io –
adesso questo vuol dire che lo dovete sottolineare, perché è il concetto fondamentale,
ricordatevi che la memoria è visiva; quando aprirete il quaderno, questo vi aiuterà”,
e loro ridono; ecco, questa è una reazione tipica: “Sì, sì, può essere proprio sicura
che apriremo il quaderno!” (IntVr1/78); [...] la teoria è molto ridotta [...] sorvolo sulla
dimostrazione, vado al concetto, all’esempio e all’applicazione, nel caso in cui ci sia
(IntVr1/112).
La schematizzazione alla lavagna e poi sul quaderno facilita la presa degli
appunti, che qualche volta si configura come vera e propria dettatura di punti
essenziali. La scrittura favorisce infatti la concentrazione. Il ricorso a schemi e ad
esempi consente di dare delle rappresentazioni visive dei concetti, che aiutano a
fissarne il significato in un colpo solo, senza bisogno di complicate spiegazioni.
Nell’esempio che segue, MS (FGMat4/160-162), confrontando due percorsi
sugli stessi argomenti, svolti in classi differenti, ci racconta di aver sperimentato
l’utilità di impostare il lavoro in modo analogo a come, in laboratorio, gli allievi
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un problema tecnico, l’automazione industriale. Si tratta di operare costruendo via
via uno schema in forma di algoritmo:
l’argomento sono le scomposizioni [...], operazioni legate ai polinomi che loro si trovano
ad affrontare dopo aver fatto un percorso graduale: prima fanno tutte le operazioni con i
numeri naturali e poi arrivano al calcolo letterale; si comincia con i monomi, che per loro
sono abbastanza facili, e si arriva alle operazioni con i monomi, che si collegano con le
precedenti operazioni; anche lì, con un po’ di fatica, si arriva a fare i prodotti notevoli, e
già qui si modifica, come dire, l’andamento naturale della spiegazione, perché bisogna
introdurre delle regole, bisogna saper riconoscere le regole ed applicarle; [...] poi si ar-
riva alla scomposizione, che è l’operazione inversa: partendo da un polinomio com-
plesso, di un certo grado, si deve scomporlo, trasformandolo in un prodotto più semplice,
e si deve riconoscere la regola da applicare; questo, per loro, è uno scoglio durissimo
[...]. Quando i ragazzi hanno sentito parlare di scomposizione, si sono un attimino allar-
mati; [...] praticamente facevo quasi lo stesso argomento in seconda e in terza [...]. In
terza, ho fatto un ripasso classico, basato su degli esercizi, un ripasso “pesante”, come ho
constatato poi, ma lì non ho cercato alternative [...]. In seconda, invece, ho cercato di im-
postare la cosa come un’altra attività che fanno: l’automazione. L’automazione viene im-
postata seguendo un algoritmo, cioè loro si pongono una domanda e, in base all’obiet-
tivo, rispondono sì o no; in base a questa risposta, compiono delle azioni diverse e se-
guono procedure diverse. Noi abbiamo preso l’argomento “scomposizioni”: ho spiegato
la parte teorica [...]: prima la definizione di che cosa è una scomposizione, detta con lin-
guaggi diversi, semplificando, con tutti i sinonimi che a loro venivano in mente, come
“divisione”, “partizione” ecc. [...], rifacendomi anche alla scomposizione dei numeri in
fattori primi, che [...] loro avevano fatto già in quarta elementare [...]; poi l’impostazione
della scomposizione, [...] con una descrizione di quello che dovevamo fare. A questo
punto, pongo la prima domanda: “Tutti questi monomi hanno qualcosa di simile?”. Lì
siamo andati a rispolverare il significato di “simile”, che è un concetto matematico che
loro dovevano già conoscere: [...] “Hanno degli elementi uguali?”. Se la risposta era sì,
allora applicavamo il primo metodo, che era quello del raccoglimento a fattore comune;
se la risposta era no, allora ci facevamo un’altra domanda. È la stessa procedura che
usano loro in officina. Mi sono fatta spiegare dal mio collega di laboratorio i primi rudi-
menti dell’automazione. Si procede proprio così: se è sì, allora metto una serie in paral-
lelo...; è la stessa procedura che utilizzano al computer. [...] Entro in classe: “Facciamoci
la prima domanda!...” [...]; poi si va avanti così: la seconda domanda: “Hanno qualcosa
in comune questi elementi?”; la risposta è “Sì”; allora faccio il raccoglimento a fattore
parziale; abbiamo allora preso in mano la regola, l’ho spiegata con due metodi: uno,
quello che di solito utilizziamo noi e che utilizza il libro, era di leggere la regola; l’altro
[...] comportava di scrivere e ripetere la regola; scrivere proprio: “Prendi il primo ele-
mento, prendi il secondo elemento...” [...] (FGMat4/160). Ho usato un algoritmo che loro
usavano in un altro campo. Arriviamo così alla terza domanda [...]. Mano a mano che fa-
cevamo questo, costruivamo un cartellone, che poi abbiamo appeso al muro e che un
compagno – che è un “creativo” – ha un po’ personalizzato. [...] Dentro il primo rettan-
golo c’era la prima domanda, con la risposta “Sì”; si applicava la regola con un esempio;
se la risposta è “No”, ci facciamo la seconda domanda; se la risposta è “Sì”... ecc. Tutte
le strade portano comunque alla terza domanda; qualsiasi fosse la risposta alle prime due,
si doveva arrivare lì: “È un binomio? Ha due elementi?” [...] e lì c’erano tre regole da ap-
plicare; ci si doveva stare su e ragionare. In questo modo, invece di obbligare loro, ogni
volta che vedevano un polinomio, a cercare nella memoria – [...] “Mi sembra che quella
cosa sia così!” –, a memorizzare tutto, ho cercato di dare una certa linearità: loro avevano
una procedura che, pian piano, faceva loro escludere delle cose e dunque abbassare
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l’ansia, perché è impossibile ricordarsi tutto [...]. Ho constatato che, rispetto alla terza,
dove utilizzavo il metodo classico, questa modalità ha accorciato i tempi di apprendi-
mento e che quasi tutti sono riusciti a capire [...] (FGMat4/162).
In questo modo, la procedura non rappresenta semplicemente una formula da
memorizzare e da applicare, ma viene posta a servizio di un ragionamento da svi-
luppare e aiuta quindi a pensare. Qualcosa di analogo viene proposto da E.
(IntMe3), che invita i suoi allievi a schematizzare tutti i passaggi richiesti per la so-
luzione di un’equazione di secondo grado:
ci sono delle cose che si prestano meno (ad agganciarsi a problemi reali), per esempio le
equazioni di secondo grado (IntMe3/152), dove c’è una formuletta e bisogna applicarla;
quelle sono più difficili da collegare con un problema reale (IntMe3/154); allora lì [...]
si lavora sulla soluzione precisa, quasi impeccabile, di un’equazione di secondo grado,
visualizzando i passaggi, in modo che, nella loro mente, si fissi che c’è un ordine da
seguire, dal quale non posso prescindere, che c’è un percorso da seguire, nel quale, se
cambio un aspetto, tutto cambia; poi si spiega loro che questo vale per tutte le cose, in
particolare in laboratorio, dove il percorso, è visibile anche dalla collocazione delle mac-
chine, che hanno una collocazione precisa, a seconda di che cosa va fatto prima e che
cosa dopo. Quindi (la soluzione di un’equazione) è la visualizzazione di una cosa che
poi, effettivamente, vedrai anche in laboratorio (IntMe3/156)10.
La schematizzazione, che può essere fatta (o meglio fatta fare) in modi diffe-
renti, risulta comunque utile per aiutare gli allievi a focalizzare e a mantenere l’at-
tenzione sul percorso proposto. Inoltre, aiuta a farsi immagini intuitive di alcuni
concetti e a riprodurre procedure e sequenze di azioni in modo analogo a ciò che
gli allievi sperimentano nel laboratorio, a contatto con le procedure richieste dalle
10 Un esempio di questo, del fatto cioè che anche in laboratorio – come nella soluzione di eser-
cizi di matematica – si ha a che fare con procedure da seguire, ce lo fornisce anche l’insegnante di un
laboratorio grafico: «...in tecnologia hanno operazioni che avvengono una dietro l’altra; parlando di
come funziona la macchina da stampa, devi parlare di come entra il foglio e di altre operazioni se-
quenziali (IntMe6/70), che devono essere fatte una dietro l’altra, perché il risultato sia ottimale
(IntMe6/72); [...] in laboratorio, in alcuni casi, lascio che i ragazzi sbaglino (IntMe6/76) che saltino
alcune fasi (IntMe6/78). Non lo dico loro, li lascio andare, per poi ricordarlo alla fine e farli riflettere
su ciò che serviva per quella fase. Faccio un esempio (IntMe6/80): in laboratorio, ad un certo mo-
mento, quando fanno l’avviamento della macchina da stampa, devono avere il foglio campione, che è
firmato dal caporeparto, in alcuni casi anche dal cliente, perché il foglio fa da riferimento anche a li-
vello legale, in caso di contestazione (IntMe6/82). Spesso si dimenticano questo; io lascio andare e
poi alla fine chiedo: “Il visto di stampa, che deve essere allegato alla cartella di lavoro, che va a finire
all’ufficio tecnico, non c’è. E adesso? Se non ci contestano niente, non c’è alcun problema, ma, se ci
contestano, [...] i problemi ci sono, perché non riusciremmo a dimostrare che effettivamente c’era un
campione di riferimento”; di solito, la volta seguente se lo ricordano (IntMe6/84). [...] Ci sono altre
fasi in cui lascio andare, la prima volta; poi chiaramente devono diventare un attimo più attenti,
perché la dimenticanza pregiudica la qualità del lavoro finale; per esempio, in alcune macchine devi
fare un secondo passaggio con la carta e quindi, se sbagliano il primo e non se ne accorgono, il la-
voro, al secondo passaggio, è automaticamente da buttare. Quindi, in questo caso, se ne accorgono
sulla loro pelle (IntMe6/86), da soli, non glielo dico io; quando incominciano a fare il secondo pas-
saggio, vedono che non c’è la sovrapposizione perfetta tra il primo e il secondo e quindi il lavoro, in
quel caso, è da buttare; [...] queste cose incidono parecchio (IntMe6/88)».
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pratiche lavorative. Se è vero infatti che la matematica non può essere ridotta ad
una sequela di procedure da seguire, la dimensione procedurale di questo sapere
non va trascurata, tanto più che essa risulta essenziale anche in diversi apprendi-
menti tecnici che avvengono in laboratorio. Il fattore decisivo sembra essere la ri-
flessività con cui si accompagnano tutte le varie fasi del percorso.
3.3. Variare le attività
La strategia del variare tipo di attività (ma anche tipo di raggruppamento – al-
ternando lavori con tutta la classe a lavori individuali, a coppie, a piccoli gruppi – e
di tipo di setting, alternando momenti di attività in aula a momenti di attività da
svolgere in laboratorio o fuori del CFP), ricorrendo ad una molteplicità di metodo-
logie, anche nel corso di un’unica ora di lezione, risulta essenziale per i nostri for-
matori. Da una parte tutto questo serve a mantenere viva l’attenzione, dall’altra ad
adeguarsi all’eterogeneità del gruppo dei soggetti in apprendimento e alle loro dif-
ferenti caratteristiche cognitive (Gardner, 1983).
3.3.1. Adattarsi alla specificità del gruppo e della situazione didattica
L’esigenza di variare attività, escogitando modalità sempre nuove, è probabil-
mente presente in tutti gli ordini di scuola, ma si fa particolarmente sentire nei per-
corsi di Istruzione e Formazione Professionale:
c’è una cosa, ad esempio, che non vedo nelle scuole ma solo nei CFP: l’esigenza di in-
ventarsi sempre cose nuove; noi siamo quasi obbligati a questo, non è un merito nostro, è
quasi un obbligo perché, per riuscire a tenere le classi, devi inventarti sempre cose
nuove. Diventa difficile anche ricordarle, riprodurle, perché è il momento, la situazione
che crea quell’aspetto diverso (IntMi6/62).
I docenti del CFP toccano con mano che l’adozione di metodi sempre uguali a
se stessi non funziona e si sentono stimolati a cambiare in base alla situazione e a
lasciarsi condurre dalle curiosità dei propri allievi. Si tratta di variare le modalità in
base alla specificità del gruppo che si ha davanti e/o della situazione didattica che
si crea, anche procedendo per tentativi ed errori:
in tre anni che insegno, penso di non aver mai adottato la stessa modalità, nel senso che,
proprio a seconda dei ragazzi che hai in classe, ti rendi conto che puoi lavorare in un
certo modo o in un altro. Per cui anche lo stesso argomento, se lo ripenso su classi di-
verse, mi rendo conto che l’ho fatto in modo diverso, anche proprio a livello didattico
(IntMi3/43). [...] Non riuscirei ad affrontare una materia come la matematica sempre allo
stesso modo; mi piace l’idea di cercare di capire che tipo di classe ho di fronte. [...]
Anche di fronte alla stessa classe, prima, seconda o terza [...], lo stesso argomento lo devi
affrontare in maniera completamente diversa da un anno all’altro, proprio perché ti
accorgi che qualcuno ti può seguire di più, qualcuno di meno. Cioè, se l’anno scorso mi
sono messa quasi a giocare con una classe, quest’anno non mi è capitato, però magari ho
lavorato di più sulle ricerche, su esercizi fatti in un certo modo, sull’uso del computer in
classe (IntMi3/119);
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si tratta di sperimentare, anche sbagliando; in alcuni casi, torna utile avere due classi in
cui sei lo stesso insegnante e vai in parallelo: due seconde di tecnologia, due classi di la-
boratorio...; allora sperimenti su una e ti va bene; poi, pensi: “Provo anche di là...”. Provi
di là e ti va male. Allora devi capire perché; è anche un inventare: alcuni anni lavori bene
con youtube, altri anni non ne vogliono sapere e quindi devi inventarti cose diverse
(IntMe6/274);
noto che c’è tantissima differenza tra un gruppo e l’altro: lo stesso lavoro, la stessa espe-
rienza, lo stesso esempio, proposti a gruppi diversi, ottengono spesso anche risultati di-
versi (FGMat1/51);
le strategie cambiano da classe a classe, nel senso che io, difficilmente faccio le stesse
cose in tutte e tre le classi, perché magari c’è la classe dove ci sono i ragazzini più vivaci,
una classe dove la matematica piace di più, allora riesco ad andare anche più veloce-
mente, altre classi in cui devo fermarmi un pochino, con più esempi (IntPd4/80);
[...] non è pensabile che tutti si coinvolgano alla stessa maniera o nello stesso momento,
perché davvero, quando hai così tanta umanità davanti, hai anche tantissime storie che
questi hanno alle spalle (FGMat2/193).
L’esigenza di fondo è quella di comprendere le caratteristiche del gruppo con
cui si sta lavorando, di considerare “le storie che i ragazzi portano con sé”, i loro
interessi, le loro domande, ma anche come un gruppo evolve e, cambiando, ri-
chiede che si faccia ricorso anche a modalità di lavoro diverse. Questo rappresenta
anche una risorsa per il docente che, provando e interrogandosi su cosa funziona e
cosa no, ha la possibilità di inventare e di arricchire il suo repertorio di tecniche.
3.3.2. Dosare bene i tempi, alternando momenti di spiegazione a momenti di attività
Variare attività significa dosare bene i tempi, per mantenere alto il livello di
attenzione e anche per valorizzare i diversi stili di apprendimento degli allievi:
lo scoglio più grande, secondo me, è non perdere mai l’attenzione da parte loro, quindi
anche [...] trovare il giusto dosaggio, cioè il giusto tempo per poter stare su un argomento
o su una modalità di lavoro, per poi capire quando invece ormai bisogna passare ad altro,
[...] perché all’interno della classe ci sono a volte dei livelli che sono completamente di-
versi [...] e non devi fare annoiare quello che ha il voto alto, ma neanche puoi continuare
a frustrare quello che ha il voto basso. Allora [...] (è essenziale) la capacità di dosare
bene i tempi e poi fare dei passaggi successivi, tenendo presente le varie realtà
(IntMi3/37);
ho un’utenza che ha un’autonomia di concentrazione che va dai 5 ai 10 minuti – ma 10 è
già tanto; (ce la fanno solo) i migliori! –; allora io non posso parlare troppo, perché, se
parlo un minuto di più, già il 70% lo perdo; infatti, spesso mi fermo, li guardo, mi stanno
guardando, io penso di dire chissà cosa, mentre mi rendo conto che parecchi mi stanno
solo guardando. Quello che funziona, invece, è l’applicazione sempre reale; loro hanno
bisogno di fare [...], di partecipare attivamente e di fare qualcosa (FGMat1/51);
cerco di trovare le cose più utili, più dinamiche anche per loro; che non sia la semplice
lezione che loro ascoltano, perché comunque c’è il giorno che ascoltano ma la maggior
parte dei giorni non ascoltano, perché non trovano il motivo, la ragione, l’interesse, e al-
lora cerco tutti i modi possibili per risvegliare un minimo di attenzione, di interesse
(IntVr6/64). Vado molto ad esempi pratici; [...] spiego poco il libro; in alcuni casi sì,
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perché ci vuole, però cerco di fare spiegazioni mie. [...] In base alle domande o alle facce
che fanno, cerco di trovare nuove parole, nuovi termini, di abbinare la definizione ad
un esempio pratico. Per esempio, dai grafici, per parlare dell’equilibrio chimico, ho fatto
riferimento alle grotte, alla formazione delle stalattiti delle stalagmiti [...] (IntVr6/66).
Un’esigenza centrale che i formatori esprimono è che la lezione non sia “solo”
lezione: gli allievi infatti (e non solo quelli del CFP) “...hanno bisogno di fare, di
partecipare attivamente” (FGMat1/51). Diventa perciò cruciale non solo accorgersi
dei cali di attenzione, affinando lo sguardo, ma predisporre un’opportuna alter-
nanza di attività. Ad una breve unità di spiegazione frontale, è allora utile far se-
guire un momento di elaborazione, individuale o a coppie o a piccoli gruppi, o una
discussione, per poi magari tornare ad un lavoro frontale che aiuti a tirare le fila del
discorso.
3.3.3. Inserire qualche stacco durante la lezione: le attività “per prendere fiato”
Talvolta, in una lezione di matematica o di scienze, la difficoltà risulta essere
la gestione dei momenti fisiologici di stanchezza. Come abbiamo visto, rispetto a
questo si può intervenire variando le modalità di lavoro. Qualche volta però,
sembra utile pensare a specifiche attività per far “riprendere fiato” o “ricaricare le
batterie esaurite”:
per quando sono molto stanchi, all’ultima ora del pomeriggio, tengo nel cassetto qualche
attività per “prendere fiato” (IntMe3/386), come alcuni esperimenti; ci sono siti bellis-
simi, che mostrano esperimenti anche molto semplici ma interessantissimi di chimica, di
fisica; è chiaro che questi poi vengono ritarati sul livello del CFP (IntMe3/390); talvolta
sono molto semplici e richiedono pongo, palloncini, piuttosto che cartine al tornasole o
un metro [...]; loro sanno di che cosa si tratta e riusciamo a tenere la strumentazione in
classe (IntMe3/392);
le difficoltà maggiori le trovo quando devo spiegare, ad esempio, [...] durante il pome-
riggio, nelle ultime ore, quando la concentrazione mia e quella degli allievi sono abba-
stanza basse e la stanchezza si fa sentire; lì la difficoltà sta proprio nel richiamare la con-
centrazione, l’attenzione, anche su cose semplici; la difficoltà è notevole (IntVr8/64);
quando si esagera o c’è troppa confusione, ci fermiamo un attimo, facciamo un giochino,
facciamo un esercizio facile, che so già che non richiede concentrazione, per vedere chi
vince; una corsetta veloce, per scaricare [...] (IntVr8/66) per ritornare poi [...] a concen-
trarci (IntVr8/68); [...] può trattarsi di un esercizietto su un argomento visto all’inizio o di
un’espressione facile, facile, o di un problemino facile, con le proporzioni [...] del tipo:
“Andate al supermercato, trovate una promozione...”, oppure, sempre a proposito di pro-
porzioni [...]: “In un centro commerciale c’è lo sconto del 20% su un televisore che costa
tot, mentre nell’altro centro c’è un televisore che costa un po’ di più, ma lo sconto è un
po’ maggiore; dove andreste a comprarlo?”; allora [...] vediamo dove andrebbe uno, dove
andrebbe l’altro, quanto [...] uno risparmierebbe. Oppure un altro problemino: “Quanto
un ragazzo deve chiedere ai genitori per andare a mangiare la pizza? Non so, deve andare
[...] da Verona al lago, una ventina di chilometri, per andare a mangiare una pizza; quanti
soldi chiede per starci dentro?”; allora abbiamo calcolato la benzina: “La benzina costa
tot al litro; quanti litri consumo per andare al lago?”; “Dopo sto lì, mi bevo una birretta,
una pizza, un gelatino; quanti soldi vengono fuori?”. Cioè (si tratta di scegliere) problemi
che abbiano proprio un interesse attivo per loro (IntVr8/70).
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Spesso le azioni per “far prendere fiato” sono esse stesse attività istruttive, che
però variano il setting e magari richiedono l’uso delle mani o di particolari oggetti
(il pongo, i palloncini, le cartine ecc., che riempiono il cassetto del docente quasi
fosse la borsa di Mary Poppins) e comportano un diverso livello di concentrazione.
Altre volte, si tratta di attività che non centrano, in senso stretto, con la lezione – la
corsa in cortile, la pausa in cui si aprono le finestre dell’aula e si fa girare un po’
l’aria... – ma possono aiutare a far recuperare energie e a rigenerare le condizioni
per lavorare bene assieme.
3.3.4. Utilizzare la leva del gioco
Qualche volta anche un gioco può assumere valore di intermezzo e diventare
una delle attività di cui abbiamo parlato sopra. Uno dei formatori, di cui sotto ri-
portiamo un brano, parla, a questo riguardo, di “pause di respiro” (FGMat4/7). Ma
i giochi vanno al di là della funzione di intermezzo; suscitando coinvolgimento, in-
teresse e curiosità, propongono spesso situazioni in cui è necessario un ragiona-
mento deduttivo e possono servire a condire e colorire alcuni aspetti dell’apprendi-
mento della matematica che altrimenti rimarrebbero freddi e noiosi; inoltre, proprio
giocando, è possibile cogliere che, in matematica, come nella maggior parte dei
giochi, ci sono regole precise a cui è necessario attenersi. Vediamo cosa dicono i
nostri formatori a questo riguardo:
provo a stimolarli proprio nell’aspetto del gioco con la realtà dei numeri, in modo che sia
interessante per loro (IntVr8/46);
come strategia di apprendimento, utilizzo molto i giochi matematici, per stimolare la loro
voglia di apprendere (FGMat2/398);
in prima cerco di puntare la loro attenzione [...] sull’aspetto di gioco che può esserci nella
materia. Io sono curioso e poi ho un’amica che ha una bella libreria e ci vado spesso e mi
prendo tutte le cose che possono interessarmi [...]; ci sono un sacco di manualetti e di li-
bricini con quiz matematici [...]; ho scoperto che ci sono anche dei cruciverba che possono
essere utilizzati. Avete spiegato i numeri relativi? C’è il cruciverba sui numeri relativi; c’è
il cruciverba sui monomi, [...] sulle equazioni di primo grado [...]. Poi, quando siamo in
compresenza e si divide la classe – altrimenti sarebbe impossibile –, [...] sono un grande
fruitore del sito www.matematicamente.it, che, secondo me, offre delle attività eccellenti;
in prima, le gare di tabelline vengono benissimo, perché c’è una sezione dedicata a questo,
con il tempo e il punteggio; naturalmente, lo registriamo e, ogni due, tre gare, metto anche
un voto; è una cosa che li prende molto [...] (FGMat2/193);
la classe prima elettro era una classe un po’ difficile dal punto di vista di disciplina [...];
si veniva irrimediabilmente sfiancati da una lezione in quella classe. Quando ho proposto
dei lavori a piccoli gruppi, ho avuto ancora più problemi, perché il fatto di spostarsi al-
l’interno della classe dava loro motivo di agitarsi ancora di più. Ho provato a proporre al-
cuni esercizi di applicazione, che venivano presi in considerazione solo nel momento in
cui sapevano, essendo io d’accordo con il professore di laboratorio, che la valutazione
sarebbe andata a far parte della valutazione di laboratorio. Per il resto, se si faceva qual-
siasi altra cosa che fosse per loro collocata solo all’interno dell’ora di matematica, era
tutta una confusione, un ridere, uno scherzare, un giocare. Allora ho detto: “Se la vostra
intenzione è quella di giocare, allora giochiamo, però cerchiamo di giocare utilizzando il
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nostro linguaggio, il ‘matematichese’!”. Ho organizzato una sorta di garetta a squadre: li
ho raggruppati secondo come erano disposti in aula, per non farli alzare, prendendo dei
giochi matematici che potessero essere svolti a squadre; le soluzioni delle parole crociate
erano dei numeri che magari si ottenevano come soluzione di un’equazione o di pro-
blemi, che comunque portavano ad un risultato numerico. [...] Non dico ci fosse assenza
di confusione, perché questo era impossibile, però in ogni gruppetto ci si confrontava,
quando era il proprio turno, per cercare di trovare la soluzione al problema; [...] sono
quegli stacchi [...] che possono dare anche un po’ di respiro (FGMat4/7).
Nei racconti, il ricorso al gioco rappresenta l’occasione di una pausa, di uno
stacco, ma la matematica può essere vissuta e fatta vivere come gioco, sganciata da
un fine pratico, da un’immediata utilizzabilità (cfr. Lockhart, 2010). Varie sono le
tipologie di gioco di cui narrano i nostri docenti. Quelli a cui si ricorre con mag-
giore frequenza sono le gare e i concorsi. Qui il gioco assume generalmente la va-
lenza di “condimento” di percorsi di istruzione basati sull’abilità strumentale di
eseguire velocemente alcuni esercizi. Non manca però il ricorso a giochi logici e
matematici più specifici, che comunicano il gusto di pensare in modo creativo, fles-
sibile ed aperto. Proviamo a vedere qui di seguito alcuni esempi.
a. Gare e concorsi
Le gare e i concorsi si applicano prevalentemente agli esercizi, cercano di sti-
molare la velocità di esecuzione o la memorizzazione di regole e concetti in essi
implicati. Fanno leva sulla competizione, ma anche qui sono da notare le sfumature
e le attenzioni che i formatori mettono in atto per governare il processo ed evitare
che qualcuno possa sentirsi “fuori gioco”. Sono davvero moltissimi gli esempi a
questo riguardo:
per stimolare l’apprendimento, cerco di creare un senso di competizione tra i compagni;
ad esempio: “Chi finisce prima?”, oppure: “Avete cinquanta minuti di tempo...”, oppure:
“Avete venti minuti di tempo” (FGMat2/52), “A chi finisce prima, do un punto un più”
(FGMat2/54), [...]. E questo li sprona (FGMat2/56);
[...] assegno un esercizio in classe; ciascuno lo svolge individualmente, senza l’aiuto del
compagno o del quaderno o del libro, mentre io passo tra i banchi; difficilmente sto in
cattedra, mi piace stare in mezzo a loro, sbirciare sui quaderni, guardare quello che
fanno; passo tra i banchi e a chi ha bisogno do una mano. Poi c’è l’attribuzione di un più
o di un meno: la famosa “gara dei più” – un po’ di sana competizione non guasta! (ride)
–; praticamente, assegno un esercizio e loro guadagnano un “più”, che vale uno 0,25 [...],
se svolgono l’esercizio in modo completamente corretto; vincono i primi due [...]; poi si
corregge l’esercizio alla lavagna e lo corregge chi lo ha svolto correttamente (IntVr3/111)
e nel minor tempo. Siccome sono sempre i “più bravi” che vincono questa gara, allora
quelli che hanno preso il primo “più” sono esclusi, non giocano più, fanno l’esercizio
però non gareggiano più per il punteggio (IntVr3/113); altre volte decido di far partire
quelli più bravi con alcuni minuti di ritardo, per cui non possono scrivere l’espressione,
fintantoché gli altri non hanno fatto almeno due passaggi, per permettere un po’ a tutti di
arrivare al successo. [...] C’è stato un periodo in cui entravo in classe ed era una specie di
“condanna”: subito volevano fare la gara dei più; per me è un arrotondamento del voto
[...]; loro mi chiedevano: “quanti ‘più’ ho?” , perché con tanti “più” dopo [...] non ho più
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“sei e mezzo”, ma ho “sette”, oppure non ho più “cinque e mezzo” e potrei riuscire ad
avere “sei”. [...] Allora ho [...] sgonfiato un po’ l’entusiasmo della classe e ho detto: “La
gara dei più è momentaneamente sospesa!” (IntVr3/115) perché poi da parte mia diven-
tava difficile controllare: tutti quanti, di getto, svolgevano il compito e io dicevo: “Mi
raccomando, con calma, non dovete...”, però effettivamente era controproducente perché
svolgevano di getto le espressioni, senza dare lo spessore necessario alla riflessione...
(IntVr3/117); infatti, dopo, venivano a farmi controllare il risultato: “Guarda, è sbagliato,
c’è il solito errore; se avessi fatto con più calma, non avresti commesso quell’errore”; al-
lora tornavano al posto mestamente; per questo ho un po’ sospeso questa gara, anche se
vedevo che anche quelli più demotivati, pur di prendere il “più”, erano disposti a destarsi
per un’espressione (IntVr3/119);
in prima, le basi sono più i problemi, quindi che capiscano che la matematica è una cosa
interessante e anche una cosa reale [...]. In seconda, riesco a giocare [...], nel senso che li
conosco già da un anno e quindi so se possono rispondere bene, oppure se fanno fatica.
L’ultima volta ho giocato con i polinomi, mettendola proprio come una sfida: ai com-
pagni di banco do un esercizio per ogni coppia e vediamo chi vince tra i due, chi fa più
velocemente; [...] se uno non capisce, può chiedere, allora c’è il “bonus”, alza la mano e
“fermi tutti, io non ho capito, può rispiegarmi?” (IntVr8/36); quando hanno finito, de-
vono alzare [...] tutte e due le mani [...] e restare con le mani alzate, in modo che io veda
chi finisce prima; (facciamo) non uno, ma due o tre esercizi, in modo da stimolare un
poco la sfida personale tra uno e l’altro (IntVr8/40);
la mia idea era di fare una gara [...]; l’ho usata in una seconda, per potenziare la cono-
scenza dei sistemi e delle equazioni, però era attuabile anche con le tabelline, con i pro-
dotti notevoli, con le proprietà delle potenze, con la goniometria, con qualunque argo-
mento. Lo scopo, attivando attraverso il gioco una certa competizione tra i ragazzi, è
quello di riuscire a fare entrare in testa concetti che devono essere obbligatoriamente me-
morizzati, come possono essere i “prodotti notevoli” e via di seguito e anche quello di
fare un ripasso continuo, giornaliero, su questi argomenti. La gara può essere fatta in due
modi; la prima modalità è proprio una cosa di gruppo classe, una competizione in cui il
“destino” sceglie un ragazzo a cui io faccio una domanda secca e diretta. Se risponde,
bene, si va avanti, altrimenti l’allievo viene eliminato dal gioco. Ovviamente questa me-
todologia permette di tarare domande o di farle più o meno difficili in base al ragazzo
che si ha davanti. Quindi si riesce a mettere quello più bravo in difficoltà, così come ad
aiutare quello che fa un pochettino più fatica, con una domanda che può essere facile
(FGMat4/44); lo “strumento del destino” è un dado [...]. L’altra tecnica, un pochino più
simpatica, è quella di creare un tabellone, modello calcistico, all’italiana, ad elimina-
zione, anche lì pilotandolo in maniera tale che quelli più bravi arrivino a “scontrarsi” di-
rettamente, l’uno contro l’altro. Io dedicavo dieci minuti alla fine della lezione, o durante
una pausa; è una bell’attività che sveglia fuori. Prendo la lavagna, la divido in due e detto
l’esercizio; il primo che lo finisce vince. La cosa bella è che, in questo modo, un ragazzo
che può essere paragonabile al più “secchione” della classe, ma per vari motivi non ec-
celle nei voti, riesce a battere il più “secchione” della classe con tanto di tifo da parte dei
compagni [...]. Dedicando a questa cosa dieci minuti ogni lezione, si fa un ripasso con-
tinuo sull’argomento [...] e poi si stimola questa competizione che, se tarata, può essere
fonte di motivazione. Lo svantaggio [...] è il tempo; mettere un ragazzo in gara con un
altro, dicendo “devi finire prima di quello a fianco” [...] mette un’ansia notevole; si ar-
riva anche quasi allo scontro fisico; c’è gente che si spinge giù dalla predella davanti alla
lavagna, pur di continuare. Quest’ansia del tempo rende il lavoro un pochino più compli-
cato per chi è più timido e in difficoltà. Questo è l’unico svantaggio [...], la fretta che li-
mita un pochino l’attività (FGMat4/46);
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faccio una cosa da diversi anni, che è talmente conosciuta che i ragazzi ne parlano tra
loro e, se non ne parlo io, incominciano a chiedere: “Quando inizia il gioco?” [...]. Noi
lo chiamiamo caccia al premio. I ragazzi dello stage vanno nelle case madri delle varie
ditte [...] e portano molti gadget – tute, giubbini, ricambi dell’olio per il motorino – [...];
il premio, alla fine, è la distribuzione di queste cose al gruppetto che vince [...]. In pra-
tica, io e la collega di italiano [...] dividiamo le classi in tre o quattro gruppi; lo stesso
gruppo rimane sia con me, in matematica, sia con la collega di italiano [...]; mano a
mano che si va avanti, quando spiego, su alcuni argomenti – quelli che interessano di più
a me – dico: “Questo è un argomento da caccia al premio!”, per cui loro stanno partico-
larmente attenti [...]. Nelle verifiche intermedie, alcune domane sono in rosso [...] e loro
sanno che fanno parte proprio degli argomenti scelti per la caccia al premio; nella valu-
tazione, ciascuno di loro deve sapere, in particolare, quanto ha preso in quell’esercizio,
perché il punteggio viene cumulato nel gruppo per la valutazione. Questa cosa va avanti
[...] fino al primo pagellino [...]. Le gare vere e proprie sono dopo il primo pagellino; a
queste io dedico una settimana o addirittura dieci giorni: faccio fare le prove a gruppi;
poi c’è [...] anche il “jolly”, che è, per esempio, la possibilità [...] di farsi aiutare da un
loro compagno del terzo anno sulla domanda per loro più difficile, oppure da un altro in-
segnante – magari quella di inglese – che talvolta come loro non sa ma con loro si mette
a cercare [...]. Però i ragazzi danno attenzione a questi argomenti, perché sanno che
fanno parte della “caccia al premio”. La cosa più importante [...] è che queste cose ven-
gano anche pilotate. Ad esempio, fanno queste gare dieci giorni dopo il pagellino; nel-
l’ora di matematica, non devo far altro che dividerli in gruppi e fare le verifiche alla pre-
senza del tutor [...]. Loro si ricordano i punteggi presi nelle verifiche intermedie: “In
quel compito in classe..., alla risposta a quella domanda mi avevi dato 12, quindi il no-
stro gruppo parte già da 12”; stanno molto attenti. È un modo per coinvolgerli almeno su
alcuni argomenti [...]. La cosa carina è che vedi la persona “brava” che cerca di aiutare,
nel gruppetto, la persona “meno brava”. [...] Nel momento in cui ci sono le domande
orali, chiedo che risponda uno del gruppo, a caso. Siccome sanno che la settimana suc-
cessiva alla consegna del pagellino c’è questa cosa, vedi quello più bravo che dice al-
l’altro: “eh, però tu studia!” [...] (FGMat4/52). I gruppi non li faccio a settembre [...] ma
verso novembre, perché non so ancora come metterli insieme; [...] cerco infatti che in
ogni gruppo ci siano quattro o cinque persone che hanno conoscenze pregresse più so-
lide; [...] cerco di fare dei gruppi [...] eterogenei. Ogni volta che spiego, dico: “questa
potrebbe essere una domanda da premio”; vedo che loro cominciano subito a scrivere.
[...] Quando facciamo le verifiche intermedie, le domande in rosso, quelle che interes-
sano più a noi, sono quelle di cui loro vogliono sapere il punteggio, [...] per cui chie-
dono: “Quanto ho preso in quella domanda?”, perché loro sanno che il punteggio delle
prove intermedie va poi ad accumularsi al voto del gruppo durante il gioco [...]
(FGMat4/54). Lo faccio soprattutto per consentire [...] un ripasso continuo [...] e per sol-
lecitare la persona che dice: “A me non interessa”: si sprona un po’ ad impegnarsi, se
non altro per la spinta del gruppo [...] (FGMat4/56) [...]; formo i gruppi, una volta che
ho capito che livelli ci sono [...]. Una volta composti i gruppi, loro sanno che alcuni ar-
gomenti – quelli per i quali inizio dicendo: “Allora qui [...] scrivete argomento di caccia
al premio” – meritano particolare attenzione; io vedo che già negli appunti sono più cu-
rati e [...] che studiano quell’argomento in maniera particolare. Poi, prima del pagellino
di gennaio, faccio delle verifiche intermedie; in queste, ci sono degli esercizi o domande
o quesiti, messi in rosso, che loro si devono preoccupare di fare in modo più completo o
attento, perché sanno che il voto [...] che prenderanno su quel quesito, sarà cumulato con
quello degli altri componenti del gruppo. Poi io tengo i conti e ogni tanto loro me li
chiedono [...]. Poi c’è la pagellina. Io [...] uso questa modalità come ripasso di tutto ciò
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che abbiamo fatto da ottobre a gennaio. Per una settimana, una settimana e mezzo, for-
nisco a questi gruppi delle verifiche, chiaramente in forma di gioco, con quesiti più sot-
tili per i quali possono giocarsi il jolly [...]. Poi, finita questa settimana, si riparte con il
programma nuovo e con la stessa metodologia. A giugno ci sono i premi finali. Noi ab-
biamo la fortuna di poter dare anche dei premi carini – tute di marca [...] giubbetti,
gadget davvero belli –; ecco perché sono così interessati. [...] Questi sono i mezzucci a
cui ricorriamo! (FGMat4/60).
La cosiddetta “gara dei più”, anche se induce una certa competitività tra i ra-
gazzi, se viene gestita e “pilotata” in senso educativo, può immettere un certo dina-
mismo in alcuni momenti della lezione. MR. (IntVr3), ad esempio, è particolar-
mente attenta a che tutti possano fare esperienza di successo ed è consapevole dei
limiti di una tecnica che, pur capace di accendere gli occhi, spinge ad eseguire in
velocità gli esercizi proposti, con i rischi che questo comporta. M. (IntVr8), an-
ch’egli formatore a Verona, inserisce la possibilità di usufruire di un “bonus”, una
sorta di interruzione del gioco a coppie, che può essere richiesta da un allievo per
avere qualche spiegazione supplementare da parte dei compagni o del docente. M.
(FGMat4/46), che invece insegna a Mestre, dedica gli ultimi minuti della lezione
ad una sorta di gioco a domande, più o meno complesso, che può essere organiz-
zato anche come una specie di “campionato” a squadre. Anche in questo caso, il
formatore, consapevole dei rischi della fretta e dell’eccesso di competizione, è at-
tento a tarare il livello delle domande in base agli allievi e a fare un uso “educa-
tivo” del gioco, che comunque rimane un appuntamento atteso e desiderato, che
può risvegliare energie sopite. Più complessa è l’esperienza della “caccia al
premio”, che viene raccontata da L. (FGMat4/52-60), che insegna in un CFP di
Roma e ha concordato questa strategia anche con la collega di italiano. In questo
caso, la competizione di gruppo è collegata ai punteggi acquisiti nelle verifiche in-
termedie e stimola l’attivazione di forme di aiuto tra pari e lo sviluppo di un senso
di interdipendenza positiva. Particolare cura viene rivolta alla composizione di
gruppi eterogenei e al mantenimento di una certa tensione positiva, anche con solu-
zioni fantasiose, come il “jolly”, che coinvolge persone esterne al gruppo classe. La
didattica reale è fatta anche di “mezzucci” come questi.
b. Le olimpiadi matematiche
Davvero sfidante è, per i ragazzi del CFP, la partecipazione ad iniziative come
le “olimpiadi della matematica”; la meta è alta e sfidante ma, proprio per questo,
particolarmente stimolante:
da 4-5 anni a questa parte, partecipiamo a una specie di “olimpiadi della matematica”,
che è “Canguro”, una gara di matematica che c’è, oserei dire, a livello planetario, perché
effettivamente lo fanno, prima a livello locale, poi a livello italiano, poi a livello europeo
e poi in Australia; finisce lì, perché l’ha inventata un australiano. Non abbiamo mai avuto
alcun successo particolare, però già di per sé il fatto di partecipare è tanto; qui, alla fine,
di ventotto allievi, partecipano in sette, otto, al massimo. C’è un lavoro di quattro o
cinque mesi per capire qual è la squadra [...] che concretamente può partecipare a questa
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gara. Noi partecipiamo al livello locale; [...] è l’università di Milano che la organizza,
manda un attestato di partecipazione e, per il migliore del Centro, un attestato di eccel-
lenza [...]; poi i ragazzi vengono premiati con tanto di foto di rito e il direttore offre le ca-
ramelle e quant’altro; è una cosa che stimola veramente (FGMat2/193).
Ai ragazzi del CFP non può essere preclusa la partecipazione a complesse
competizioni matematiche. È interessante notare la cura con cui avvengono la sele-
zione e la preparazione del gruppo di allievi che viene inviato a rappresentare il
CFP in queste gare e la ritualità che accompagna la partecipazione a questi eventi.
c. Sudoku e dintorni
Anche giochi come il Sudoku possono stimolare intuizioni matematiche e ap-
prendimento creando per di più un’atmosfera di vivo coinvolgimento:
a volte uno non ha idea di come un Sudoku semplicissimo possa diventare fonte di studio
matematico ad un certo livello (IntMe3/384);
mi capita spesso in classe di utilizzare giochini di logica sia allo scopo di stimolarli, sia
per introdurre in loro un certo modo di ragionare [...]; propongo di fare il gioco del Su-
doku a squadre, dove c’è la massima partecipazione [...] di gran parte di loro. Li divido in
squadre e faccio sì che, a turno, tutti debbano rispondere per trovare [...] il numero esatto,
secondo i parametri corretti del gioco. [...] Non sto qui a spiegare come si gioca a Su-
doku. Vedo che è molto coinvolgente. L’unico limite è che alcuni di loro sono sopraffatti
dagli altri, da chi si propone per primo, pronto a dire: “La risposta la do io!” e tende a
scavalcare gli altri e a prevaricare; sicuramente però è un gioco molto coinvolgente
(FGMat5/14).
G. (FGMat5/14), che insegna in un CFP di Catania, ricorre a giochi come il su-
doku o master mind per stimolare attenzione e interesse, sempre attento ad evitare
che la foga di giocare porti a comportamenti scorretti e prevaricazioni.
d. Il gioco del monopoli
Una variazione del classico gioco del Monopoli, può essere utilizzata per sti-
molare esercizi di matematica finanziaria:
l’anno scorso, nel corso di preparazione al lavoro per le commesse [...], in previsione del-
l’esame, avevo ideato una sorta di Monopoli, dove, al posto degli alberghi e delle vie,
c’erano dei negozi. Praticamente, le ragazze, giocando, dovevano superare delle prove di
matematica finanziaria; [...] tutto questo per fare un ripasso di quello che avevano ap-
preso durante l’anno, ma in maniera giocosa, divertente e distensiva. Il gioco era stato
ideato come il classico Monopoli, però gli imprevisti o le probabilità, erano ad esempio
le tasse che dovevano essere pagate allo Stato o per la luce o per il mantenimento di un
negozio; poi c’erano come probabilità i premi carriera, oppure gli sponsor, e loro erano
sempre lì a fare conti (FGMat4/9).
Si tratta di inserire il “far di conto” all’interno di un contesto ludico che, fra
l’altro, può riempire di vita operazioni matematiche altrimenti percepite come mec-
caniche e astratte.
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3.4. Coinvolgere il corpo
I formatori intervistati cercano sempre di coinvolgere il corpo, nei loro per-
corsi, mai dimentichi del fatto che i numeri sono nati dalle dita: «Dalla mano na-
scono i numeri finché essi s’installano nella mente, e questo va sempre rimem-
brato – cosa che riguarda le membra – mai può essere dimenticato – cosa che ri-
guarda la mente – né soprattutto scordato – cosa che riguarda il cuore, le emo-
zioni, le reazioni primarie e più veloci al nostro essere nel mondo» (Maraschini
2008, p. 3). La manipolazione, l’agire sulle cose sono indispensabili per arrivare a
comprendere.
3.4.1. Farli muovere e provare
Valorizzare il corpo significa innanzitutto non limitarsi a far lezione in aula,
con gli allievi “prigionieri” dei banchi, ma utilizzare come aula gli spazi più ampi
del CFP (o del territorio) e creare le condizioni perché gli allievi possano muoversi,
agire, fare, provare:
ho visto che partendo da problemi anche di geometria, ma pratici – ad esempio, calcolare
la superficie di una finestra o di una certa vetrata o quanto materiale mi serve, che so, per
costruirmi una porta, una finestra, il pavimento di una stanza –, [...] se devono muoversi,
prendere il metro e provare, riescono a sentirsi più attivi (IntVr8/18);
un’altra cosa – che va tra le scienze e la matematica – che mi ha stimolato molto [...] è il
concetto di spazio, tempo e velocità, [...] che, da una parte, è un’equazione e, dall’altra,
un principio fisico. Allora [...], ho pensato: “Adesso, cosa faccio?”. Sono andato fuori
[...] e ad un ragazzo ho dato un metro: “Là – gli ho detto – misurami 20 metri”. “Da
dove?”. “Da dove vuoi tu! Prendi un punto di partenza e misurami 20 metri!”. Così
usano il metro e praticamente misurano uno spazio di 20 m, lo delimitano con una pan-
china, una mattonella, insomma una serie di cose. Ad un altro ragazzo ho dato in mano il
cronometro [...] (FGMat2/120) E [...] li faccio correre; li porto fuori, faccio quest’opera-
zione e faccio loro misurare 20-25 m; prima li faccio percorrere a piedi; [...] uno, da
fermo a 20 m, ci mette tot, e quindi faccio loro controllare (FGMat2/122). In questa ma-
niera, cerco di far loro comprendere i concetti di spazio, tempo e velocità; [...] il ragazzo
ha segnato il valore dei tempi, lo spazio l’avevamo già misurato, abbiamo quindi ricavato
la velocità [...]. Questo spazio l’abbiamo percorso non solo a piedi, ma anche in bici-
cletta. In questa maniera i ragazzi si accorgono che, per fare 20 m in bicicletta, ci vuole
più che per farli correndo a piedi. Perché? Come mai? È l’inerzia. Quindi ho cercato di
introdurre anche questi concetti [...] (FGMat2/125).
L’accesso alla comprensione, soprattutto per quanto riguarda la geometria,
avviene attraverso un coinvolgimento globale, anche fisico e motorio, dei soggetti
in apprendimento, nella ricerca di soluzione a problemi, nella formulazione di
congetture, nella misurazione e nella verifica delle varie ipotesi. M. (IntVr8) e
S. (FGMat2/120-125) fanno agire i loro alunni, dentro o fuori dal CFP; da queste
esperienze, e dalle opportune problematizzazioni che il docente sa introdurre, na-
scono strategie di soluzione che si definiscono progressivamente, in dialogo con i
compagni e con il docente.
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3.4.2. “Traffico di mani”: studiare le molecole lavorando con il pongo
Quella di coinvolgere il corpo e, in particolare, le mani è ovviamente un’esi-
genza avvertita soprattutto nell’ambito dell’insegnamento delle Scienze, che certa-
mente più di quello della matematica può sfruttare metodi empirici e chiamare in
causa «oggetti concreti, cose, misure, esperimenti, prove, verifiche» (D’Amore,
2009, p. 133). Vediamo, ad esempio, il racconto di E. (IntMe3), che insegna mate-
matica e scienze a Mestre:
una tecnica che aiuta molto, e che poi mi permette di collegarmi alla matematica, è lo
studio delle molecole tridimensionali che faccio con i grafici. Partiamo dal solito pro-
blema, il grafico medio che deve confrontarsi con l’inchiostro, perché ad esempio i gel
da stampa di vari inchiostri rispondono a diverse caratteristiche; per capire le caratteri-
stiche dell’inchiostro, devo studiare la chimica dei liquidi; la chimica dei liquidi non è
una chimica di atomi, è una chimica un pochino più complessa, è una chimica di mole-
cole; queste molecole, proprio perché non sono atomi, sono spesso e volentieri tridimen-
sionali; nei casi più semplici, lavoriamo in due dimensioni, ma poi cominciamo a co-
struire questa molecola. Ora, per quanto io possa ingegnarmi, il disegno di una molecola
tridimensionale sulla lavagna produce un effetto comico (IntMe3/172), il che rende
anche un pochino più leggera la lezione (IntMe3/176). Come fare? Allora io mi trovo
molto bene a lavorare con il pongo (IntMe3/178); lo usiamo, perché mi permette di rap-
presentare le molecole nello spazio; noi siamo... (IntMe3/182) un po’ rustici, le colle-
ghiamo con le bacchettine del caffè (IntMe3/184); poi cerchiamo di risolvere il pro-
blema; loro arrivano a costruire queste molecole, ma non solo, anche a capire di che
dimensione devono essere le sfere che rappresentano gli atomi, perché imparano che la
sferetta di un atomo di idrogeno è molto più piccola della sferetta di un atomo di oro.
Ora, in questo modo, loro si appassionano, perché è un po’ un traffico di mani, è un po’ il
“mi sporco di pongo e ci gioco su”; poi i disegni che ne escono – perché la natura è
sempre spettacolare – sono sempre simpatici e [...] stimolanti (IntMe3/188); [...] perché
queste strutture abbiano solidità (IntMe3/190), è necessario, per esempio, capire le ango-
lazioni (IntMe3/192). È lo studio dell’angolo in matematica, per cui, non mi interessa più
sapere solo che l’angolo piatto è di 180°, ma perché è di 180°; l’angolo piatto è di 180°
perché quei due atomi, restringendosi per le caratteristiche che conosco, si allontanano
il più possibile; il più possibile significa mettersi come un angolo piatto; da qui viene
il collegamento con la matematica [...] (IntMe3/194).
La costruzione delle figure geometriche che rappresentino le molecole viene
fatta con materiali che si possono maneggiare (in questo caso, il pongo e gli stec-
chini del caffè). I materiali possono essere costruiti dagli insegnanti o, come in
questo caso, fatti costruire agli allievi. Dalla manipolazione dei materiali, che con-
sente di rappresentare fisicamente i concetti, si passa con maggiore facilità alla sco-
perta di connessioni e alla generazione di spiegazioni convincenti.
3.4.3. Rendere “visibili” e “manipolabili” i concetti
Come abbiamo già visto – e come vedremo più ampiamente più avanti – si
tratta di predisporre dei materiali, che rappresentino qualcosa di concreto, di palpa-
bile, da lavorare con le mani (sbarrette, spaghi, elastici, stecchini, pongo...), un
esperimento di carattere fisico, la semplice osservazione di un fatto reale, magari
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ricavato dall’esperienza lavorativa. L’idea che spessissimo i nostri formatori espri-
mono è di visualizzare e “far toccare con mano” i concetti e questa visualizzazione
passa proprio per una valorizzazione del corpo, in particolare della vista e del tatto:
un’esercitazione che ho fatto quest’anno [...] è sul concetto di “mole”: [...] portavo vari
tipi di pasta – maccheroni, farfalline, ditalini, ecc. – e, con una bilancia, provavamo a
contare, cioè a mettere un certo numero di questi tipi di pasta sulla bilancia e ad osser-
vare che il quantitativo di pasta era sempre uguale, ma il peso cambiava. La stessa cosa
per gli atomi: ci sono atomi piccoli e grandi, 20 g. di piombo non sono la stessa quantità
di 20 g. di ossigeno; hanno peso uguale ma la quantità [...] di atomi è diversa. Fare
questo abbinamento con la pasta rende visibili e manipolabili i concetti (IntVr6/78), [...]
perché il concetto di atomo lo fai diventare macroscopico; altrimenti, [...] è difficile che
loro si immaginino come è fatto l’atomo e acquisiscano il concetto di atomo [...]. Ho
usato anche dei modellini, quest’anno; [...] con delle sferette collegate insieme, ho fatto
loro capire [...] il concetto di molecola: più atomi tenuti insieme per formare un tutt’uno;
insomma, con il modellino ho provato a far visualizzare i concetti (IntVr6/80);
un’altra cosa, sempre divertente, sempre artigianalissima, che per esempio riguarda la
fisica e l’applicazione dello studio degli angoli, è questa: allora noi abbiamo a che fare con
la fisica, con lo studio della repulsione e dell’attrazione delle particelle; a seconda della
loro carica, meno e più si respingono, meno e più si attraggono (IntMe3/208). Questo è il
principio di base. Come faccio a vedere cose che si respingono, piuttosto che cose che si
attraggono? Allora si parte da esempi, ma la cosa più divertente è, per esempio, gonfiare
due palloncini, legarli per il cappio, strofinarli su della lana e vedere come questi si sepa-
rano fra di loro, formando il solito angolo il più lontano possibile, che è sempre l’angolo
piatto; da qui lo studio degli angoli in matematica (IntMe3/210). Anche questo lo faccio in
modo molto artigianale: strofino la penna sui capelli dei ragazzi [...] (IntMe3/212); la
penna strofinata che attrae i pezzettini di carta a loro rimane fino alla fine della terza
(IntMe3/214). Si collegano alla matematica, soprattutto allo studio dei segni (IntMe3/220).
Trattando i numeri relativi, noi introduciamo dei numeri interi che sono accompagnati da
un segno, positivo o negativo (IntMe3/222). Come visualizzare questa cosa? Allora sicura-
mente c’è la visualizzazione classica sulla retta orientata (IntMe3/224), ma quella vale fino
ad un certo punto, perché, come tutte le cose infinite, e la retta è una di queste, si capisce
ma anche no. Cosa vuol dire avere segno diverso? Segno diverso vuol dire un comporta-
mento completamente diverso; i due palloncini che si attraggono piuttosto che si respin-
gono. Quindi +2 e –2 non sono due cose simili, per quanto abbiano solo un segno diffe-
rente; sono due cose che assumono due comportamenti completamente diversi; non posso
farmi sfuggire un segno, perché il palloncino potrebbe fare tutto un altro percorso rispetto
a quello che dovrebbe fare; da qui colgono anche l’importanza dell’uso preciso di un
segno davanti ad un numero, proprio come fattore che in natura cambia (IntMe3/226);
volevo illustrare un piccolo lavoro fatto con i ragazzi in classe: la costruzione di un peri-
scopio con un tubo di cartone lavorato, tagliato, sagomato a dovere, secondo delle misure
date, poi irrigidito, per potergli dare una certa stabilità, con il sistema della carta pesta,
con colla e acqua. [...] Ho notato che far fare delle cose pratiche, concrete, anche sem-
plici, anche banali, come incollare dei pezzi di carta su un tubo di cartone, motivava i
ragazzi, perché comunque tutti [...], anche quelli che hanno più difficoltà a livello fisico
o difficoltà di qualsiasi altro genere, possono collaborare in questo [...]. Finita la struttura
in cartone, dopo circa una settimana, perché ci sono dei tempi di asciugatura abbastanza
lunghi [...], i ragazzi hanno dovuto tagliare, formando un angolo a 45°, i due spigoli op-
posti, per poter poi inserire degli specchietti retrovisori recuperati da macchine allo sfa-
scio. In questa maniera, ho potuto sviluppare il concetto di angolo, verificando semplice-
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mente che, se i ragazzi non calcolavano bene l’angolo, non vedevano l’immagine dal-
l’altra parte; c’era quindi un’autoverifica del lavoro che facevano. In questa maniera,
oltre ad aver coinvolto tutti ragazzi della classe, sono riuscito in qualche modo a far loro
toccare con mano quello che si fa in teoria; inoltre [...] hanno avuto l’esperienza positiva
di un feedback immediato (FGMat4/49);
penso alle frazioni, per i ragazzi del primo anno di un corso per meccanici. Per le lavora-
zioni che devono fare, hanno bisogno di conoscere bene tanto le frazioni quanto i deci-
mali, i centesimi [...]. Si trovano molto in difficoltà a ragionare con le frazioni, perché
non hanno la capacità di immaginarsele. Per tutti e tre gli anni abbiamo fatto un percorso
di materializzazione delle frazioni sfruttando sia le officine, sia gli oggetti di uso quoti-
diano, dalla classica torta ai soldi, dai biglietti alle monete [...]; questo ha facilitato molto
la loro capacità di immaginarsi, di rendere concreti questi elementi [...]. Il riscontro che
abbiamo avuto – perché è un lavoro che abbiamo fatto in collaborazione io e il mio col-
lega di officina – [...] è che, quando loro si trovavano a lavorare in officina, avevano la
capacità di visualizzare meglio le misure e le richieste che venivano fatte nell’attività
pratica. [...] Abbiamo utilizzato questo stratagemma per rispondere alla grande difficoltà
di immaginarsi le frazioni [...] come numeri [...]: qual è la differenza tra 1/4 e 1/6? Quale
fosse il più grande e quale il più piccolo era molto difficile da materializzare, mentre le-
gando le frazioni ad un oggetto, [...] dicendo che le frazioni potevano essere assimilate a
questo piuttosto che a quello, ma scegliendo solamente un termine di paragone – nel no-
stro caso, abbiamo utilizzato le monete, gli euro – [...] e abbinando sempre quella gran-
dezza a tutte le frazioni che incontravamo, per loro tutto diventava più semplice da com-
prendere, perché avevano un metro di confronto immediato e univoco, con le dovute li-
mitazioni, perché non tutte le frazioni si possono esprimere con facilità in monete; hanno
capito che le frazioni erano un’operazione, un oggetto matematico che, in qualche ma-
niera, poteva essere spiegato con delle cose a loro molto familiari, che avevano sempre
in tasca, ed essere legato a situazioni della loro quotidianità [...]; quando vengono chia-
mati a ragionare sui soldi, non hanno problemi; se invece si pone loro lo stesso quesito
solo dal punto di vista matematico, magari hanno difficoltà [...] (FGMat4/142);
cerco di partire spiegando le cose più concrete sui principi di un’equazione, magari fa-
cendo loro toccare con mano [...] alcuni contenuti che si sposano bene con la spiegazione
concreta, ad esempio la bilancia [...] per far loro capire che alcune operazioni che si
fanno in entrambi i membri di un’equazione riprendono il concetto di bilancia [...]
(IntMe2/114);
in seconda meccanici, indirizzo macchine utensili, uno degli argomenti rilevanti e nel
contempo anche abbastanza difficile è sicuramente il calcolo trigonometrico, che serve ai
ragazzi per calcolare determinate quote che devono essere impostate nel programma ed
essere digitate sulla macchina a controllo numerico, la quale poi esegue la lavorazione
che deve eseguire. Dopo aver spiegato il punto di vista teorico, utilizzando i soliti mezzi
– la lavagna, con tutti gli schemi di questo mondo, fatti riportare sul quaderno – avevo
avuto da più ragazzi l’informazione che non riuscivano ad interiorizzare l’argomento,
che lo ritenevano troppo difficile; qualcuno mi ha detto addirittura: “Insuperabile, per me
è insormontabile!” [...]. Sapevo che in laboratorio stavano facendo un particolare che non
era molto complesso, benché richiedesse opportunamente l’applicazione di questi cal-
coli; [...] ho preso questo particolare, questo disegno, l’ho passato al collega che è inse-
gnante di disegno tecnico, molto bravo con il CAD, mi sono fatto realizzare questo parti-
colare al CAD, in formato tridimensionale; poi lui mi ha stampato una versione del parti-
colare in tre D, evidenziandomi in rosso la parte di profilo, che era quella assimilabile al
triangolo rettangolo che avremmo dovuto risolvere. Quando i ragazzi hanno avuto in
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mano queste fotocopie [...] e hanno visto [...] come sarebbe diventato il capolavoro finale
e dove erano inseriti i calcoli che avremmo dovuto fare, credo che l’80% abbia approc-
ciato la cosa con uno spirito decisamente più amichevole, anche perché dal disegno ov-
viamente già riuscivano a capire qual era la dimensione che loro avevano e quale invece
quella che non potevano misurare con nessuno degli strumenti di misura e che quindi do-
vevano calcolare utilizzando lo strumento matematico [...]. Questo mi è successo a
maggio [...] e mi ha fatto tirare un respiro di sollievo, perché inizialmente non avevo pro-
prio idea di come superare lo scoglio; [...] avevo fatto per due o tre volte la ripetizione
della spiegazione, ma avevo visto che almeno per il 40% degli allievi non era servito;
continuavano a prendere fedelmente nota di quello che si stava facendo, ma non riusci-
vano a collegarlo al calcolo che era legato a questo particolare specifico, che avrebbero
dovuto realizzare. [...] Vedendo il particolare in versione tridimensionale [...], hanno ca-
pito; [...] e poi questo collega è stato molto bravo, ha fatto tutta una cosa con le ombre,
ha evidenziato la parte che dovevano assolutamente calcolare; questo ha aperto loro uno
spiraglio di comprensione. [...] I miei allievi hanno molta difficoltà nell’astrazione; qual-
cuno c’era arrivato e non capiva come i compagni non capissero; in realtà, questi com-
pagni non avevano la capacità o la modalità di immaginare quello che poteva essere
il prodotto finale che avrebbero dovuto realizzare (FGMat4/176).
Per quanto consapevoli che “fare scienze” è diverso dal “fare matematica”,
perché in matematica, a differenza che nelle scienze, si ha prevalentemente a che
fare con idee e oggetti mentali, che non esistono in maniera sensibile, i formatori
intervistati rivelano una particolare insistenza a “rendere visibili e manipolabili” i
concetti, a raffigurare e a “far toccare con mano” le teorie. A questo scopo utiliz-
zano esempi, portano in aula oggetti concreti (la pasta, le sfere, i palloncini, il car-
tone, i cilindri...), propongono grandi o piccole esperienze (l’osservazione, la co-
struzione di oggetti, la rappresentazione tridimensionale...), fanno nascere quesiti
stimolanti e guidano nella ricerca di soluzioni. Qualche volta arrivano a costruire
rappresentazioni multiple, ricche e complesse di fenomeni realmente osservati,
altre volte si limitano a suscitare evocazioni e raffigurazioni parziali di idee
astratte; in ogni caso, tentano di produrre “concetti animati” e di assicurare un co-
stante rapporto tra il piano dell’astrazione e quello della realtà concreta e tangibile.
La rappresentazione ha il potere di muovere l’intuizione e il ragionamento e gli al-
lievi possono giungere ad operare delle astrazioni solo se passano attraverso con-
tinue esperienze motorie, manipolatorie e iconografiche (cfr. Russo, 1998). In tutto
questo, la didattica si manifesta come “azione artigianale” (IntMe3/208), che pro-
cede per tentativi (FGMat/176), predispone un laboratorio, in cui i docenti propon-
gono di fare delle cose e sostengono i propri allievi nei processi di ricerca.
3.5. Differenziare il lavoro all’interno del gruppo classe
La differenza è “normale”, i gruppi di apprendimento non sono mai omogenei.
Di questo sono convinti i formatori intervistati che, come in parte abbiamo già
visto in relazione all’esigenza di variare le attività, cercano in vari modi di differen-
ziare il lavoro all’interno della classe (cfr. Tomlinson 2003) per rispettare i ritmi di
ciascun allievo.
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3.5.1. Cogliere le differenze
L’idea che si possa standardizzare l’insegnamento è quanto di più distante
dalle parole dei nostri formatori. Insegnare richiede un’acuta attenzione al contesto
e ai singoli soggetti in apprendimento:
ho sentito in passato dire che il corso doveva essere preparato in anticipo, da un anno al-
l’altro [...] – era passata questa teoria nella nostra Regione –, che un insegnante doveva
prendere il modulo di quella settimana e, chiunque fosse venuto in aula, avrebbe saputo
immediatamente cosa fare. Invece io non ho mai visto una classe uguale all’altra, mai!
[...]. Quindi, cosa faccio? Mi dovrò calare nella difficoltà o nella facilità della situazione,
in base a quel gruppo che ho davanti, e avrò classi che sono più pronte, più immediate, o
semplicemente classi al cui interno c’è una figura di spicco più intuitiva, che guida, e
classi che lo saranno meno; [...] io lavoro molto sul fatto che sia la classe a lavorare
(FGMat1/8).
Si tratta di adattare il percorso alla specificità del gruppo e dei singoli con cui
si lavora. Spesso, nelle realtà dei CFP salesiani, si opera anche nella prospettiva di
consentire un rientro nel percorso scolastico, guidando i passaggi all’Istituto Tec-
nico o Professionale. Questo comporta l’esigenza di differenziare anche in parte i
curricoli:
[...] facciamo degli esercizi [...] e poi vado a vedere le lacune che ci sono. Allora retro-
cedi e vai indietro, per andare a recuperare anche conoscenze elementari; questo non suc-
cede con tutti. Allora [...] partiamo dalle basi per tutti e portiamo successivamente avanti
alcuni (IntVr1/18); [...] dobbiamo fare il programma del CFP, cercando [...] di tenere
anche, nello stesso tempo, una parte minima del programma [...] dell’ITI, che [...] è un
po’ diverso, più formale (IntVr1/48); [...] da certe parti (del programma) si potrebbe
anche prescindere, ma non possiamo farlo [...] perché dobbiamo garantire una base un
po’ a tutti; per quelli che sono un po’ più in difficoltà, cercherò l’escamotage dell’eser-
cizio più facile, però devo garantire una base adeguata anche a chi vuole andare avanti e
dare loro almeno gli strumenti fondamentali (IntVr1/50);
prima ancora che introducessero le passerelle fra i vari sistemi scolastici, noi abbiamo
sempre dato la possibilità di fare [...] rientro nel sistema scolastico; [...] dobbiamo quindi
riuscire a mediare tra una preparazione che possa essere di base per tutti e un qualche
cosa che invece consenta a quelli che magari possono farcela, che possono puntare un
po’ più in alto, [...] di proseguire (IntMi6/32).
La differenziazione, soprattutto in presenza di soggetti con disabilità o con
specifiche difficoltà di apprendimento, è facilitata dalla possibilità di usufruire
– non sempre e non dappertutto – di qualche compresenza:
siccome noi abbiamo mediamente molti inserimenti di ragazzi diversamente abili in
classe, abbiamo qualche ora, non tantissime, di compresenza, e allora è chiaro che, se si è
in due a lavorare, puoi fare anche delle cose un po’ diverse (FGMat2/193).
Vari sono i volti della differenziazione: l’accompagnamento individuale e l’a-
zione di supporto al singolo, in una prospettiva di recupero dell’autostima e delle
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competenze di base, oppure in una prospettiva di sviluppo e approfondimento di
interessi personali; la differenziazione delle consegne di lavoro all’interno dello
stesso gruppo; la possibilità offerta agli allievi di apprendere insegnando.
3.5.2. Potenziare l’autostima curando la relazione e fornendo un supporto indivi-
duale
Come abbiamo ricordato all’inizio, molti ragazzi della formazione professio-
nale portano con sé un vissuto scolastico negativo, che spesso ha demolito la loro
autostima. In queste situazioni, la costruzione di una relazione significativa, l’ac-
compagnamento individuale, il “Tu provaci!”, che è possibile pronunciare seden-
dosi accanto ad un ragazzo e guardando con interesse ciò che sta facendo, fanno re-
cuperare un po’ di energia e liberano potenziali che altrimenti rimarrebbero ine-
spressi. Sono davvero numerosi gli esempi di azioni di questo tipo che possono
estratti dagli interventi dei nostri formatori. Riporto qui di seguito ampi stralci di
alcuni brani, riservandomi di commentarli alla conclusione del paragrafo:
questo ragazzo, ad esempio, l’ho “ereditato” in terza; era l’unico allievo di terza che non
avevo avuto fin dalla prima [...]; all’inizio mi ha detto: “Lei non mi conosce, perde solo
tempo con me!” [...], “Non vede che con me lei perde solo tempo? Lo sanno tutti, io non
so niente, non ho mai capito niente!”. Dico: “Ma ascolta, se tu devi fare questo conto e io
ti spiego che si fa così, capisci?”. “Sì”. “E allora, perché dici che non puoi farlo?”. “Ah,
perché io non sono un secchione, non l’ho mai fatto!”. Dice ancora: “Non creda che io lo
farò perché me l’ha detto lei!”. “Tu provaci! Dopo, quando avrai provato e non sarai
stato capace di farlo, vedremo quale sarà l’aggettivo più adatto per te...”. Si demoraliz-
zano molto; dopo, alla fine, mi dicono: “A me mi hanno detto che devo essere un bravo
lavoratore, mi dica lei a che mi serve tutta questa roba qua!”. Questo si fa fare tutti i
compiti a casa – adesso l’ho scoperto, me lo ha anche spiegato –, da una sua cugina, che
viene a casa e gli fa fare i compiti. Ho detto: “Ma fatteli anche spiegare, dato che perde
un sacco di tempo”. Dice: “No, no, non c’è niente da fare, io non sono capace!”. Ma io
ho visto che, quando mi metto con lui lì vicino – con i calcoli complicati è vero, fa fatica,
però... – [...] lui entra... Ormai è “demolito” e dice: “Non sono capace e non sono
capace!”. Se non altro, abbiamo instaurato un rapporto, perché all’inizio c’era il muro
contro muro [...]; adesso ho capito che è inutile che mi opponga, faccio del mio meglio!
(IntVr1/141). Sono contenta, perché in quella classe ho veramente patito e tribolato e
il fatto che lui continui a lavorare con questa sua cugina, insomma, penso che sia da
premiare (IntVr1/143);
mi viene in mente un ragazzo che era venuto da un insuccesso all’ITI con un rendimento
bassissimo; [...] mi sono accorto che, almeno per me, invece, aveva delle forti potenzia-
lità e, pur partendo da situazioni di deficit cognitivo, formalizzato anche attraverso voti
molto negativi, avrebbe potuto farcela. Ho parlato con questo ragazzo, gli ho detto che su
di lui avevo delle aspettative, perché per me valeva più di quanto stesse dimostrando in
quel momento, per cui io avrei fatto il possibile per fargli capire che non era vero che lui
non era portato per la disciplina matematica e che, invece, per me, poteva avere degli ot-
timi risultati, e che quindi avrei messo in atto con lui una strategia per portarlo ad un li-
vello superiore di quello attuale. In questo caso, ho avuto una cura o un occhio partico-
lare, nel senso che l’ho coinvolto tutte le volte in cui si poteva fare una domanda alla
classe; chiedevo anche agli altri, ma, diciamo che, su cinque domande rivolte alla classe,
ad esempio, due toccavano sempre a lui, incoraggiandolo ogni volta a non aver paura
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[...], a darmi una risposta, che poteva anche essere: “mah, sto sbagliando, sto dicendo una
cretinata!”. “Non preoccuparti di quello che dici! Dimmelo!”. Cioè, poco per volta, l’ho
coinvolto nella materia. I risultati sono rimasti negativi; del resto, gli avevo già detto:
“Ricordati bene che io non ti regalerò mai i voti, però voglio che, alla fine dell’anno, tu
sia possibilmente ad un livello più che sufficiente, pur non regalandoti niente. Questo è il
mio obiettivo. Posso anche fallire, ma io con te voglio fare questo tipo di percorso!”. Il
ragazzo inizialmente era molto restio, diceva: “Non lo so [...], non sono capace, non ci ri-
esco!”. Poco per volta, gli ho detto: “No, tu dammi una risposta; poi la discutiamo; però
impara a discutere il tema proposto”. Poco per volta, l’ho coinvolto; ho iniziato da voti
bassissimi, proprio perché c’era il rifiuto, c’era il compito in bianco, una sequela di “non
lo so” di fronte alle domande; poco per volta, è stato sempre più coinvolto, ha imparato
una metodologia diversa di approccio alla materia, ha cominciato a vedere i suoi voti che
miglioravano; dopo di che i voti sono diventati sufficienti. C’è stato da parte sua un ri-
torno, nel senso di dire: “Ma prof, mi sto accorgendo che la materia sta diventando un
po’ più semplice! Non è così incomprensibile!”. In questo modo ha guadagnato un po’ di
autostima [...], quindi, alla fine dell’anno, non era arrivato al sette, ma all’otto. Contem-
poraneamente c’è un riflesso positivo sul resto della classe, perché c’è sempre inizial-
mente il problema: “Ma chiede sempre a lui, fa sempre rispondere lui; io alzo la mano e
non mi guarda!”. Io ho detto – perché questa cosa l’avevo detta pubblicamente, di fronte
alla classe –: “Tu hai il quattro; io voglio portarti ad un livello più alto!”. Poco alla volta,
la classe ha capito e, da questo punto di vista, mi ha aiutato; può anche succedere che
non sia così; lì la classe ha capito che stavo cercando di tirarlo su; alla fine hanno visto in
lui l’esempio di chi, con la volontà, riesce a migliorarsi; quindi c’è stato un riflesso posi-
tivo anche negli altri, nel poter dire: “Se ce l’ha fatta lui, perché non posso farcela an-
ch’io?”. Questa è stata una volta in cui l’attenzione individuale ha avuto un esito positivo
[...]; ho avuto anche degli insuccessi; non posso dire che mi è sempre riuscita; in questo
caso devo dire che il lavoro individuale ha portato frutti (IntRoma1/2);
per quel che riguarda la didattica per gli alunni certificati, molto spesso questi ragazzi
hanno difficoltà a svolgere delle prove, perché si trovano di fronte ad un testo che non
hanno mai visto e magari hanno problemi di lettura, perché hanno una lieve dislessia o
un qualsiasi altro problema di concentrazione, non riescono a focalizzare in quel tempo
che noi diamo per lo svolgimento del compito, quale sia effettivamente la consegna; [...]
i ragazzi certificati hanno anche il diritto di avere una didattica su misura. Questo pro-
blema è stato ovviato, [...] cercando di anticipare loro alcune domande che sarebbero poi
state oggetto del compito: “Questa o una molto simile sarà la domanda del compito”, [...]
facendo loro pervenire, tramite una lettera indirizzata ai genitori o un’e-mail, con i geni-
tori più tecnologici, proprio le domande con lo stesso tipo di carattere, di impaginazione,
in modo che, il giorno prima del compito, potessero, facendosi aiutare dai genitori o dai
tutor, con i quali di solito fanno un’attività di approfondimento, a leggere insieme le ri-
chieste e a cercare di capire quale era il modo migliore di organizzarsi. Quest’anno,
avevo un ragazzo che aveva [...] problemi relazionali con gli altri, più che altro perché
era un ragazzo debole e aveva delle esperienze alle medie per cui [...] gli altri gli face-
vano fare quello che volevano, anche delle stupidaggini, e lui le faceva, perché cercava
di farsi accettare un po’; inoltre aveva difficoltà di concentrazione [...]. Io avevo contatti
con una ragazza che lo seguiva per fare ripetizioni e le facevo pervenire i quesiti il
giorno prima della prova, in cui sapevo che lei si sarebbe incontrata con il ragazzo, in
modo che potessero guardare insieme e cercare di prepararsi proprio su quello che era
l’argomento del compito (FGMat4/118). La mamma di questo ragazzo aveva chiesto la
possibilità di avere una persona che seguisse il ragazzo nelle lezioni pomeridiane e il
Centro aveva dei nominativi di persone che avevano già collaborato. Noi poi fungiamo
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solo da contatto, nel senso che mettiamo la famiglia in contatto con il tutor e poi [...] si
mettono d’accordo tra di loro sugli orari; noi prestiamo le aule del ricevimento, loro si
mettono là dove possono fare lezione. Per questo ragazzo è stato importante. Non è stato
sempre possibile far pervenire il compito prima [...], allora risolvevo così: magari il com-
pito non andava così bene, la valutazione era insufficiente, però gli consegnavo il com-
pito svolto da fare per casa, insieme alla ragazza che gli faceva ripetizione, e, in un
giorno prestabilito, mi avrebbe dovuto riportare il compito come se lo avesse fatto in
classe, scritto bene, in ordine, sul foglio protocollo, indicando le soluzioni di tutti gli
esercizi che c’erano; perché comunque, essendo seguito, riusciva a fare tutti gli esercizi;
per lui era un lavoro ulteriore, ma si impegnava molto in questa cosa e, se io gli dicevo:
“Fai quaranta esercizi!”, lui ne faceva quarantacinque [...]. In altre occasioni, [...] sempre
con ragazzi certificati, davo comunque il testo degli esercizi per casa, offrendo anche
l’indicazione di quali esercizi avrebbero dovuto fare per avere la sufficienza, dicendo che
tutto quello che sarebbero stati in grado di fare in più, sarebbe stato motivo per una valu-
tazione più elevata [...] (FGMat4/120). Il ragazzo che avevo quest’anno era certificato,
aveva dei deficit attentivi e relazionali e alle scuole medie aveva avuto l’esperienza di es-
sere preso di mira dai compagni perché un po’ irrequieto. Ha avuto bisogno fin dall’i-
nizio che noi stendessimo un regolamento speciale per lui, da ripetergli ogni volta che
entrava in classe, oppure in sala giochi; gli dovevamo ricordare che non si urla e non ci si
alza quando si vuole in classe, che bisogna alzare la mano ecc.; queste cose bisognava ri-
cordargliele, perché per lui era cosa normale stare in classe un po’ come gli veniva, in
maniera molto disturbante (FGMat4/124). Era iperattivo e aveva qualche difficoltà di ap-
prendimento; [...] aveva proprio difficoltà ad apprendere a stare tranquillo, però [...] era
anche molto metodico e molto ordinato a casa; se in classe tutti avessero tenuto il qua-
derno come lo teneva lui, credo che non ci sarebbe stato problema da parte di nessuno;
era molto ordinato, scriveva tutto e per tutte le materie! Lui, insomma, voleva cercare di
fare il suo lavoro al meglio possibile. [...] Non è che gli si potesse dare la sufficienza
sulla fiducia, però si cercava il modo di farlo lavorare facendogli capire che quello che
stava facendo veniva ricompensato anche con una valutazione positiva (FGMat4/126);
ho scelto di raccontare un contenuto non particolarmente complesso, la somma dei nu-
meri positivi e negativi, sviluppato però con un ragazzino che ha concluso quest’anno il
percorso triennale, con enormi problemi di apprendimento. Aveva praticamente la capa-
cità cognitiva di un bimbo di prima elementare, nonostante avesse compiuto da poco i di-
ciotto anni. La difficoltà stava proprio nel fargli capire che non esistono solo numeri posi-
tivi ma anche numeri negativi e nell’aiutarlo a capire come trattare queste nuove “entità”
[...]. Ho provato a sfoderare la solita tecnica del termometro, che però non ha dato risul-
tati positivi, ho provato con l’ascensore, partendo dal piano zero per salire ai piani supe-
riori o poi scendere ai posteggi interrati, ma anche questo non ha dato buoni frutti. Ho
provato con l’esempio delle scale mobili di un supermercato: salire al piano superiore o
scendere al piano sottostante, e anche questo non ha portato a buoni risultati. Colto quasi
dalla disperazione, ho tracciato una riga sul quaderno del ragazzo con una penna, poi ho
preso una penna e [...] ho tracciato lo zero con la penna verde, il segno “più”, a destra
dello zero, con la penna rossa, e il segno “meno”, a sinistra dello zero, con la penna blu.
In questo modo, gli ho fatto vedere con i colori diversi che lo zero è un punto di separa-
zione tra il più e il meno; poi ho associato il più – i numeri positivi – alle temperature
calde, il meno – i numeri negativi – alle temperature fredde. Gli ho fatto anche il para-
gone con l’acqua: l’acqua calda di solito ha il rubinetto rosso, l’acqua fredda ha di solito
il rubinetto blu. A questo punto, come faccio a passare dal meno al più? Ho scritto una
piccola espressione di numeri interi positivi e negativi, provando a risolverla con lui, im-
medesimandomi in un canguro, saltando avanti e indietro di tanti quadretti, a seconda di
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quanto diceva il numero che seguiva il segno; ad esempio, se incontravo un “+2”, saltavo
di 2 quadretti nella direzione del +, se poi trovavo un “–3”, saltavo indietro di 3 quadretti;
quando ero arrivato in fondo, guardavo dove ero arrivato, segnavo con una matita, con-
tavo i quadretti che mi separavano dallo 0 e guardavo da che parte ero rispetto allo 0, per
avere il risultato finale della mia espressione. Il metodo del canguro, chiamiamolo così,
ha dato finalmente buoni risultati, al punto che questo ragazzino [...] mi ha chiesto di
fargli fare altri esercizi; io, colto dall’entusiasmo, subito mi sono lanciato anche nel tenta-
tivo di complicargli un po’ la vita e ho messo perciò qualche parentesi in mezzo. Fin
quando si tratta di fare somme o sottrazioni, la parentesi ha un significato pressoché
nullo, salvo che non sia preceduta da un segno meno, ma non sono stato così cattivo da
fargli fare una cosa di questo tipo. Visto che i risultati che mi forniva erano giusti, ho fatto
un passettino avanti: ho fotocopiato una pagina di libro in cui c’era scritto l’ordine in cui
si fanno le operazioni nelle espressioni e gli ho detto: “Paolo, guarda questo schemino e
prova a fare le operazioni a fianco”; gli ho messo qualche moltiplicazione tra le somme
senza le parentesi; le prime volte, ho messo le moltiplicazioni evidenziate dalle parentesi,
in modo che riuscisse ad individuare subito quali erano le operazioni che doveva fare per
prime, e così ha fatto. Qualche piccolo errore di distrazione qua e là, qualche svista, nel
senso che ha iniziato prima da una operazione piuttosto che da un’altra, però, dopo
qualche esercizio di aggiustamento, è riuscito ad andare fino in fondo. Dopo di che ho
fatto ancora un passetto in avanti e sono riuscito a fargli togliere le parentesi e a farlo ren-
dere consapevole che divisioni e moltiplicazioni vanno fatte prima di somme e sottra-
zioni. [...] Per le moltiplicazioni aveva le tabelline davanti o la calcolatrice, che però
usava solo per le moltiplicazioni e per le divisioni; le somme e le differenze ha insistito
lui a farle con il metodo del “canguro”. Morale della favola: quest’anno, quando abbiamo
fatto l’esame di qualifica, Paolo è stato presentato per ottenere una certificazione di com-
petenze, perché non era neanche in grado di usare un paio di forbici, come manualità, ri-
schiava veramente di tagliarsi un dito ogni volta che doveva spellare un filo. Paolo ha se-
guito un percorso per operatore elettrico [...], quindi, d’accordo con la famiglia e con il
consiglio dei docenti, abbiamo pensato di fargli prendere una certificazione di compe-
tenze, anche perché la famiglia ha insistito per fargli proseguire gli studi e non mandarlo
a lavorare, per tenerlo ancora un po’ in un mondo un po’ più protetto e farlo maturare [...].
Come ragazzino è veramente debole dal punto di vista degli apprendimenti, ma estrema-
mente forte per quel che riguarda la volontà ed è una persona fantastica, veramente, è uno
dai quali ho imparato di più e [...] mi ha dato enormi soddisfazioni dal punto di vista pro-
fessionale, perché poi, quando ha fatto il suo esamino, [...] mi è venuto a cercare, ha vo-
luto che presenziassi al suo orale, nel quale ha raccontato la sua esperienza di stage in bi-
blioteca [...]. Questa è una piccola esperienza che ho fatto e forse la più significativa dal
punto di vista didattico, perché nel momento in cui mi sono accorto che riusciva a fare le
operazioni, a parte la pelle d’oca che mi è montata, mi sono accorto di avere gli occhi lu-
cidi e sono dovuto uscire dall’aula per non farmi vedere gocciolare perché proprio mi
sono partiti i lacrimoni per l’emozione, per la gioia di vedere questo piccolo scricciolino
che è riuscito a scalare una montagna per lui veramente ardua (FGMat4/136);
mi viene in mente un ragazzino di una seconda, certificato, con lievi problemi di appren-
dimento in generale e probabilmente con qualche problema in più in matematica. [...]
Quest’anno ha alle spalle una famiglia molto presente, che lo segue molto – io dico che
“lo stressa” anche, perché in tutte le occasioni lo manda dal parente che sta studiando in-
gegneria, per fare delle lezioni aggiuntive – e questo gli ha permesso, all’inizio del-
l’anno, in una verifica che normalmente faccio [...] sul ripasso delle cose fatte l’anno
prima, [...] di prendersi una discreta sufficienza, se non ricordo male, sessantotto cente-
simi. Quando gli ho consegnato la verifica, gli ho fatto i complimenti: “Vuol dire che l’e-
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state ti è servita ed hai davvero rafforzato le cose che erano importanti!”. Beh, penso che
questo per tutto il corso dell’anno lo abbia davvero attivato ad essere attentissimo in
classe, a venire sempre a chiedermi che cosa avrebbe dovuto fare per arrivare allo stadio
successivo, perché magari non sempre riusciva a capire le consegne che davo. [...] Non è
che io abbia agito con delle cose particolari, però probabilmente gli ho dato l’idea di
dargli costantemente delle consegne individuali, solo per lui. Cioè io credo che lui abbia
vissuto la cosa in questa maniera, come se io gli dessi una consegna speciale, che poi in
realtà era la stessa che davo alla classe, in alcuni casi solo leggermente semplificata per
lui; quindi tutte le volte, lui arrivava con il diario e io gli segnavo le cose. Questa è stata
una molla fino a che, alla fine dell’anno, ha avuto la sufficienza piena; quindi non ha
avuto il debito [...]. Era non contento, di più; questo ragazzino [...] è molto minuto, però
questa cosa lo ha gratificato moltissimo, perché lui ha avuto la sufficienza con le sue
forze, l’ha guadagnata durante il corso dell’anno... Potrei leggere questa cosa come una
sorta di individualizzazione del percorso, nel senso che io non ho fatto nulla di partico-
lare con lui, se non dedicargli tre minuti alla fine della lezione, prima che si andasse al-
l’intervallo; gli appuntavo sempre bene sul diario i compiti, perché lui aveva l’ansia [...]
di non avere capito bene che cosa avrebbe dovuto fare per la volta dopo. Gli segnavo sul
diario gli esercizi che assolutamente doveva fare o le regolette che assolutamente doveva
studiare o il compito di rivedersi alcune cose; lui probabilmente a casa, con i genitori e
con questo – credo – cugino che sta facendo il politecnico e che si affiancava a lui, lavo-
rava e, alla fine dell’anno, ha guadagnato con le sue forze la promozione e quindi non ha
avuto il debito che invece aveva avuto in prima e che lo aveva forse un po’ deluso; [...] in
realtà, in prima era molto più debole, quest’anno invece lui stesso forse ha attinto a tutte
le risorse di cui disponeva e si è approcciato con più grinta alla materia (FGMat4/178).
Forse il mio sforzo, se così si può dire, era di accettare che, tutte le volte che non sapeva,
venisse lì da me; io lo aspettavo comunque, aspettavo che lui venisse ed ero disponibile a
farlo; tutte cose che i suoi genitori hanno apprezzato [...] per il fatto che hanno notato che
ho preso a cuore questa situazione [...]; loro hanno messo tutto il loro contributo e as-
sieme abbiamo ottenuto dei risultati. Anche a me ha stupito quando, alla fine dell’anno,
facendo le medie, ho visto che se l’era proprio guadagnata! In lui c’è stata un’esplosione
di felicità; si è preso tutti i compiti per le vacanze, mi ha detto: “Li farò assolutamente!
Quanto prima glieli porto a vedere”. E io: “Molto bene, ti aspetto!”. In fondo è solo un
ragazzino, sta crescendo nel percorso triennale ma non solo, sta crescendo anche come
persona; è un ragazzino molto piccolo, minuto, ma ha acquisito davvero quanto meno la
consapevolezza di valere anche lui, cosa che quando è arrivato aveva forse solo in ma-
niera debole, sopita sotto uno strato di ansia (FGMat4/180).
Gli esempi riportati sopra sono davvero efficaci nell’illustrare che cosa signi-
fichi accompagnare individualmente:
– considerare attentamente il vissuto di questi soggetti e dunque incoraggiare
(“Tu provaci!”), affiancare fisicamente; accettare i tempi di maturazione del
soggetto e la parzialità dei risultati (è quanto ricaviamo dal racconto di F. –
IntVr1);
– accorgersi delle potenzialità sopite, evitando di identificare il soggetto con i
suoi risultati scolastici; far intravedere mete raggiungibili; coinvolgere l’al-
lievo nelle discussioni in classe, sollecitandolo a rispondere a qualche do-
manda e a vincere la paura di sbagliare; riconoscere i progressi con voti posi-
tivi, ma senza regalare niente e soprattutto senza risparmiare anche fallimenti
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ed emozioni negative; coinvolgere il resto della classe; non pensare di essere
onnipotenti e mantenere la consapevolezza che non tutto dipende dalla propria
azione (è quanto ricaviamo dal racconto di M. – IntRoma1 – che fra l’altro ci
consente di intravedere che il modo in cui un formatore agisce con un ragazzo
in difficoltà ha un potente effetto sul resto della classe);
– costruire una didattica su misura; collaborare con la famiglia; garantire un sup-
porto individuale anche al di là dell’attività didattica normale, raccordandosi
con altre figure; fornire, prima della prova ufficiale, dei formati di prova simili
a quelli che il soggetto si troverà davanti al momento della prova; far rifare un
compito che è andato male, riflettendo sul perché e offrendo indicazioni su
come migliorare la prestazione; fornire una sorta di “regolamento” per conte-
nere alcuni comportamenti disfunzionali; gratificare a fronte di risultati effetti-
vamente raggiunti (è quanto ricaviamo dal racconto di P. – FGMat4/118-126);
– provare e riprovare, fino a che non si trova una strategia che funziona (qui,
l’uso dei colori o il “metodo del canguro”); illustrare un concetto in modi dif-
ferenti; disegnare passi graduali, valorizzando le mete raggiunte; sviluppare la
consapevolezza che in questi percorsi ad imparare non è solo il soggetto in ap-
prendimento, ma anche il docente; partecipare anche emotivamente al percorso
e godere sinceramente dei progressi e dei traguardi raggiunti (è quanto rica-
viamo dal racconto di V. – FGMat4/136 –, formatore di Genova);
– riconoscere i risultati positivi e l’impegno; costruire un’alleanza con la fami-
glia; comunicare al soggetto l’idea di un’attenzione particolare, dedicando
qualche minuto alla fine di una lezione a riformulare le consegne di lavoro;
potenziare l’autostima del soggetto (è quanto ricaviamo dal racconto di W.
– FGMat4/178-180 – formatore di Fossano).
Sono strategie che non sono generalizzabili ma che possono costituire un buon
repertorio di possibilità tra le quali pescare quelle che più adatte al proprio con-
testo. Ciò che emerge, al di là delle singole azioni, è la postura di fondo dei forma-
tori che si sanno alle prese con un’importante opera umana da compiere (cfr. Affi-
nati, 2009) e dimostrano un elevato grado di ostinazione a non perdere nessuno per
strada.
3.5.3. Differenziare le consegne di lavoro
Alcuni formatori sono soliti differenziare le consegne di lavoro a seconda del
gruppo classe, ma anche all’interno del gruppo, diversificando i compiti e le ri-
chieste nei confronti anche di singoli allievi:
a seconda delle classi, i tipi di approccio alla lezione sono diversi; quindi naturalmente
avere la capacità [...] di sapere con chi si ha che fare e che tipo di approccio sia più op-
portuno seguire [...], a volte fa veramente la differenza [...]; una volta che si riesce a ca-
pire più o meno qual è il tipo di stile cognitivo che una classe ha, si tratta di fare in modo
tale che tutti apprendano, magari diversificando il tipo di compito piuttosto che l’ap-
proccio alla lezione o alternando, perché in questo modo ci sono persone che si possono
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salvare [...]. Chiaro che se uno ha uno stile cognitivo diverso da quello che tu stai
usando, sarà sempre un muro contro muro, non si arriva a nulla e si perde tempo, non si
fa un vero servizio [...] (IntMi6/58);
durante l’anno ci sono anche dei recuperi, [...] dei pomeriggi in cui [...] loro hanno la
possibilità di fermarsi a scuola e di rivedere quello che non sono riusciti a fare nel con-
testo del mattino. Nel pomeriggio, ci sono gruppi di lavoro più piccoli; se il recupero è
fatto con poche persone, si possono anche differenziare un po’ i lavori e quindi loro
hanno la possibilità veramente di riprendere in mano quello che non riescono a fare
durante il mattino (IntMi3/37) [...]. I compiti per le vacanze vengono dati in base anche
a quelle che possono essere le conoscenze o meno di ciascuno di loro, per cui, a chi ha
“insufficiente”, anche le vacanze di Natale servono per studiare (IntMi3/55);
quando do degli esercizi da fare durante l’ora, invito con me alla cattedra [...] (IntPd1/44)
quelli che hanno più difficoltà anche nella stesura, [...] nell’ordine; li chiamo alla cattedra
e fanno gli esercizi insieme a me, non alla lavagna... (IntPd1/46), intorno a me, quattro
persone al massimo; ecco il mio gruppo di studio (IntPd1/50). Io li seguo passo, passo,
ma non dico loro cosa devono fare; intervengo solo quando non riescono; anzi noto
magari che si correggono da soli [...] (IntPd1/54).
R. (IntMi6) sottolinea l’importanza di fare in modo che tutti apprendano,
anche se per vie differenti, perché differenti sono le intelligenze e gli stili di ap-
prendimento dei soggetti. C. (IntMi3) utilizza degli incontri pomeridiani con pic-
coli gruppi, all’interno dei quali è possibile differenziare le consegna di lavoro;
inoltre differenzia i carichi che assegna ai vari allievi come compiti per casa. M.
(IntPd1) utilizza la possibilità di articolare il lavoro in classe, ad esempio, seguendo
un gruppetto in modo più ravvicinato, mentre gli altri allievi lavorano autonoma-
mente, su specifiche consegne assegnate dal docente.
3.5.4. Organizzare momenti di apprendimento libero ed autonomo: la tesina
Fa parte del lavoro di differenziazione, in questo caso nel senso della persona-
lizzazione dei percorsi, anche la strategia di cui ci parla E. (IntMe3), che insegna
anche Scienze. Si tratta di offrire la possibilità di approfondimenti individuali da
scegliere in base ai propri interessi e alle proprie curiosità:
faccio un esempio molto pratico, al quale tengo molto: alla fine dell’anno, i ragazzi di
terza, preparano una sorta di “tesina” – brutta la parola, però rende l’idea – (IntMe3/366),
in cui approfondiscono uno dei temi a loro scelta delle mie materie, di fisica e di chimica
(IntMe3/368) [...]; loro colgono che se, per esempio, la fisica di terza prevede lo studio
della luce, la tesina può comprendere lo studio della luce dal punto di vista della fisica,
l’analisi del colore che è luce dal punto di vista della tecnologia – perché loro fanno il
colore in tecnologia – [...], l’analisi della luce e del colore all’interno della grafica, ad
esempio, lo sviluppo di una lastra piuttosto che di una fotografia; e poi c’è il problema di
esprimersi in maniera efficace, quindi la necessità di confrontarsi con il professore di ita-
liano, che dia consigli su cosa e come scrivere, su come presentare. Non solo, c’è anche
la necessità dello studio del mezzo informatico, perché questa tesina è proprio bello pre-
sentarla in modo multimediale o come Cd-rom interattivo (IntMe3/370). [...] Loro conti-
nuano ad elaborare ricerche e approfondimenti durante tutto l’anno e per farlo devono
per forza confrontarsi con il testo scritto [...] (IntMe3/438). A volte, ci mettiamo d’ac-
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cordo con il professore di italiano; per esempio, [...] quest’anno, bisognava elaborare un
approfondimento su un determinato tema; ho anche detto: “Li rimando dopo a te per la
correzione dell’elaborato, ed eventualmente per la comprensione di quale delle loro fonti
può essere più adatta, più interessante”, perché poi loro da internet pescano di tutto e di
più. Alcune cose vengono selezionate da me, però è anche vero che un professore di cul-
tura, che permette loro di analizzare meglio un testo, dà delle dritte interessanti. Dopo di
che, i testi vengono corretti e avranno due valutazioni, quella sul contenuto, che sarà mia,
e quella sulla forma sull’elaborato, che sarà del professore di italiano (IntMe3/440).
Gli approfondimenti su uno dei temi del percorso di fisica o di chimica si
aprono a collegamenti interdisciplinari, coinvolgendo anche l’apporto di altri inse-
gnamenti, vengono esposti in forma di report o tesina, prevedono una presenta-
zione ai compagni e una valutazione specifica.
3.5.5. Far fare l’esperienza di insegnare
Un’altra strategia a cui i docenti ricorrono spesso è quella di stimolare forme
di apprendimento attraverso l’insegnamento (learning by teaching):
quando chiamo un ragazzo alla lavagna, trovo utile investirlo della responsabilità di di-
ventare lui stesso insegnante e di assumere i relativi atteggiamenti. Una cosa è cercare di
spiegare al meglio quello che sta facendo – e questo ha un ritorno per me, che capisco se
lui ha capito –, altra cosa è cercare di usare un linguaggio magari diverso dal mio, [...]
più alla portata dei suoi compagni. Mi accorgo che, malgrado tutti i sinonimi che pos-
sono esserci a portata di mano e malgrado tutte le battute del caso, a volte, io uso un lin-
guaggio che è distante dai miei ragazzi [...]. Allora dico: “Ragazzi, quando venite qua,
fate come se foste me, con la serietà che vi meritate! Voi qui alla lavagna e i vostri com-
pagni al posto cercate di creare la lezione”. Questo impone al ragazzo una serietà che, a
volte, quando è al posto, non ha, [...] un impegno che magari al posto non mette, e ha dei
ritorni positivi per tutti (FGMat5/18); sono solito chiamare i ragazzi fuori, soprattutto
quelli delle prime, per farmi dire a parole quello che stanno facendo [...]. Quando faccio
questo, tendenzialmente, mi siedo al posto del ragazzo, [...] mi metto in mezzo ai ra-
gazzi; lui si sente in quel momento il docente perché è l’unico in cattedra, non ci sono
più io, e vedo che l’atteggiamento cambia [...] (FGMat5/20);
con un collega, quest’anno, abbiamo fatto anche un esperimento per cui i suoi allievi
hanno preparato qualcosa che poi hanno presentato alla mia classe e viceversa; [...] è
stato interessantissimo, perché i ragazzi [...] stanno più attenti per capire meglio cosa
dice il compagno; vogliono capire e fare la domanda un pochino più “bastarda” [...]
(IntMe6/24); [...] pensavo che i ragazzi se ne fregassero e invece è stata una cosa che ha
accontentato tutti; per chi presenta è una sfida, perché non può [...] o non vuole fare
brutta figura, quindi deve essere il più preparato possibile (IntMe6/26); [...] chi ascolta
poi, siccome conosce chi presenta, pensa: “...più o meno è uguale a me, vediamo se ma-
gari io so qualcosa in più e riesco a metterlo in difficoltà” [...] (IntMe6/28); l’idea è nata
sostanzialmente da alcuni argomenti che le classi avevano in comune [...] (IntMe6/32), i
processi e i procedimenti di stampa, se non sbaglio; [...] abbiamo svolto il programma
così come facciamo di solito, cioè con la lezione in aula; dopo di che, il mio collega ha
avuto l’idea e abbiamo provato a fare questa cosa: [...] abbiamo diviso i ragazzi in tre o
quattro gruppi, a seconda degli argomenti, e ogni gruppo si è preparato con una ricerca o
una presentazione multimediale; [...] siccome l’argomento era già stato affrontato in
classe, i ragazzi hanno fatto [...] un lavoro a casa; io li seguivo a distanza, nel senso che
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loro facevano e poi mi portavano il lavoro che correggevamo insieme, fino a quando non
ottenevamo un risultato accettabile (IntMe6/34). Fatto questo, abbiamo stabilito le date
in cui era possibile fare le presentazioni. Abbiamo fatto questo interscambio e ogni pre-
sentazione durava un quarto d’ora, venti minuti [...]; sono venuti in classe gli altri, ab-
biamo presentato un po’ l’iniziativa e i ragazzi hanno presentato questa cosa; chi aveva la
presentazione sul cartaceo ha fatto un cartellone, chi l’aveva su power-point ha presen-
tato il lavoro con il proiettore [...] (IntMe6/37); [...] poi è stato valutato tutto; [...] ab-
biamo preso il gruppo dell’altra classe, l’abbiamo portato nella nostra e abbiamo fatto
fare la presentazione (IntMe6/46).
In questi esempi, i formatori (M. – FGMat5/20 – e P. – IntMe6 –, entrambi di
Mestre) sottolineano che gli allievi della formazione professionale sono abbastanza
maturi da assumere la responsabilità di insegnare ai compagni, individualmente o
attraverso delle presentazioni di gruppo, e che, facendo questo, possono apprendere
meglio.
3.6. Far apprendere in/il gruppo
Una dimensione essenziale dell’apprendimento è quella sociale: si impara par-
tecipando ad un gruppo/comunità, interagendo con gli altri, costruendo socialmente
la conoscenza. Nella formazione professionale, lavorare in gruppo contribuisce a
formare quelle competenze sociali che saranno essenziali nel mondo del lavoro e
più in generale nella vita. Quindi, si può affermare che non solo si apprende in
gruppo, interagendo con gli altri, ma si apprende anche il gruppo, ovvero quell’in-
sieme di competenze sociali che sono necessarie per trasformare il lavoro di gruppo
in vera e propria esperienza di apprendimento. Molti lavori pratici che vedremo più
avanti sono svolti in team. Qui di seguito riportiamo alcuni esempi di modalità spe-
cifiche – e “addomesticate” – di utilizzo del cooperative learning e del tutoraggio
tra pari a cui i nostri formatori fanno cenno.
3.6.1. Proporre lavori di gruppo con distribuzione di ruoli
La strategia del lavoro di gruppo è molto praticata dai nostri formatori che
sono soliti predisporre situazioni in cui sia possibile ricorrere ad una sorta di intel-
ligenza condivisa, imparando a collaborare con i compagni e attivando forme di
aiuto tra pari. Nei racconti che seguono troviamo diverse declinazioni di questa
strategia:
li ho divisi in gruppi, che ho formato secondo certi criteri, nel senso che ho cercato di
dare ad ogni gruppo un capogruppo, cioè uno di quelli che magari (IntMe5/235) avevo
individuato tra le persone che potevano un attimo gestire il gruppo (IntMe5/237), dal
punto di vista della capacità di risolvere gli esercizi, ad esempio, e che potevano andare
un po’ meglio, che potevano essere di aiuto anche agli altri, perché magari (IntMe5/239)
avrebbero individuato gli errori (IntMe5/241). Poi ho lasciato che si gestissero questi
capigruppo, che chiamassero qualcuno, che facessero loro le squadre [...] (IntMe5/243);
se c’era qualcosa che mi sembrava non andasse nella formazione del gruppo, dicevo al
capogruppo: “Guarda, forse è meglio che...” (IntMe5/245); [...] ho sottoposto loro dei
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problemi che non erano legati a quello che stavamo facendo. Ho detto: “Ragazzi, [...]
vediamo di fare un’attività un po’ diversa”. Ho somministrato loro degli esercizi che di
solito vengono dati alle olimpiadi di matematica e ho detto: “Questi sono gli esercizi che
di solito vengono dati in una competizione vera” (IntMe5/247). “Io non vi sto chiedendo
di partecipare ad una gara, vi sto dicendo di provare a farli; vedrete che, per alcuni di
questi, non serve che conosciate il calcolo letterale o che sappiate fare le equazioni; po-
tete risolverli semplicemente ragionando”; ho detto [...] (IntMe5/249): “Ci sono degli
esercizi di vario tipo; provate a farli in squadra. Alla fine la squadra dovrà produrmi una
piccola relazione non tanto con la soluzione degli esercizi, perché non è quello che più
mi interessa, ma su come è stato il lavoro [...], su come avete lavorato insieme”. Secondo
me, [...] trovando le attività corrette e avendo l’accortezza di formare bene questi gruppi,
ci può essere qualche buon risultato (IntMe5/251);
per alcuni contenuti difficili, ho usato [...] un adattamento del cooperative learning: ho
fatto lavorare in gruppetti di tre, di cui uno bravo, in modo che potesse spiegare le cose
agli altri (FGMat2/153); proprio perché è molto importante per i ragazzi la relazione, il
parlare, il comunicare, come fanno in classe; perché non sfruttare questo anche per l’im-
pegno del lavoro? E poi la valutazione è avvenuta, una parte giudicando oggettivamente
com’era andata la prova, una parte giudicando l’impegno all’interno del gruppo e poi
anche la risposta a qualche domanda orale all’interno del gruppo (FGMat2/155);
[...] utilizzo [...] – anche se credo di farne un uso addomesticato – il cooperative learning,
che a me dà grandissime soddisfazioni; [...] gli stessi ragazzi, che poi si conservano i la-
vori che hanno fatto, trovano in questo veramente una modalità operativa che li coin-
volge. Naturalmente mediamente lo faccio con i ragazzi di seconda e di terza; a quelli di
prima è più difficile far capire [...] il senso del lavoro e quindi dell’impegno; perché poi
chi è bravo fa più velocemente e chi è mediamente più debole sta lì e non produce. In-
vece, quando siamo in seconda e in terza, qualche volta faccio anche l’esperienza di fare
dei gruppi omogenei, quindi tutti i bravi insieme, i medi e i deboli (FGMat2/195), dando
ovviamente, ai tre livelli, (FGMat2/197) consegne differenti sullo stesso argomento; per
esempio, in trigonometria [...], triangoli qualunque ai bravi, un triangolo rettangolo ai
medi e il calcolo di un paio di elementi [...] a quelli più deboli; [...] magari porto anche
qualche libro in più in classe, perché si abituino anche ad andare a cercare, là dove non
hanno la soluzione del problema, lo strumento e chi te lo può fornire, perché questo se-
condo me è un obiettivo: non devono ricordare tutto a memoria nella vita ma, se un do-
mani da qualche parte dovranno fare un calcolo, sapranno almeno che c’è un manuale che
può fornire loro la soluzione; saper andare a prenderlo e consultarlo al momento giusto
non è una cosa scontata [...]. Poi facciamo un fascicoletto con tutti i lavori che loro hanno
prodotto e questo diventa veramente una specie di portfolio (FGMat2/199) di classe;
nel senso che raccogliamo i lavori dei singoli gruppi e mediamente [...] ad ogni step fac-
ciamo un lavoro cooperativo; davvero si tratta di una cosa che trovo funzioni bene
(FGMat2/201) [...]. Con una seconda che vedevo molto difficile, perché erano ragazzi [...]
poco propensi all’ascolto, a stare in classe e a capire il perché delle cose – l’argomento
era la trigonometria, la risoluzione del triangolo rettangolo –, io sostanzialmente avevo
fatto delle lezioni spiegando concretamente, con esempi alla lavagna, come si può, par-
tendo dagli elementi che conosci, arrivare alla risoluzione del triangolo rettangolo, quindi
trovare degli elementi incogniti, che possono essere elementi lineari o angolari. A questo
punto, ho deciso che era necessario che loro si rendessero conto del perché si dovessero
utilizzare, ad esempio, le funzioni trigonometriche; allora [...] ho fatto fare questo tipo di
lavoro: foglio di carta quadrettata, righello e matita; hanno disegnato un piano cartesiano,
hanno messo dei punti sul piano cartesiano [...], li hanno collegati ed è venuto fuori un
triangolo; con il righello hanno misurato i lati del triangolo e si sono segnati le misura-
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zioni; poi, siccome avevano capito che era un triangolo rettangolo, [...] ho fatto fare la ve-
rifica con il teorema di Pitagora, per vedere se le misurazioni che avevano fatto con il ri-
ghello funzionavano. Allora hanno applicato il teorema di Pitagora e hanno visto che fun-
zionava; a quel punto, ho detto: “Adesso dovete calcolarmi gli angoli interni, fatta ecce-
zione per l’angolo retto”. Ovviamente non avevano lo strumento, nessuno aveva il gonio-
metro [...]; è stato un modo per far loro capire che effettivamente determinate cose le puoi
fare solo se hai degli strumenti teorici, come le funzioni trigonometriche (FGMat2/211).
A quel punto, avevo costruito già l’esercizio, quindi l’ho consegnato fotocopiato, ho fatto
dei gruppi; i ragazzi in quella classe erano ventidue, ho fatto mediamente cinque gruppi
di quattro persone [...] (FGMat2/211); abbiamo un’aula che è abbastanza grande, quindi
si sono sistemati in punti abbastanza distanti. Ho dato il tema [...] da studiare, che era ap-
punto la risoluzione di questo esercizio; poi c’era qualche complicazione, perché il trian-
golo rettangolo era un prato, per cui bisognava andarlo a seminare e quindi l’erba costava
un tot al kg, ce ne volevano tanti kg al m2; [...] ho definito ovviamente in modo chiaro,
già sul foglio, i criteri di valutazione che erano: la correttezza, la completezza dell’eser-
cizio, ma poi anche l’osservazione da parte mia di come si lavorava – ed io effettivamente
ho girato per tutta la classe per tutto il tempo e [...] per ciascuno segnavo effettivamente,
con dei più o dei meno, il tipo di intervento che stavano facendo, mentre procedevano
nella risoluzione del problema –; quindi la correttezza, la completezza, la cooperazione,
quello che è appunto il loro intervento personale, e l’ordine del risultato finale, del foglio
che mi consegnavano [...]. Tutto questo nell’arco di un’ora di lezione; [...] il lavoro che
ho descritto prima era stato fatto nella lezione precedente; poni 10’ per dare la consegna,
hanno a disposizione circa 50’ per fare l’esercizio. Questo è uno degli ultimi lavori che ho
fatto [...] (FGMat2/213); in questo caso, ho formato i gruppi in maniera non omogenea,
ma eterogenea, quindi avevo preso, mediamente, cinque “teste di serie”, una per ogni
gruppo – e qui ho usato ovviamente [...] la valutazione che avevano nel bimestre prece-
dente [...] (FGMat2/215) –; a ciascuno di questi ho fatto scegliere due persone e quelli
che rimanevano li ho distribuiti io. In questo caso, ho voluto fare un esercizio uguale per
tutti; ho dato un solo compito e quindi, mi sembrava più importante avere gruppi etero-
genei [...] (FGMat2/217); avevo dato un angolo e un lato e loro dovevano calcolarsi gli
altri elementi: l’area di quello che era un campo a forma di triangolo rettangolo, un prato,
e poi la spesa per comprare l’erba per seminarlo [...] (FGMat2/226);
c’era [...] una classe terza divisa tra una decina di ragazzi che volevano fare l’ITI, quindi
facevano dei corsi integrativi ed erano molto avanti in matematica, e un gruppo un po’
indisciplinato, che non aveva intenzione di continuare [...]; la difficoltà era farli lavorare
su contenuti, che alcuni padroneggiavano già [..] e altri no; questi, quando entravo, co-
minciavano subito a dire: “No, io non voglio fare niente, io non ce la faccio...”. Allora ho
provato questa cosa che ha funzionata benissimo [...]: è una specie di cooperative lear-
ning [...]. Li ho divisi in gruppi dove c’era uno bravo, [...] uno di quelli che avrebbe fatto
l’ITI e che sapevo anche dalle verifiche che, dal punto di vista dei contenuti, era messo
molto bene; non aveva altro compito che spiegare, lui era lo “spiegatore” del gruppo, gli
altri erano gli allievi, quelli che dovevano seguire. All’inizio c’è stato un po’ di imba-
razzo – “Io non voglio andare con quello che è più giovane di me, ma io...” –, poi invece
è stato molto utile, perché hanno lavorato per due ore, due ore e mezza, e hanno lavorato
tanto! Il trucco stava poi nella valutazione: io valutavo gli allievi come allievi, cioè li in-
terrogavo, facevo rifare l’esercizio dove loro mi dovevano spiegare passaggio per pas-
saggio come avevamo scritto o come il compagno aveva spiegato loro e poi assegnavo
un voto anche allo “spiegatore”, in parte, anche in base al voto dell’allievo [...]. In questo
modo è stato interessante, perché i famosi personaggi un po’ critici, cioè quelli che di so-
lito in una classe non fanno ma si aggregano, sono stati isolati dalla classe; [...] chi non
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aveva voglia di fare automaticamente veniva isolato, perché lo “spiegatore” era molto
motivato che andasse tutto bene [...]. Ho provato a riproporre la tecnica anche alla se-
conda, ed è andata benissimo [...] (FGMat4/24). [...] Ho dato tre esercizi da fare: “Dovete
fare questi tre esercizi. Alla fine, l’allievo deve saperli fare, tu trova il modo...”; io [...]
parlavo allo “spiegatore”; erano tutti presenti e ho detto: “Tu sei il capo del gruppo 1...,
tu il capo del gruppo 2, tu il capo del gruppo 3”, “Voi siete i referenti del gruppo, alla
fine dovete far sì che il gruppo funzioni”; e poi, rivolto agli altri: “Se voi avete domande,
le fate allo spiegatore, se lo spiegatore si trova in difficoltà, perché quello o quell’altro
non vuol fare, allora intervengo io”. Poi, man mano che il gruppo finiva la consegna, io
passavo da ogni gruppo e interrogavo [...] (FGMat4/26);
siccome per i “bravi” la ripetizione di certi argomenti di matematica che hanno già capito
diventa noiosa, allora ho proposto [...] una specie di cooperative learning, dove c’era uno
che spiegava agli altri lo stesso argomento con il sistema degli esercizi (FGMat4/162).
Prima, su una questione, potevano sostare anche un anno, un anno e mezzo; in questo
modo, siamo riusciti a trattare un argomento in due o tre mesi (FGMat4/164). Non è
che l’insegnante sia contenta per il tempo che “risparmia”, ma perché la maggioranza ti
è venuta dietro, perché, quando il tempo è molto lungo, si perde la motivazione
(FGMat4/166). [...] Ho visto che questi lavori sono molto utili, anche se devi vincere
l’imbarazzo iniziale, perché [...], dividendo la classe per gruppi omogenei, [...] dividendo
“i migliori” dagli altri [...], c’è qualche rischio. Io ho provato ad usare questo metodo
dando praticamente la stessa scheda e dicendo: “Voi dovete fare la parte davanti, dove ci
sono gli esercizi più facili, gli altri fanno la parte dietro, dove ci sono esercizi più diffi-
cili”. Superato il primo momento di imbarazzo – “Oh, ecco i bravi!... Oh, ecco gli altri!”
–, si sono messi a lavorare. I “bravi” erano motivati, perché erano “i bravi” e avevano
fretta di finire questa scheda di una ventina di esercizi; gli altri, prima sono partiti un po’
così, io ho dato loro una mano rispiegando e dicendo [...] che la scheda, in fondo, presen-
tava difficoltà simili per entrambi i gruppi. I bravi hanno finito prima, ma anche gli altri
si sono sentiti gratificati, perché hanno visto che comunque riuscivano anche loro a fare
quella cosa. Le volte successive, per i gruppi dei “bravi” era quasi un gioco [...], ma tutti
hanno compreso che il meccanismo e che le regole che applicavano, alla fine, erano le
stesse (FGMat4/172).
Le esperienze descritte rappresentano casi di applicazione contestualizzata del
cooperative learning (“adattamento...”, “uso addomesticato...”, “una specie di...”),
che si basano sulla consapevolezza che le interazioni con i pari possono amplificare
le opportunità di apprendimento. I criteri di composizione dei gruppi sono differenti:
spesso si tratta di gruppi eterogenei, costruiti avendo cura che in ogni gruppo venga
garantita la presenza di un allievo in grado di svolgere efficacemente il ruolo di co-
ordinatore o capo-gruppo, che lavorano sulla stessa consegna; altre volte, i gruppi
sono omogenei per livello e lavorano su consegne differenziate. In alcuni casi, ai
membri del gruppo vengono assegnati ruoli specifici, in particolare quello di “mae-
stro” o “spiegatore” e quello di “allievi” (FGMat4/24-26). In tutti i casi, si cura con
particolare attenzione la valutazione, esplicitandone i criteri e inserendo qualche dis-
positivo che stimoli a creare nel gruppo un senso di interdipendenza positiva. Nel
caso descritto da P. (IntMe5), al termine del lavoro viene richiesto ai membri di cia-
scun gruppo un ritorno riflessivo sull’esperienza, su come si è lavorato insieme, e
questo consente di facilitare lo sviluppo consapevole di abilità sociali.
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3.6.2. Proporre forme di tutoraggio tra pari, prevalentemente a coppie
Già nelle esperienze di gruppo descritte sopra, soprattutto quando i gruppi
sono eterogenei, si attivano forme di aiuto tra pari. Molti formatori ricorrono anche
a forme strutturate di peer tutoring a coppie, trovando questa forma di raggruppa-
mento più gestibile del piccolo gruppo:
in seconda, ci sono tutte queste formulette (IntVr1/88), che, se non si imparano, non si va
avanti; quindi, per l’ennesima volta, si fa il ripasso, lo schema alla lavagna: “Avete fatto
questo, questo, questo...; per fare questo, cosa vi serve? Per applicare questa regola a
colpo d’occhio...” (IntVr1/90). “Come faccio ad avere il colpo d’occhio? Cosa signi-
fica?” (IntVr1/91). Non so, si enuncia la regola: “La differenza del quadrato”, “Come dif-
ferenza?”, “Meno – allora nell’esercizio ci sarà una lineetta che sta per ‘meno’ – di qua-
drati, che sarà una potenza alla seconda”; allora, faccio un esempio, questo potrà essere
un quadrato, perché ho individuato questa regola, ora impariamo a memoria questa
regola; qui sono molto spiccia, perché è meccanico, quindi: “Vedete? Non è possibile
dire ‘non riesco a farlo’, perché è una cosa meccanica: la studio, la so a memoria e poi
magari la so anche fare; me la ritrovo anche dopo”. Questo li allena ad essere abbastanza
costanti nel dire e nel fare; [...] lo avevo fatto già un bel po’ di volte, e quelli “bravi”
arrivano ad un certo punto che sono stufi, mentre altri non sanno ancora di che cosa sto
parlando o quale sia l’argomento...; allora ho preparato una scheda a casa, ne ho data una
per ciascuno, li ho divisi [...], mettendoli a coppie, ho messo uno bravino, con uno che è
un po’ più in difficoltà (IntVr1/94). Ho detto: “Scegliete voi”; se la coppia andava, ho
detto “Ah bene...!”, perché spesso si mettono i due bravi e allora ho detto: “Qua non fun-
ziona”, e hanno accettato di buon grado, e ho detto: “Bravo! Tu sarai il prof di Matteo.
Domani mattina Matteo sarà interrogato, quindi guarda che hai una grossa responsabi-
lità!”, e così hanno lavorato (IntVr1/96). “Tu adesso questo lo sai fare, perché lo abbiamo
fatto un sacco di volte; ora io ti do questa scheda, sono degli esercizi, cerca di farli fare a
Matteo, magari tu trovi una strategia diversa dalla mia, gli fai studiare la regola...”
(IntVr1/98). Il giorno dopo c’era il compito; ad un certo punto lui mi ha detto: “Prof,
questo qua è proprio duro, non capisce niente!”, e io (ride): “Ne so qualcosa!”
(IntVr1/100); ...ho messo Matteo, che è uno dei ragazzi che ha più problemi, con Dennis,
che è bravissimo ma assai problematico; con me funziona, perché è bravo in matematica,
ma nelle altre materie ha problemi proprio con tutti i prof, e allora Matteo ha accettato il
ruolo, altrimenti Dennis gli dice: “Guarda che ti picchio, ti bastono...” (IntVr1/102),
perché ha sempre questo modo di fare [...]; non lo ha mai fatto, però i ragazzi lo
temono... (IntVr1/104); [...]. Quindi Matteo ha dovuto accettare [...]. Comunque non
sempre si può agire così (IntVr1/106) [...]. Ci sono tanti esercizi da svolgere; in genere
lavorano con il compagno di banco, perché si confrontano [...] (IntVr1/112);
ci sono altre metodologie, ad esempio l’aiuto tra pari (IntVr3/87); dopo aver fatto un’e-
spressione (alla lavagna), dico: “Bene, adesso provateci voi!”; [...] qualche volta cambio i
posti [...] altre volte li lascio così come sono (IntVr3/91); il lavoro di gruppo [...] spesso è
ingestibile, però spesso propongo il lavoro tra pari, a coppie, uno bravo e uno meno bravo.
Non faccio pesare il discorso del “meno bravo”, perché vedo che qualcuno psicologi-
camente si demoralizza; allora racconto sempre delle mie superiori: io andavo male in ita-
liano, alle superiori, però – fatalità – andavo bene in ragioneria e matematica; allora, con
la mia amica, avevamo fatto questo patto durante l’anno: io aiutavo lei in matematica e
ragioneria, andavo anche a casa sua, e lei mi aiutava in italiano: “Così dovete fare anche
voi!”. Allora ho detto oggi a Mattia: “Senti Mattia, fa una cosa, fatti aiutare un po’ da
Francesco”. “Francesco, è vero che hai bisogno di un aiuto per italiano?” e l’altro: “Sì, sì,
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ho bisogno, se mi vuoi aiutare”; altrimenti è demoralizzante per alcuni sentirsi, come dire,
“accuditi” dal “più bravo”; l’aspetto psicologico è fondamentale. Ecco, ho visto che
l’aiuto tra pari ha sortito buoni risultati. Comunque io ci sono; oggi, ad esempio, ho fatto
l’aiuto tra pari e quindi sono stata con Nicola, perché Nicola aveva avuto serie difficoltà,
allora mi sono fermata e ho fatto con lui un esercizio (IntVr3/93). (Assegno un esercizio e
chiedo di svolgerlo) in coppia; dopo, quando lo hanno svolto, chiedo intanto se il risultato
è corretto. Se è corretto per tutti, è inutile andarlo a svolgere alla lavagna; facciamo l’eser-
cizio successivo; se c’è invece una coppia che ha trovato difficoltà, chiedo la correzione;
di solito, se io sto aiutando qualcun’altro, chiedo alle più bravine di andare alla lavagna a
correggere, in modo tale da riuscire a controllare un po’ tutti nello stesso tempo; cerco di
avere alla lavagna qualcuno che non abbia eccessive difficoltà nello svolgimento degli
esercizi; contestualmente, chiedo alla compagna che è alla lavagna di dire quali sono i
passaggi più difficili, dove potrebbe esserci un errore; chiedo poi alla coppia di control-
lare: “Ma dove avete sbagliato?”. Sono sempre i soliti errori (IntVr3/95).
F. (IntVr1) assegna degli esercizi a coppie di allievi e investe uno dei due della
responsabilità di preparare il compagno all’interrogazione. Anche MR. (IntVr3)
trova utile attivare forme di aiuto tra pari e, nel suo racconto, evidenzia anche la
possibilità di assegnare lavori alle coppie, in modo da avere il tempo di seguire in-
dividualmente singoli alunni con particolari difficoltà.
Alcuni formatori attivano gruppi di studio, anche al di fuori dell’orario scola-
stico, o stimolano il confronto e lo scambio dei quaderni tra compagni:
ad alcuni ragazzi che non riescono a prendere appunti o lo fanno male, è utile fargli
vedere cosa sta facendo il compagno, [...] perché, se lo faccio io, è una cosa – “Va beh, tu
sei l’insegnante e tu lo sai fare” – ma, se è un compagno e magari non quello che ha 10
in matematica ma un compagno normale, è diverso: “Se riesce a farlo lui, perché non
devo farlo io?” (IntMe2/138);
ogni tanto cerco di organizzare i cosiddetti gruppi di studio [...] per i più volenterosi [...]
(IntPd1/32); [...] abbiamo la possibilità di rimanere qui il mercoledì o il venerdì; i ragazzi
lo sanno, quindi ogni tanto viene chiesto loro se desiderano fermarsi (IntPd1/34); [...]
(fanno) i compiti insieme, magari uno bravo e due meno bravi; [...] proprio il mese
scorso ho avuto la sorpresa di una seconda in cui avevo chiesto cortesemente alla più
brava se poteva seguire e preparare i compagni “meno bravi”, diciamo così, per la veri-
fica [...] e lei stessa mi aveva chiesto degli esercizi in più; io avevo dato altri esercizi,
tanto che, alla fine, il giorno successivo, è venuta a dirmi: “Prof, è andato tutto bene,
siamo riusciti a fare tutti quegli esercizi!” [...] (IntPd1/36);
(importante) è capire come loro vivono la matematica e che difficoltà hanno (IntMe2/94);
questo comporta far loro fare diversi esercizi, che io scrivo alla lavagna e che poi seguo,
girando per i banchi, controllando quello che stanno facendo; solitamente, individuato un
gruppetto di ragazzi più abili nella matematica, [...] cerco di mettere i ragazzi che fanno
più fatica [...] (IntMe2/96), quelli che arrancano, accanto a quelli che invece fanno molto
bene (IntMe2/98); [...] ci sarà il momento dell’esercizio fatto individualmente e poi un
momento in cui si interagisce a coppie e il compagno dà una mano (IntMe2/100); [...]
vedo che in classe nascono delle relazioni positive [...], che un ragazzo capisce bene
quando segue le indicazioni date dal proprio compagno di banco; poi vedo che si fermano
a fare gli esercizi insieme anche il pomeriggio e questo è interessante (IntMe2/104);
faccio questa attività, dopo la prima verifica, quando vedo un po’ i voti, vedo come
stanno andando le cose (IntMe2/106).
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11 Particolarmente felice, nella critica ad un certo modo di proporre la matematica in classe, ba-
sato sull’esecuzione sterile di esercizi, è Paul Lockhart (2010): «è [...] sconfortante vedere ciò che si
sta facendo della matematica a scuola. Questa ricca ed affascinante avventura dell’immaginazione è
90
Quelle descritte sopra sono tutte pratiche tese ad attivare forme di coopera-
zione e di aiuto reciproco tra pari che, oltre a favorire l’apprendimento di ciascuno,
incidono positivamente sul clima di classe e sulla qualità complessiva dei rapporti.
3.7. Concludere la lezione in modo colloquiale
Come l’avvio, anche la conclusione di una unità di lavoro risulta essere un mo-
mento particolarmente importante. In molte attività descritte, la conclusione rap-
presenta il tempo in cui tirare le fila di quanto si è fatto, proponendo o facendo fare
dei brevi sommari dei vari passaggi sviluppati durante la lezione:
concludo proponendo loro di fare un breve sommario di quanto abbiamo fatto in classe
(FGMat2/226);
loro sanno che [...] io finisco sempre qualche minuto prima (IntPd1/54), lasciando loro
il tempo per ripassare per l’ora successiva – se magari [...] hanno la verifica – o, sempre
se hanno la verifica, addirittura li faccio già sistemare, guadagnando tempo; è raro che
abbia spiegato fino al suono della campanella; [...] quando è venerdì, tendo a chiedere
loro [...]: “Avete organizzato il pomeriggio? Un po’ di studio e un po’ di svago” [...]; si
tratta cioè di una conclusione, diciamo, un po’ più attiva, non pesante (IntPd1/56).
Nel caso raccontato da M. (IntPd1), la conclusione si svolge secondo un regi-
stro relazionale analogo a quello che avevamo visto alcuni docenti utilizzano in
fase di avvio e gli ultimi minuti sono dedicati ad una sorta di decompressione che
predispone all’ora successiva o al commiato.
4. FAR FARE ESERCIZI INTELLIGENTEMENTE
La maggior parte dei formatori sono concordi nell’affermare che l’apprendi-
mento della matematica passa dal misurarsi con esercizi da risolvere in classe, in
piccolo gruppo o da soli, armati di carta e penna. Riportiamo una delle tante affer-
mazioni che vanno in questo senso:
sul tempo di lavoro in un anno, l’80% è dedicato agli esercizi (IntMe2/178).
Gli esercizi fanno normalmente parte dell’organizzazione di una lezione di mate-
matica, ma appaiono un elemento talmente rilevante da meritare una trattazione
specifica. Gli esercizi vanno infatti proposti “intelligentemente”, senza ridurli ad
uno sterile e scontato lavoro di memorizzazione e di applicazione di formule e pro-
cedure e senza spegnere quell’impulso problematico che è il fondamento stesso
della conoscenza matematica (Arendt, 1965, p. 43)11. Gli esercizi intelligenti sono
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in particolare quelli «...aperti all’interpretazione e non “chiusi” alla sola applica-
zione di conoscenze» (Fabbrichesi Ceccarelli 1994, p. 193). Vedremo nei paragrafi
che seguono come i nostri formatori riescono in questo.
4.1. Far lavorare alla lavagna
Il lavoro alla lavagna è una delle classiche strategie di insegnamento-apprendi-
mento a cui fanno ricorso tutti i docenti, ma forse, in particolare proprio quelli di
matematica. La lavagna – quella di ardesia o quella a pennarelli, più che la LIM12 –
viene utilizzata per costruire dimostrazioni o mostrare esempi, ma anche per far
fare esercizi e sviluppare dimostrazioni. Ciò che fa la differenza è l’utilizzo atti-
vante che, come abbiamo visto anche sopra, generalmente i nostri formatori fanno
di questo classico strumento.
4.1.1. Far “venir fuori” alla lavagna
Non c’è quasi docente che non solleciti i suoi allievi ad “uscire alla lavagna” e
non solo per la tradizionale interrogazione, ma anche semplicemente per svolgere e
risolvere degli esercizi. Nei racconti sono però molteplici le sfumature che pos-
siamo cogliere e che rendono il ricorso a questa classica modalità di lavoro tut-
t’altro che sterile ripetizione:
tutto quello che si fa in matematica è associato alla parte degli esercizi; ne facciamo
spesso. Alcuni li faccio io, come modello, e loro seguono. Dopo, quando vedo che c’è
già uno pronto – si capisce subito chi è pronto –, dico: “Vieni fuori tu”, perché difficil-
mente loro si offrono; allora uso lui come modello per gli altri (IntVr1/32);
parlo pochi minuti, proprio per introdurre l’argomento, e poi loro incominciano a venire
alla lavagna per fare degli esercizi, ovviamente semplici, su quel determinato argomento.
Magari la prima volta sono timorosi, poi, a forza di venire, [...] si fanno più temerari,
diciamo così; in linea di massima, riescono ad ottenere dei buoni risultati, però a lungo
termine [...] (FGMat2/205);
stata ridotta a una sterile sequela di dati da memorizzare e di procedure da seguire. Invece di una
domanda semplice e naturale su alcune figure, invece di un processo creativo e gratificante di inven-
zione e scoperta, agli studenti viene offerto questo: “L’area di un triangolo è uguale alla base per l’al-
tezza diviso due”. Agli studenti è richiesto di imparare a memoria questa formula per poi “applicarla”
di continuo negli “esercizi”. Addio all’eccitazione, alla gioia, persino al dolore e alla frustrazione del-
l’atto creativo! La domanda è stata formulata e nello stesso tempo è stata fornita la risposta: allo stu-
dente non rimane niente da fare» (Lockhart, 2010, p. 24); «Non pochi studenti laureati hanno mollato
tutto quando hanno scoperto, dopo che per un decennio era stato ripetuto loro che erano “bravi in ma-
tematica”, di non avere in realtà alcun vero talento matematico ma di essere solo bravi a eseguire le
istruzioni. La matematica non significa eseguire delle istruzioni: vuol dire creare istruzioni nuove»
(ibid., p. 26). Meno felice, a nostro avviso, risulta questo autore nella sua proposta che critica forte-
mente qualsiasi valore d’uso alla matematica, considerata solo alla stregua della creazione artistica e
del gioco, sganciati dalla realtà.
12 Nonostante in questi ultimi anni, la sede nazionale del CNOS-FAP abbia investito nell’intro-
duzione nei CFP di LIM (Lavagne Interattive Multimediali) (cfr. Tacconi, 2009b), nessuno dei do-
centi intervistati accenna di farne uso.
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li chiamo fuori, alla lavagna, mentre io o sono in cattedra o giro tra i banchi (IntMe6/20);
[...] questo li coinvolge e loro sono comunque abbastanza sereni, perché sanno che non
sono valutati in quel momento [...]; è un po’ un ripasso, nel senso che è l’occasione per
loro di vedere dove effettivamente non sanno e per me anche l’occasione di far parlare
qualcuno che a volte rimane un po’ isolato (IntMe6/14); [...] di solito comincio con qual-
cuno che so che posso un po’ “massacrare”, poi si offrono loro, nel momento in cui
vedono che il compagno non sa o è in difficoltà, ma con tranquillità, nel senso che non
c’è rivalità [...] (IntMe6/18);
entro in classe, spiego quello che devo spiegare, comincio a fare esercizi, poi chiamo
fuori loro a fare degli esercizi senza voto, per verificare immediatamente se hanno capito
o non hanno capito [...]; già per il fatto di poter uscire in modo assolutamente libero
– non è che chiami io; chi vuole esce –, un certo numero di persone viene coinvolto. Poi
ci sono quelli che [...] non si fanno assolutamente scalfire dalla cosa e rimangono al loro
posto; allora, il giorno dopo richiedo se è tutto chiaro, eventualmente faccio uscire an-
cora qualcuno a fare esercizi, dopo di che [...] dico loro che a casa devono rifare quello
che è stato fatto in classe; [...] rifare due o tre esercizi fatti in classe, nell’arco di due o tre
giorni, prima della lezione successiva, può voler dire cercare di rivedere in modo critico
quello che è stato fatto; dico loro: “Se l’esercizio vi viene, vuol dire che siete a posto. Se
non vi viene, venite e chiedete”; può capitare che uno non lo faccia lo stesso, oppure mi
dica: “Quando lei spiega in classe, lo capisco, poi arrivo a casa e mi dimentico”; molti
hanno problemi di memoria, allora anche per casa assegno dei compiti, in prima battuta,
abbastanza semplici, in modo tale che l’esercizio riesca, poi compiti leggermente più
complessi e così via [...] (IntMi6/46).
Lo schema è abbastanza ricorrente: ad una breve spiegazione del docente, che
propone anche qualche esempio di risoluzione corretta di un esercizio, che magari
viene trascritto dagli allievi sul proprio quaderno, segue la possibilità di “uscire alla
lavagna”. In questa pratica, sono varie le attenzioni relazionali volte a far vincere
timidezze e ritrosie. Alcuni docenti all’inizio invitano uno di quegli allievi che in-
tuiscono possa farcela (“si capisce subito chi è pronto” – IntVr1/32) o che sanno es-
sere meno inibito (“uno che so di potere un po’ ‘massacrare’...” – IntMe6/18), altri
fanno uscire liberamente chi desidera. Durante l’esecuzione dell’esercizio alla la-
vagna, alcuni docenti si spostano dalla cattedra e girano tra i banchi. L’esercizio
alla lavagna non viene caricato di ansie da valutazione, serve agli allievi per veri-
ficare se hanno capito e al docente per capire cosa e come gli allievi hanno capito
ed eventualmente per chiarire alcuni passaggi che rimangono oscuri. I docenti
seguono un criterio di gradualità, proponendo esercizi all’inizio semplici e progres-
sivamente più complessi. R. (IntMi6) propone ai suoi allievi di rifare a casa gli
esercizi visti in classe.
4.1.2. Far innanzitutto osservare e solo dopo scrivere “cosa vedono”
MR. (IntVr/3), formatrice nel CFP salesiano di Verona, ci racconta della diffi-
coltà che gli allievi hanno nell’affrontare operazioni complesse e del dispositivo
a cui ha trovato utile ricorrere: far innanzitutto osservare attentamente il testo
di un’espressione matematica e far poi scrivere le varie componenti individuate.
Vediamo qui di seguito il suo racconto:
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parto da un caso semplice, un’interpretazione teorica, e poi si ritorna su un caso un po’
più difficile; poi ci sono gli esercizi, che sono la sintesi di più regole, per esempio, un’e-
spressione algebrica con tutti prodotti notevoli. Loro hanno difficoltà a mettere insieme
le conoscenze. Se io dico: “Sviluppami il quadrato del binomio (3a+b)2”, loro lo sanno
fare; se invece do un espressione con il quadrato del binomio, il quadrato del trinomio e
la differenza di due quadrati, tutto quanto insieme, non riescono a farla (IntVr3/43); una
per una sanno fare tutte le operazioni, a mettere insieme le competenze hanno difficoltà,
[...] nel senso che si arrendono subito, non provano neanche [...]. Allora ho studiato un
modo per sbloccarli, perché loro vedono tutta l’espressione scritta alla lavagna molto
lunga e dicono: “no, non ci riusciremo mai! Troppo difficile! Troppe cose insieme! Non
ci ricordiamo”; [...] io scrivo l’espressione alla lavagna e dico: “Bene, giù le penne.
Adesso state tranquilli e osservate cosa c’è alla lavagna. Un minuto di osservazione
senza scrivere. Guardatela! Cosa vedete?”. “Un’espressione”. “Perfetto, ma, all’interno
dell’espressione, cosa vedi?”. “Io vedo che c’è il quadrato di un binomio”. “Bene, al-
lora, sotto, scrivo ‘quadrato di un binomio’, ‘differenza di un quadrato’, ma poi cosa
vedi ancora?”, chiedo ad un altro. “C’è il cubo”. “Benissimo, scriviamo che c’è il cubo”
(IntVr3/45). “Cosa vedo?”. Vedono una serie di regole, le identifico, le sottolineo, uso
anche i gessi colorati, [...] e individuo, segno le regole che sono implicate, quelle che
loro vedono. Dopo che hanno analizzato tutto il testo dell’espressione o del problema,
dico: “Bene, ma voi il quadrato lo sapete fare?”. “Sì!”. “Allora svolgiamo il quadrato,
iniziamo dal quadrato, poi a questo uniamo il cubo, che avete visto, poi uniamo
questo...”. Poi faccio fare un’ulteriore sosta, sempre per l’osservazione: “Quali sono gli
errori che si possono commettere svolgendo questo tipo di operazione, questo tipo di
esercizio?”. Il primo errore è quello di segno – li sbagliano sempre! [...] –; il secondo
tipo di errore è quello di trascrizione – errori che si commettono abitualmente, perché si
ha fretta di finire; loro hanno fretta di consegnare, hanno fretta di terminare il problema
–; dopo [...] c’è l’errore di calcolo, perché si è distratti: c’è chi mi scrive 3x2 = 5 e allora
dico: “Scusami, basta un attimo di attenzione, no!”; poi c’è l’errore nell’applicazione
della regola, però loro, in un certo senso, le regole le studiano; si tratta di metterle
insieme tutte quante e di non fare quegli errori [...] banali, che sono dovuti a distrazione,
a mancanza di attenzione. Faccio controllare loro passaggio per passaggio; ogni
passaggio che fanno devono controllare, perché, se arrivano fino in fondo di getto,
dopo, non riescono più a trovare dove sta l’errore (IntVr3/49). Scrivo l’espressione
(IntVr3/51); do un minuto di osservazione (IntVr3/53); possono parlare solo dopo il
primo minuto (IntVr3/61); ad esempio, vedono il quadrato del binomio? Benissimo, al-
lora sottolineo o cerchio il quadrato del binomio e scrivo sotto: “quadrato del binomio”.
Una difficoltà che hanno loro è che non sono abituati ad osservare (IntVr3/55). Dopo
l’individuazione descrittiva delle regole (IntVr3/69), c’è un’altra sosta, che è quella
degli errori: chiedo quali sono gli errori che ci possono essere (IntVr3/71); quando
io sono alla lavagna e svolgo l’esercizio, loro non possono assolutamente scrivere sul
quaderno; questo lavoro lo faccio fare qualche volta [...] a quelli che chiamo fuori
(IntVr3/73). Però, quando lo faccio io, loro non devono ripetere (IntVr3/75), lo fac-
ciamo insieme (IntVr3/77); quando vedo che c’è più gente che interviene, devo fermare
i più bravi, perché altrimenti non riesco a capire qual è la difficoltà (IntVr3/79); dico:
“Bene, il quadrato di un binomio. Ci sono tre termini, uno lo dice Erica, uno lo dice
Serena, uno lo dice Nicolò!”; [...] in un’espressione di solito ci sono varie di possibilità
di intervento; cerco di frenare i più bravini, che tenderebbero a sopraffare; (altrimenti)
non riuscirei a capire dove sta la difficoltà (IntVr3/81); se abbiamo individuato che c’è
prima il quadrato e dopo il cubo (IntVr3/83), dirò: –”Facciamo prima il quadrato. Bene,
che segno mettiamo, fra i due?”. “Il più”. “Se mettiamo il meno, questo meno cosa ci
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deve dire?”; allora chiamo un altro: “Cosa ci dice questo meno?”. “Che dobbiamo cam-
biare i segni dopo”. “Bene, teniamocelo a mente. Metto la freccetta sotto il meno che mi
indica in che zona mi fermo, perché c’è quel meno che mi dice che dopo devo cambiare
segno. Ora prendiamo il cubo...”, e si va avanti così con il resto delle regole, a seconda
di quanto è lunga l’espressione. Poi un’ulteriore sosta: “Abbiamo guardato. Ci sono
degli errori?”. Qualche volta li commetto anch’io, perché, a forza di scrivere, sbaglio un
segno e loro se ne accorgono subito. Ma perché se ne accorgono? Perché non stanno
scrivendo, perché, se scrivessero, copierebbero; invece, così, guardano. Alcune volte lo
faccio di proposito, altre invece scambio il più e il meno per la fretta di scrivere ed è
bello che loro se ne accorgano; però, se ne accorgono perché non stanno scrivendo ma
osservando e questo fino alla fine dell’espressione (IntVr3/85) [...]. I problemi che
riscontro [...] sono con i calcoli, per mancanza di attenzione e per distrazione; è per
questo che applico la tecnica che non devono assolutamente scrivere e devono guardare
(IntVr3/228).
La difficoltà degli allievi, sembra dire MR. (IntVr3), emerge quando essi si tro-
vano davanti ad un’operazione complessa. Sanno svolgere tutte le operazioni,
quando si presentano singolarmente, ma, davanti ad un’operazione complessa, si
scoraggiano, “si arrendono”, si bloccano, convinti come sono di non potercela fare.
Ecco allora la strategia “per sbloccarli” dall’impasse: far osservare attentamente
l’espressione scritta alla lavagna, lasciando le penne sul banco. Si tratta di invitare
gli allievi a sostare con lo sguardo sull’espressione, senza la fretta di prendere la
parola o di copiare ciò che l’insegnante, in quel momento, sta scrivendo alla la-
vagna. Successivamente, l’insegnante guida un’esplorazione approfondita dell’e-
spressione, attraverso una serie di domande che aiutino ad individuare gli elementi
di cui l’espressione stessa si compone e le relazioni indicate dai segni. Questi ele-
menti vengono evidenziati sul testo dell’espressione con dei gessi colorati e scritti
in basso, sotto il testo dell’espressione stessa, in una sorta di elenco delle opera-
zioni contenute nell’espressione. In questo modo, il linguaggio matematico viene
tradotto in linguaggio corrente, “descrittivo”. Anche nel racconto di MR., come in
quelli dei suoi colleghi che abbiamo visto sopra, notiamo che la conversazione
viene condotta con specifiche attenzioni relazionali: dare la parola al maggior nu-
mero possibile di allievi consente, pragmaticamente, di stimolare tutti gli allievi a
prendere la parola, frenando i più esuberanti ed incoraggiando i più timidi. Ma
questo permette anche all’insegnante di farsi un quadro più preciso dell’avanza-
mento nel processo di apprendimento e di diagnosticare tempestivamente l’emer-
gere di eventuali difficoltà. Lo stesso procedimento – sosta osservativa e conversa-
zione riflessiva – viene attuato una volta che l’esercizio sia stato terminato. Si tratta
di aiutare gli allievi ad individuare eventuali errori, ripercorrendo passaggio per
passaggio l’espressione svolta. MR. ci offre, nel suo racconto, una vera e propria
fenomenologia dell’errore: errori di segno, di trascrizione, di calcolo, di applica-
zione della regola. In questo modo, l’errore – anche quello eventualmente com-
messo dal docente – viene riconosciuto e valorizzato come ulteriore fonte di ap-
prendimento.
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4.1.3. “Ripescare”: quando l’esercizio alla lavagna serve per potenziare
Talvolta, l’esercizio alla lavagna assolve anche ad una funzione “sociale”, nel
senso che incide sul contesto, in particolare sul gruppo classe, e su come i soggetti
sono percepiti dagli altri e si percepiscono. Ecco gli esempi che ci propone F.
(IntVr1):
quando devi andare a recuperare delle operazioni (IntVr1/20), lo devi fare con l’esercizio
alla lavagna (IntVr1/22); [...] dico: “Vieni tu, che mi sembra che lo hai risolto in modo
diverso!”. Mi capita spesso; magari io tendo a risolvere sempre le cose attraverso una via
molto “matematica”, mentre loro sono più creativi: “Sì, è vero questo può essere..., dai,
vieni, spiegami, perché io non l’ho capita così!” (IntVr1/32) [...]. Quando si fanno eser-
cizi alla lavagna, quelli dal posto stanno lì passivi, aspettano che il compagno (o i com-
pagni) che sono alla lavagna svolgano (l’esercizio) e poi copiano, ammesso che seguano;
alla lavagna faccio le correzioni, pensando che arrivino a tutti, però non sempre è così;
bisogna fare anche quello, per abituare a rispettare l’altro e il fatto che non tutti hanno la
stessa lingua, gli stessi tempi, e, quando fai lavorare gente alla lavagna, entra in gioco
anche un po’ l’aspetto che io chiamo di “insicurezza e bullismo”; tendono un po’a pren-
dersi in giro; a volte bisogna stare attenti a questo fattore, perché io so chi sono quelli
che fanno un po’ fatica a fare i calcoli e ad esprimersi e sono presi di mira in quel caso
(IntVr1/116); [...] allora devi “ripescare”: non è più l’esercizio di matematica, bensì un
esercizio perché lui possa parlare bene, esprimersi com’è capace, per non dire di qual-
cuno che è anche balbuziente; allora, evito di farlo andare alla lavagna [...] e mi dispiace
sinceramente; in quel caso, vado da lui e immediatamente gli correggo l’esercizio; c’è
molto bullismo, ma sono anche molto deboli, perché attaccano le debolezze altrui per na-
scondere le proprie e da lì non si salva nessuno; ognuno ha le sue [...] (IntVr1/118). Non
sempre utilizzo la lavagna; preferisco dare un lavoro individuale o a coppia e girare tra i
banchi; perdo un po’ più di tempo, però vedo quel che succede; è una cosa che faccio,
appunto per farli stare calmi; una volta che abbiamo corretto, facciamo anche la corre-
zione alla lavagna [...] e dico: “Guardate che non devo passare banco per banco”; poi la
volta successiva (è importante) chiedere la raccolta del materiale [...] (IntVr1/120).
Le strategie che mette in atto F. (IntVr1) sono accomunate prevalentemente
dall’intento di potenziare i soggetti in apprendimento. In certi casi, l’invito ad
uscire alla lavagna serve a riconoscere e a valorizzare i processi di ragionamento
proposti dagli allievi stessi, anche se (o soprattutto se) diversi da quelli “canonici”.
In altri, l’invito ad uscire serve semplicemente a “ripescare”. È questo il termine
che F. utilizza per esprimere il suo modo di agire di fronte a quelle situazioni, che
talvolta capitano, in cui un allievo con qualche difficoltà a fare calcoli o ad espri-
mersi, viene “preso di mira” e dileggiato dai compagni. In questo caso, ci racconta
F., l’esercizio di matematica serve più che altro per mettere in grado l’allievo di
“parlare bene, di esprimersi come è capace” e per modificare quindi l’immagine
che i compagni hanno di lui, che diventa poi anche l’immagine negativa che lui
stesso si costruisce di sé. E, quando un ragazzo incorpora un’immagine negativa di
sé, rischia di “affogare”. Da qui l’esigenza di ripescare. Ma le strategie del ripe-
scaggio possono essere diverse: in alcuni casi, il potenziamento avviene rinun-
ciando a far uscire un ragazzo alla lavagna e assegnando esercizi da svolgere indi-
vidualmente o in coppie. Adottando una modalità di questo genere, oltre a intro-
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durre opportunamente un elemento di variabilità – esercizio svolto alla lavagna da
un allievo, con i compagni che assistono più o meno attivamente, alternato con
esercizi da svolgere da soli o in coppia –, può esercitare l’azione potenziante avvi-
cinandosi ai singoli, offrendo loro un supporto o esprimendo attenzione e ricono-
scimento anche correggendo immediatamente il loro lavoro.
4.1.4. Indicare piccoli stratagemmi
Talvolta, la didattica è fatta anche di piccoli espedienti scoperti personalmente
e suggeriti agli allievi per superare qualche ostacolo di comprensione. Ecco un
esempio:
un altro argomento sono i numeri relativi. Ci sono ragazzi che si portano dubbi fin dalle
elementari e se li tengono fino a quando diventano anziani. Allora, l’unica cosa che ho
trovato, se c’è una somma di cinque e sei numeri relativi, è l’utilità di far sommare tra
loro tutti quelli con il segno “più” e tutti quelli con il segno “meno”; poi dico: “Fai la
somma normale: quali sono i numeri più grandi? I ‘più’ o i ‘meno’?”. “I meno”. “Allora
nel risultato ci sarà il ‘meno’...”. “Quali sono i più grandi?”. “I più”. “Allora nel risultato
metti il ‘più’...”. Quelli che riescono ad avere la pazienza di seguire questo procedimento
acquisiscono un modo sicuro per non sbagliare; altrimenti, gli errori sono frequentissimi
[...] (FGMat2/149).
P. (FGMat2/149) sa che, per insegnare, talvolta, è necessario ricorrere anche a
qualche “mezzuccio” come quello descritto nell’esempio. Non sono passaggi riso-
lutivi per la comprensione, ma spesso sono dispositivi utili ed efficaci, che una
volta memorizzati è difficile dimenticare.
4.2. Partire da un esercizio e giungere alla regola
Per quanto la matematica sia una scienza prevalentemente deduttiva, alcuni
docenti trovano utile un procedimento che, in un certo senso, potremmo definire in-
duttivo, a partire da un esempio, per lo più pratico, per giungere alla regola:
parto sempre da un esercizio (IntVr3/41); [...] ad esempio, “il quadrato del binomio”:
vado alla lavagna e dico: “(a+b)2: lo svolgimento tecnicamente è questo; qual è il primo
termine?”. “a”. “Qual è il secondo?”. “b”. “Allora, a2+b2, faccio il doppio prodotto. Cosa
vuol dire faccio il doppio prodotto?”, ma faccio questo senza che loro scrivano; mi de-
vono solo guardare e cercare di capire quello che dico; non si devono distrarre [...]. “Al-
lora, a2+b2+2ab. Perfetto, avete capito il meccanismo?”. “Sì”. “Bene, adesso scriviamo
la definizione sul quaderno di teoria: il quadrato del binomio sarà uguale al quadrato del
primo termine più il quadrato del secondo termine più il doppio prodotto del primo per il
secondo termine. Bene, ora riportate (sul quaderno) l’esercizio che c’è alla lavagna.
Avete compreso?”. Loro mi dicono di sì. “Ora, questo è (a+b)2. Adesso facciamo (3a-b)2
e poi con livelli sempre (IntVr3/15) più complessi, fino ad arrivare alle frazioni e via di
seguito. [...] Così ho fatto per il cubo; così ho fatto per il quadrato del trinomio; così
faccio con tutte le regole. (Quindi) [...] faccio scrivere la definizione sul quaderno di
teoria: “Riporta sul quaderno di teoria ciò che è scritto alla lavagna”; [...] questa è pro-
prio una regola: non voglio che contemporaneamente mi ascoltino e scrivano, perché
dico: “Io non riesco a fare due cose in contemporanea! E immagino nemmeno voi! Per
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cui o mi ascoltate o scrivete. Allora, quando io parlo, guardate solo la lavagna, non
toccate né la penna né i quaderni”. Dopo, quando è il momento di scrivere, dico: “Bene,
avete due minuti, riportate sul quaderno in silenzio” [...]; poi, dalla teoria, con l’eser-
cizio-tipo, passo ad una serie di esercizi che loro svolgono sul quaderno di matematica, a
batteria, fin quando non entra loro in testa (IntVr3/17);
spiego schematicamente, in modo che loro prendano appunti, oppure faccio degli esempi
alla lavagna e loro devono cercare sul libro che [...] proprietà sto usando (IntVr8/2); se
devo spiegare [...], ad esempio, la proprietà commutativa, scrivo: “7+6 = 6+7”. Bene, il
risultato della prima è uguale al risultato della seconda ecc. (IntVr8/4); (devono indivi-
duare sul libro) che proprietà sto usando, come si utilizza; prima do esercizi, esempi fa-
cili, poi man mano inizio a farne di più difficili, un pochino più complicati; aggiungo [...]
parentesi, altre operazioni (IntVr8/8).
Nell’esempio, MR. (IntVr3) sta spiegando il quadrato del binomio. Non siamo
ancora alla ricerca di una spiegazione, di un perché di ciò che si esprime nella for-
mula algebrica. M. sa che non tutti i suoi allievi arriveranno a scoprirlo o ad apprez-
zare l’eleganza della formula (a+b)2 = a2+2ab+b2, ma cerca che tutti riescano in-
nanzitutto ad eseguire correttamente il procedimento, anche con altri binomi. Osser-
vando attentamente il procedimento e riflettendo su quanto esemplificato alla la-
vagna (la scrittura sul quaderno dopo la spiegazione offre proprio questo tipo di ral-
lentamento riflessivo), i ragazzi possono arrivare a formulare la regola e forse anche
ad intuirne il perché. Con un procedimento analogo, M. (IntVr8) propone degli
esempi e orienta a ricercare sul libro di testo la regola o la proprietà a cui l’esempio
si riferisce. Come giustamente afferma Gabriele Lolli, riguardo alla scienza matema-
tica, «...le definizioni non devono stare necessariamente all’inizio del percorso di
ricerca; le definizioni si trovano dopo aver fatto delle esplorazioni e dei tentativi su
qualcosa di cui si aveva solo qualche intuizione parziale» (Lolli, 2009, p. 132).
Si tratta di un procedimento simile a quello che sono soliti utilizzare gli inse-
gnanti di area tecnico-professionale, nel laboratorio di tecnologia:
per far passare alcuni concetti di teoria abbastanza densi, complicati per loro, parto dal-
l’effetto contrario; guardiamo cioè il risultato finale sulla copia piuttosto che sui materiali
e io tento di far loro capire perché succede quella cosa... (IntMe6/96). Per esempio,
quando stampano e tu fai un rettangolino che è grigio al 50%, lo vai a stampare e ti
aspetti che sia grigio al 50%. In realtà, non è così, perché la macchina fisicamente, si
dice, lo “ingrossa”, quindi non stampi un 50%, ma stampi un 65%. I ragazzi si meravi-
gliano di questa cosa e allora ci si va a ragionare su (IntMe6/102). In laboratorio lo puoi
fare direttamente, perché hai lo strumento; loro hanno tirato fuori il foglio da lavoro io
dico: “Misuratelo” (IntMe6/106). Poi torna utile anche in classe, perché lo devi spiegare
a tutti: [...] porti il foglio, porti lo strumento, lo misuri e si apre anche un dibattito, perché
in quei momenti non è che fornisco la soluzione pronta (IntMe6/108); faccio scrivere alla
lavagna le loro ipotesi, [...] per far loro organizzare un po’ le idee; poi andiamo mano a
mano ad escludere quelle che non funzionano, fino a quando arriviamo al concetto finale
(IntMe6/112), che l’ingrossamento del punto di retino di questo manufatto è inevitabile,
nel senso che la macchina lo fa e lo fa sempre, lo fa a me che sono qui e lo fa anche in
Germania [...], quindi è una cosa universalmente accettata (IntMe6/118), il che non vuol
dire che non si possa tenere in qualche maniera sotto controllo; posso controllarlo, ma,
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siccome c’è, devo in qualche maniera gestirlo; e poi anche in questo caso ci sono delle
attrezzature che possono aiutare per gestire la cosa (IntMe6/120).
P. (IntMe6), che insegna Tecnologia a Mestre, nell’indirizzo per grafici, mostra
un fenomeno – in questo caso, un problema tecnico – oppure li mette a contatto con
il problema in laboratorio, attraverso l’esperienza diretta; non suggerisce subito la
soluzione ma orienta alla riflessione, al ragionamento, attraverso la discussione;
fa produrre ipotesi; guida a verificarne la validità attraverso prove; orienta ad una
sistematizzazione di ciò che si è scoperto. P. è facilitato, rispetto ai suoi colleghi di
matematica, perché ha a che fare con oggetti sensibili, mentre la matematica è più
legata alla ragione che ai sensi.
4.3. Mostrare tutti i passaggi
Un’altra attenzione che i nostri insegnanti assumono è quella di sviluppare tutti
i passaggi di una dimostrazione o di un’operazione matematica:
[...] quando svolgo un’espressione alla lavagna, faccio come se fossi uno studente che sto
cominciando a fare un esercizio [...] e svolgo tutti i passaggi, senza saltarne uno. Io mi ri-
cordo che una cosa che mi dava molto fastidio, quando ero studente, era che i docenti
saltavano dei passaggi. Io certe volte so che mi perdevo, perché non capivo perché da
una riga dell’espressione l’insegnante era passato ad un’altra, ad esempio. Allora io ho
detto: “Nei primi esercizi che faccio vedere ai ragazzi, faccio tutti i passaggi, come se
fossi uno di loro” (IntMe5/291).
Anche A. (FGMat4/10), che insegna a Roma, trova utile esplicitare il procedi-
mento e farne riportare fedelmente tutti i passaggi sul quaderno:
in una lezione di matematica, nel corso di grafica, dopo aver spiegato l’argomento e svolto
qualche esercizio alla lavagna, come esempio, ho chiesto ai ragazzi di scrivere un breve
dettato dal titolo “Indicazioni operative” e ho suggerito loro di riportare queste indicazione
su un quaderno, che sarebbe stato importante non perdere. Questo dettato, che doveva es-
sere necessariamente breve, era costituito non da calcoli, ma da semplici indicazioni opera-
tive; per esempio, sulle equazioni di primo grado, davo punto per punto tutti i passi che
avrebbero dovuto seguire; ad esempio: “dato il testo delle equazioni, spostare tutte le x al
primo membro e tutti i termini noti al secondo membro” – vado un po’a braccio –, “aperta
la parentesi: ogni volta che un termine oltrepassa l’uguale, cambia di segno”. “Punto due,
fare la somma algebrica dei termini al primo membro”. “Punto tre, fare la somma alge-
brica dei termini noti”. “Punto quattro, il coefficiente della x si sposta e va al denominatore
del termine noto al secondo membro” e così via. Doveva essere un dettato di non più di
cinque minuti, costituito da non più di cinque punti [...]. Dopo, chiamavo uno o più ragazzi
alla lavagna e nominavo un responsabile dal posto, che avrebbe dovuto [...] leggere punto
per punto il dettato, mentre il ragazzo alla lavagna svolgeva l’esercizio non completa-
mente, ma solo per il punto indicato, in modo tale che acquisissero dimestichezza nel leg-
gere gli appunti e nell’analizzare il problema punto per punto (FGMat4/10).
Il dispositivo è elementare, può sembrare addestrativo (e forse lo sarebbe, se
tutto l’insegnamento si limitasse a questo), ma risulta efficace per aiutare a memo-
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rizzare una tecnica e per infondere sicurezza. L’esperienza insegna inoltre a A. a
strutturare il “dettato” per punti lineari ed essenziali e poi a verificare l’utilità del
procedimento delineato. Più avanti vedremo che la maggior parte dei formatori sa
che non è opportuno partire da definizioni e procedure predefinite, ma da problemi.
Questo non significa che tecniche e procedure da seguire siano prive di significato.
4.4. Far descrivere a parole proprie l’esercizio eseguito
Un modo per stimolare una prima forma di ragionamento risulta essere la stra-
tegia di far regalare parole agli esercizi di matematica e di far tradurre il linguaggio
simbolico della matematica in linguaggio descrittivo:
anche quelli bravi a fare gli esercizi di matematica fanno una fatica tremenda a descri-
vere a parole quello che hanno fatto; accorgendomi di questo, ora, anche nei compiti
scritti, a fianco dell’esercizio, indico: “Bene, quell’esercizio lo hai fatto, adesso descri-
vilo con parole tue...”. Non ti dico cosa viene fuori! Bisogna anche intuire, interpretare;
io dico: “Bene, siete fortunati che io sappia di che cosa state parlando! Ma se voi doveste
spiegare a un compagno, come farebbe questo a capire?”. Ecco, penso che sia importante
[...] che, quando vengono interrogati, non debbano solo saper ripetere; quindi vado un
po’ con i piedi di piombo, perché so che c’è quello che fa più fatica ad esprimere ciò che
sa e non voglio penalizzarlo; so a chi posso chiedere e a questi chiedo giustamente di più
(IntVr1/80); [...] non scrivono: “Ho trovato il comune denominatore”, ma “Come si fa?”,
“Cosa vuol dire?”, “Uffa, se lo so fare, a lei che cosa le interessa?”, questa spesso è la
risposta! (IntVr1/86);
uso la modalità dell’esercizio al posto e della correzione alla lavagna (IntMe2/150); l’e-
sercizio l’hanno svolto loro; lo svolgo anch’io alla lavagna, animando la cosa, facendo
notare i vari passaggi e poi, con domande sparse, chiedo loro che cosa hanno fatto, che
scelta hanno operato [...]; allora riesco a vivacizzare la cosa (IntMe2/142);
oltre a permettere ad un insegnante di chiarirsi riguardo alla situazione di un allievo e a
dare ai compagni anche una spiegazione sotto forma di altre parole, che magari sono più
semplici e più abbordabili, quindi più facilmente comprensibili, far uscire l’allievo alla
lavagna lo costringe anche a riflettere e ad esplicitare il processo che gli ha permesso di
arrivare alla soluzione, non centrandosi semplicemente sul risultato, ma esplicitando i
passaggi logici. Dire ad alta voce i passaggi logici permette di abituarli a costruirsi il pro-
cesso che porta alla soluzione; [...] è un aspetto decisamente importante proprio per la
riflessione e la costruzione, per analogia, di molti percorsi simili (FGMat5/19).
F. (IntVr1), insegnante di origine argentina che lavora a Verona, è solita far de-
scrivere ai suoi allievi, sul margine destro del foglio, l’esercizio che essi hanno
svolto. È un primo passo verso la maturazione di una consapevolezza dei procedi-
menti messi in atto e l’elaborazione di una spiegazione significativa del procedi-
mento. A. (IntMe2) e G. (FGMat5/19) fanno qualcosa di simile all’interno di una
conversazione che mira a far “dire ad alta voce” i passaggi logici che portano alla
soluzione di un esercizio o di un problema. Si tratta insomma di guidare gli allievi
a passare dal “saper fare” al “sapere come si fa”, attraverso uno stimolo metacogni-
tivo.
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4.5. Far tenere uno o più quadernoni
Anche la tenuta del quaderno può diventare un’attività che consente di dise-
gnare percorsi meno rigidi di quelli che nascerebbero seguendo un libro di testo e
di costruire memoria del percorso. Inoltre, un quaderno ben tenuto può diventare
una sorta di libro personalizzato che si costruisce insieme, durante il percorso.
4.5.1. Quando il quaderno diventa “libro di testo”
Il libro di testo sa di “scuola” e tutto ciò che ha sapore di scuola tende ad es-
sere rifiutato dai ragazzi del CFP. Per questo, i nostri docenti preferiscono mini-
mizzare il ricorso al libro di testo e piuttosto ne fanno costruire uno loro, attraverso
la tenuta di un quaderno (generalmente ad anelli) o l’elaborazione di una dispensa
che riporti la traccia del percorso realizzato:
uso pochissimo, se non mai, il libro di testo (IntMe2/172); abbiamo fatto questa scelta tre
anni fa, vedendo che il libro [...] non veniva usato perché i concetti principali li scri-
viamo alla lavagna e i ragazzi lavorano sul testo soprattutto per altre materie; con la ma-
tematica è difficile lavorare autonomamente su un testo; è anche difficile trovare testi per
la formazione professionale, fatti bene, semplici (IntMe2/174);
come CFP, non siamo in grado di trovare un libro che soddisfi tutte le nostre esigenze
[...] (IntMe3/164); si è scelto un po’ il male minore (IntMe3/166); per loro è importante
avere un riferimento, perché il prendere appunti è una pratica che loro non conoscono,
quando arrivano qui da noi; [...] non è facile insegnare loro che dalla lavagna si copia, si
trascrive sul quaderno e che si studia anche a partire dal quaderno (IntMe3/170). È chiaro
che un libro di riferimento, con la pagina in cui ho spiegato il disegno, la foto, aiuta loro
ad essere un pochino più puntuali nel rispondere alle nostre richieste [...] (IntMe3/172).
[...] Non trovo un libro che mi dia stimoli, forse ci sono dei buoni libri, con tanti esercizi,
che mi permettano di approfondire quell’argomento (IntMe3/396); quando parliamo di
testo matematico, sappiamo già che [...] l’esigenza sarà che ci siano tanti esercizi, perché
sulla teoria si riesce davvero a trovare molto poco. Eppure c’è tanta aridità ancora nei
testi di matematica (IntMe3/398). (E poi i testi, spesso) pretendono che vengano necessa-
riamente svolti questi dieci argomenti in dieci momenti differenti dell’anno; [...] ma
perché non posso studiare i numeri relativi applicandoli alla geometria piana, espan-
dendo il piano cartesiano, dal semplice quadrante con numeri tutti positivi, al quadrante
con numeri positivi e negativi? Perché non introdurre le cose contemporaneamente?
Avresti, come dire, due piccioni con una fava (IntMe3/402). È anche una visione abba-
stanza concreta (IntMe3/404). Invece no, il libro ancora scinde molto [...] (IntMe3/406);
[...] è stata fatta una scelta: avere un libro di matematica che è [...] sostanzialmente un
eserciziario, perché ci si è resi conto che la parte di teoria veniva completamente resettata
da parte degli studenti; facevano solamente gli esercizi, quindi si è trovato questo eserci-
ziario, che raccoglie una serie di esercizi; relativamente alla teoria, loro devono fare affi-
damento sugli appunti che prendono; però non sono abituati a prendere appunti, perché
magari arrivano o da una prima superiore di un altro istituto dove avevano il libro di
testo e, per i richiami di teoria, si rifacevano a quello (IntMe5/51), oppure dalle medie, in
cui magari non avevano tanta dimestichezza con il prendere appunti in matematica;
quindi, quando c’è una lezione di teoria, loro si aspettano sempre [...] che io detti loro
qualcosa. Allo stadio iniziale mi va anche bene, nel senso che dico: “Ragazzi, adesso
stiamo facendo le addizioni con i numeri naturali: quali sono le proprietà di cui godono
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le operazioni, le addizioni e le moltiplicazioni dei numeri naturali? Sono queste...” e
gliele detto [...] (IntMe5/53). Poi loro non hanno ben capito che devono incominciare a
fare qualcosa per conto loro, cioè ad essere un pochino più autonomi, nel senso che non
posso sempre dire loro: “Adesso scrivete” (IntMe5/55);
io farei a meno del libro (di testo), perché fondamentalmente spiego tutto quello che
faccio e questa è una mia modalità (IntVr1/26) [...]. Nel loro quaderno – il formato è
quello ad anelli – in genere io faccio teoria ed esercizi; nella parte di teoria c’è l’essen-
ziale, con gli schemi che faccio alla lavagna e con gli esempi svolti, con i concetti evi-
denziati; poi partono gli esercizi [...] (IntVr1/163); [...] li ho abituati troppo bene, perché
addirittura do loro le schede già forate e qualche volta dico: “Oggi non ho fatto i fori,
questa volta ve li fate voi?” (IntVr1/165);
loro hanno matematica, una parte teorica e una parte pratica, e hanno dei quadernoni
(IntVr3/13); hanno la parte della teoria in un quadernone, dove ci sono tutte le definizioni
e un esercizio-tipo per argomento, e poi hanno dei quadernoni di pratica, ad esempio c’è
una ragazza che ne ha collezionati due dall’inizio dell’anno [...]; comunque sia, fanno
tantissimo esercizio (IntVr3/11); per “pratica” (intendo) gli esercizi, che io prendo dal
loro libro – loro hanno un libro di testo –, li facciamo tutti, e in più occasionalmente
li prendo anche da altri testi, facendo fotocopie. Parto sempre dalla pratica: un esercizio
lo scrivo alla lavagna, spiego la regola o le regole, poi chiedo di tirar fuori il quaderno di
teoria, formalizziamo la definizione, inseriamo l’esempio che ho spiegato alla lavagna, e
ritorno di nuovo alla pratica proponendo ulteriori esercizi [...] (IntVr3/13)
su alcuni argomenti, se non sono affrontati sul libro, costruiamo una dispensa insieme e
questa dispensa, alla fine del lavoro, verrà valutata. Per esempio, la parte di trigonome-
tria per la terza non c’è sul testo; allora ci sono alcune fotocopie che do io, alcuni appunti
che devono prendere loro seguendo la lezione, gli esercizi risolti, le correzioni delle veri-
fiche ecc.; con tutto questo materiale costruiscono la dispensa sull’argomento “trigono-
metria” [...] e poi tutto questo viene valutato; [...] c’è chi fa addirittura la copertina al
computer o chi scrive la prima pagina come se fosse un bellissimo libro e chi invece non
fa niente di tutto questo; però anche questo diventa un modo per alcuni di avere un
lavoro in più e una valutazione positiva in più (IntMi3/59);
I formatori lamentano la difficoltà di trovare sul mercato libri di testo pensati
per il contesto dell’IFP. Inoltre, come osserva E. (IntMe3), spesso i libri vincolano,
perché disegnano un percorso eccessivamente rigido, una successione di argomenti
che non sempre risponde alle esigenze che emergono sul campo. Allora, i formatori
preferiscono utilizzare il libro come una raccolta di attività e di esercizi, in cui pe-
scare quelli che di volta in volta vengono ritenuti più adatti alle esigenze del per-
corso che intendono seguire e del gruppo con cui lavorano. La parte teorica, con
definizioni, dimostrazioni ed esemplificazioni, viene costruita via via, sul proprio
quaderno, attraverso un percorso che abitua a prendere appunti – all’inizio, come ci
ricorda P. (IntMe5) quasi in forma di dettato, in seguito in modo più autonomo – e
a raccogliere in modo ordinato i materiali. Ma sul quaderno possono trovare posto
anche gli esercizi svolti, riportati correttamente, dopo prove e fogli accartocciati,
o le correzioni delle verifiche. Nel caso raccontato da C. (IntMi3), il quaderno
diventa una vera e propria dispensa, un libro personalizzato che diversi allievi
riescono a sentire come loro e magari anche a decorare.
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4.5.2. Far scrivere una sintesi personale delle regole principali
MR. (IntVr3) propone di costruire una propria personale sintesi delle regole,
una specie di compendio, in forma di semplice schema o di mappa concettuale:
c’è la sintesi delle regole, praticamente, la mappa concettuale di quelle che sono le regole
più importanti (IntVr3/97). La consegna è questa: “Bene, ragazzi, di tutte le regole che
abbiamo fatto finora, fate un ripasso e scrivete una sintesi, una mappa concettuale”.
Il concetto di mappa concettuale loro non ce l’hanno in testa, perché probabilmente alle
medie non hanno mai fatto mappe concettuali, allora dico “schema”. Alcuni, per
esempio, (mi domandano): “Possiamo fare la sintesi?” e mi ha fatto una sintesi discor-
siva (IntVr3/107). Io non voglio, devo dire la verità, creare un modello di mappa concet-
tuale, perché la mappa concettuale è personale e diversa a seconda di come ognuno si
trova bene a ripassare. Poi dico: “Questi fogli li tenete sul comodino e dovete dare loro
una ripassatina tutte le sere! Per giugno, vi dovrebbero essere entrati in testa!”; [...] so-
prattutto all’inizio dell’anno, molti si tenevano questi schemi [...] sul tavolo, non durante
il compito in classe; [...] poi riprendono in mano di nuovo il quaderno di teoria e mi scri-
vono quello che non hanno capito (IntVr3/109). Una sintesi, una mappa libera, sostan-
zialmente senza un’impostazione rigida da parte mia (IntVr3/111).
Anche la sintesi – elaborata in modo personale, senza un modello rigido da
seguire – viene inserita nel quaderno, ma può essere ripresa in varie occasioni. È
un modo per fare un ripasso continuo dei concetti principali. Sul quaderno poi non
trovano posto solo le definizioni teoriche ma anche i propri dubbi. In questo modo,
il quaderno diventa un vero e proprio diario del percorso di apprendimento, su cui
poter tornare e riflettere.
4.6. Mettere a disposizione un repertorio di esercizi graduati per livello di
difficoltà
F. (IntVr1), come altri formatori, si è costruita nel tempo un proprio repertorio
di esercizi da proporre, ma sa anche attingere ad altre fonti (siti americani) per
cercare esercizi e fogli di lavoro che possano essere adatti e stimolanti per i propri
allievi:
negli anni mi sono creata tutto il mio archivio, il mio eserciziario, (graduato) a seconda
delle difficoltà (IntVr1/22), perché abbiamo un grosso problema [...] – ogni anno è lo
stesso “calvario” –, scegliere un testo adeguato per il CFP (IntVr1/24); [...] ogni tanto mi
piace giocare con queste schede (ne mostra alcune) che trovo nei siti americani, non
tanto in quelli italiani (IntVr1/149); sono curiosa; ho un alunno che l’altro giorno mi ha
contestato l’uso di queste schede, perché non mi sono accorta che sul foglio c’era l’orario
in cui le ho stampate (IntVr1/151); non era tardissimo, erano le otto e un quarto di sera,
e questo non si è concentrato sull’argomento, bensì sull’intestazione che poi avrei an-
che potuto cancellare: “Ma lei, prof., non guarda il telegiornale?”, mi ha chiesto
(IntVr1/153). Ecco, allora io ho visto che queste schede sono molto utili; [...] trovo che
molto spesso sono di matematica e sono agevolata in questo senso, perché devo solo tra-
durre i titoli. In una terza ho fatto un esperimento: ho chiesto a una mia collega di lingue:
“Secondo te – avevo spiegato le rotazioni delle rette e i sistemi – [...], se io presento nella
terza C – che è una delle classi in cui quest’anno si può osare – queste schede e lascio il
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testo in inglese, pensi che loro capiscano?”; lei mi ha detto: “Dai, prova!”; io ho fotoco-
piato quelle schede; avevo spiegato i sistemi e ho trovato un esercizio risolto; allora ho
detto: “Va beh, proviamo a fare questo, che ci offre un collegamento con quello che voi
mi avete detto spesso: che cosa ho fatto fino adesso? A che cosa ci serviva? Vedete,
questa è la rappresentazione di un sistema per il calcolo e la comparazione delle tariffe
telefoniche di due compagnie, x e y” e ho lasciato il pezzo in inglese – in una classe l’ho
fatto così, in un’altra sono andata a casa e me lo sono tradotto in italiano perché [...] al-
trimenti avrei dovuto perdere più tempo –; trovo spunti nei siti in cui [...] adesso lavo-
rano tanto con questi worksheet o fogli di lavoro, e quello è ciò che io faccio fare a loro,
dato che, secondo me, la matematica si impara se si fa tanto esercizio (IntVr1/155); me li
costruisco a casa (IntVr1/157); li do in classe, un po’ li facciamo insieme, un po’ li lascio
svolgere a loro in classe; facciamo la correzione alla lavagna [...] e, alla fine di tutto il
lavoro, il giorno successivo, [...] ritiro, controllo e dico: “Guarda, qua c’è qualcosa che ti
è sfuggito, forse non eri attento, questo rifallo, questo ricopialo...”; a tutti alla fine rimane
qualcosa, perché le cose che diciamo, facendo questo lavoro, alla fine, sono sempre le
stesse; per questo (ne mostra uno), che sembrava difficilissimo, a volte uso le mie figlie e
mio marito, dicendo: “Ascolta, se ti do questa cosa qua...”; mio marito mi ha detto: “Ma
cos’è questa roba?”; invece, i ragazzi ci hanno messo cinque minuti a farlo, perché loro
avevano seguito prima la spiegazione, è stato l’esercizio più facile; sembrava così com-
plesso e invece no, perché era già risolto, quindi l’unica difficoltà era costituita da quelli
che avevo lasciato in inglese, va beh, e lì avevo fatto la traduzione, lì ho fatto anche la
bella figura di sapere anche l’inglese (ride) (IntVr1/159) [...]. Trovo utili questi fogli di
lavoro, come loro li chiamano [...]; ho capito che loro li indirizzano fondamentalmente
alla scuola media, o ai primi anni delle superiori, ma a noi vanno benissimo, perché
quello che ai nostri ragazzi manca [...] sono proprio questi strumenti; [...] quando loro di-
cono: “Ma queste cose che lei fa sono troppo difficili!”, a volte lascio anche gli stampati
in alto, perché lì è scritta la fascia di età a cui sono rivolti questi esercizi, e dico: “Desi-
dero spronarvi a fare, perché non sono cose difficili, non potete sempre dire che la mate-
matica è difficile!” (IntVr1/171).
La nostra formatrice racconta di utilizzare materiali americani, che qualche
volta propone direttamente in lingua inglese, sollecitando così l’uso anche di abilità
acquisite nell’area dei linguaggi. F. trova che questi “fogli di lavoro” siano partico-
larmente efficaci, perché propongono esercizi inseriti in uno scenario (l’esempio
che riporta è un foglio di lavoro che riguarda il calcolo e la comparazione delle
tariffe telefoniche di due diversi gestori) e non semplicemente esercizi astratti e
decontestualizzati. Usare questi materiali la aiuta ad essere più attenta alla formula-
zione delle consegne di lavoro. È interessante notare anche come la nostra forma-
trice utilizzi questi materiali: innanzitutto li analizza, sceglie quelli che ritiene più
adatti, li rielabora (“me li costruisco a casa”) secondo le esigenze dei suoi allievi,
qualche volta li traduce; le capita anche di testarli con la collaborazione della figlia
o del marito; poi li propone in classe: all’inizio le consegne di lavoro vengono
affrontate insieme; poi la docente lascia che i suoi alunni svolgano alcuni di questi
lavori autonomamente; segue la correzione in gruppo di alcuni di questi esercizi e
il feed-back individuale con indicazioni di lavoro ulteriori. L’apprendimento della
matematica richiede un notevole impegno, uno sforzo, un provare e riprovare,
anche sopportando una certa dose di sofferenza e di frustrazione.
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4.7. Far costruire esercizi per i compagni imparando a “giocare” con i numeri
A partire da alcune specifiche (numero di operazioni, risultato ecc.), M.
(IntVr8) propone ai suoi allievi di costruire delle operazioni matematiche (espres-
sioni, equazioni...):
un’altra cosa che chiedo è [...] di inventare loro degli esercizi [...]. Capita che li faccio fare
a coppie: chiedo di inventare un esercizio per il proprio compagno di banco, che sia ov-
viamente fattibile, che non sia troppo difficile; oppure chiedo di inventare un esercizio che
abbia certe caratteristiche, ad esempio, non so, un tot. di operazioni, un tot. di moltiplica-
zioni, un tot. di divisioni; se abbiamo l’elevamento a potenza, di mettercene un paio, così
insomma, sempre per cercare di stimolarli a giocare con i numeri (IntVr8/8); in prima,
inizio dicendo: “Fate un’espressione con due parentesi tonde e quattro operazioni” [...].
Mano a mano che imparano a gestire i numeri, do loro anche qualcosa di più difficile, non
so, ad esempio: “...che ci siano due potenze, due moltiplicazioni e due divisioni”; [...] il
passo più difficile è quello in cui do loro il risultato: “inventatevi un’espressione il cui
risultato sia 1 e che contenga un tot di parentesi, un tot di operazioni, un tot di potenze”, e
così via (IntVr8/10); [...] poi in seconda o più avanti, [...] operazioni con i monomi, con i
polinomi, con i prodotti notevoli, con le equazioni; chiedo anche di inventarsi un’equa-
zione in cui il risultato sia 1, 2, 3, comunque un numero semplice, che però cerchino loro
di creare questo esercizio; anche se non è semplice, vedo che sono stimolati (IntVr8/12).
Il nostro formatore ha scoperto che far inventare esercizi costituisce un eser-
cizio di gran lunga più creativo che la sola esecuzione di esercizi assegnati. Si tratta
infatti di far sperimentare il gusto di giocare con i numeri e il fatto che la matema-
tica è, di per sé, qualcosa che si può anche fare e non solo subire.
5. AGGANCIARE I CONCETTI MATEMATICI A PROBLEMI REALI E A POSSIBILI UTILIZZI
PRATICI
Se quella che viene presentata è una matematica di parole astratte, lontana dal
vivo dei problemi quotidiani, coloro che la stanno apprendendo, inevitabilmente se
ne allontaneranno, perché si sentiranno come persi in un oscuro labirinto di con-
cetti. In realtà, la matematica nasce proprio da problemi di natura concreta (Mara-
schini, 2008, p. 37), come contare, distribuire o scambiare oggetti, misurare terreni,
calcolare distanze o tempi, prevedere13. L’azione dei formatori è tesa a far cogliere
che i modelli, gli strumenti e le procedure di ragionamento che la matematica co-
struisce sono utili per risolvere tali svariati problemi e per capire diversi aspetti
della realtà sociale, economica, lavorativa con cui i soggetti in apprendimento en-
13 Molto interessante, ai fini della nostra esplorazione sulle pratiche dei docenti dell’IFP, risulta
la riflessione critica che B. Pea propone sul movimento dei matematici “puri”, detti “Bourbajisti” (dal
nome fittizio che questo gruppo utilizzava: Nicolas Bourbaki), che di fatto ha allontanato la matema-
tica dall’intuizione e dai collegamenti con la realtà (cfr. Pea, 2007, pp. 16-20), a cui invece sono molto
legati i nostri formatori.
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trano in contatto. Inoltre, i formatori sono consapevoli che la conoscenza emerge
nelle attività, facendo cose, è attività essa stessa14. Non è detto che il “fare” com-
porti necessariamente un “comprendere”, ma quando la comprensione avviene a
partire da un “fare” assume una qualità diversa. Per questo i formatori sono molto
attenti ad organizzare esperienze e a valorizzare l’attività pratica anche per l’ap-
prendimento della matematica. La matematica, al CFP, è prevalentemente qualcosa
di sensibile, che si alimenta di suggestioni visive, uditive, tattili, che consente di
confrontarsi con situazioni sfidanti e di fare delle cose, ma anche di riflettere su ciò
che si fa, guadagnando una certa distanza dall’esperienza stessa.
5.1. Frequentare il laboratorio e interagire con gli allievi quando sono all’opera
La comprensione non è solo recezione. Come abbiamo in parte già visto, è un
agire sulla realtà, un fare delle cose con ciò che si apprende, che apre a molteplici
rimandi e collegamenti, e consente una forma di elaborazione in cui entra in gioco
tutta la persona, con la sua mente ma anche il suo corpo e i suoi interessi. Come
suggerisce Etienne Wenger, va dunque superata la dicotomia tradizionale tra atti-
vità mentale e attività manuale: «Il processo di coinvolgimento nella pratica ri-
guarda sempre la persona nella sua totalità, in quanto soggetto che agisce e conosce
nello stesso tempo. In realtà, la cosiddetta attività manuale non è disgiunta dal pen-
siero e la cosiddetta attività mentale non è separabile dalla fisicità e dal corpo»
(Wenger 1998, p. 60 dell’ed. it.). Va perciò superata anche la dicotomia che talvolta
si crea tra docenti di area “culturale” e docenti di area “pratico-professionale”. È
quanto tentano di fare i nostri formatori che normalmente riescono a costruire pro-
ficue forme di collaborazione con i loro colleghi di laboratorio.
5.1.1. Costruire sinergia tra insegnamenti di area culturale e insegnamenti di area
tecnico-professionale
Al CFP capita che i docenti di area pratica, di laboratorio, godano presso i ra-
gazzi di una maggiore considerazione di quello che spesso capita ai docenti di area
teorica. È proprio una specificità del CFP, difficilmente riscontrabile in altri ordini
di scuola, anzi che sovverte proprio le gerarchie dei saperi presenti normalmente
nella scuola. Per questo diventa qui essenziale la collaborazione tra i docenti di ma-
tematica e i docenti di laboratorio:
per noi che lavoriamo al CFP, l’insegnamento della matematica comincia con un con-
fronto profondo e quotidiano con l’insegnante di laboratorio (IntMe3/2); ci confrontiamo
con i professori di laboratorio per capire quali possono essere i principi della matematica
14 Lo esprimono efficacemente Attila Bruni e Silvia Gherardi: «...possiamo dire che la cono-
scenza può essere vista e analizzata come un’attività, invece che come un oggetto (un corpo di cono-
scenze), e che quindi può essere studiata anch’essa come un’attività situata, cioè emergente dal con-
testo di sua produzione e ancorata dai (e nei) supporti materiali del suo ambiente di produzione»
(Bruni, Gherardi, 2007, p. 37).
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che sono immediatamente fruibili nella loro materia di specializzazione [...] (IntMe3/4),
nei vari settori, grafico, nelle due specializzazioni di pre-stampa e stampa [...] (IntMe3/
10), meccanico ed [...] elettro (IntMe3/12) [...]. La prima cosa che ho fatto è stato andare
in laboratorio e vedere come lavorano i colleghi. Loro sono la mia fonte d’informazioni
privilegiata, quanto a metodo e quanto a strategia (IntMe3/326); ...noi, non ogni anno,
perché è difficile organizzarlo, ma un anno sì e un anno no, proponiamo una giornata di
workshop per i docenti teorici, all’interno di uno dei settori; [...] l’anno scorso, abbiamo
fatto una giornata in cui ciascuno di noi doveva costruire un pezzo, in questo caso una
lampada, partendo dai rudimenti dell’elettronica, per arrivare all’applicazione, attraverso,
ad esempio, una macchina a controllo numerico, della meccanica, e ciascuno di noi ha co-
struito la propria lampada [...] (IntMe3/328), guidati ovviamente dai professori di labora-
torio, che quel giorno ci vedevano come studenti (IntMe3/330). Questo apre la mente,
perché qui ti rendi conto, perché impari parole che i ragazzi hanno in bocca tutto il giorno
e che a noi magari dicono poco (IntMe3/332), perché una presa o un tornio non mi erano
ben chiare (IntMe3/334), prima di averle viste (IntMe3/336) e sperimentate, con tutti gli
errori del caso (IntMe3/338). Io senza il laboratorio non saprei da che parte cominciare la
teoria, d’altra parte loro, senza i principi di base, fanno difficoltà ad esporre ai ragazzi le
esigenze che hanno nella costruzione di un pezzo o nell’elaborato di grafica, quindi penso
che ci sia una sinergia da questo punto di vista (IntMe3/352); la prima cosa da fare quando
si arriva ad insegnare in un CFP è dunque proprio scrollarsi di dosso la polvere della
scuola, la polvere scolastica che si ha, quella patina di scolarizzazione che ci vorrebbe tutti
bravissimi ad imparare il programma che il libro propone (IntMe3/354);
vado a coinvolgere gli insegnanti di laboratorio, perché sono quelli che per i ragazzi
hanno un peso maggiore: se una cosa è detta dell’insegnante di laboratorio, ha un peso
maggiore che non se venisse detta dall’insegnante di inglese o di matematica o di cultura
(FGMat2/278). Faccio proprio un lavoro di collaborazione con loro, sottolineo le loro ap-
plicazioni, l’importanza che in alcuni passaggi possono avere l’inglese – per esempio per
il manuale tecnico – oppure l’aspetto culturale, dove viene inserita anche la prevenzione
infortuni, o la matematica e le scienze, nell’applicazione meccanica o nel settore termoi-
draulico. Questa collaborazione con il formatore di laboratorio è molto importante
perché i ragazzi apprezzano molto che l’insegnate di laboratorio, nei vari passaggi, sotto-
linei l’aspetto culturale della matematica: “ecco, poi questo lo vedrete approfondito nel-
l’ambito matematico, oppure lo vedrete approfondito nelle scienze”; magari tornano in
classe (dal laboratorio) e raccontano la lezione che c’è stata... (FGMat2/280). [...] In
questi ultimi anni, ho sperimentato [...] che è l’insegnante di laboratorio a valorizzare e
rimarcare quegli aspetti degli assi culturali, che possono essere inseriti nelle loro applica-
zioni, nelle loro lezioni (FGMat2/294);
mi sono messo d’accordo con l’insegnante di laboratorio [...], gli ho dato un foglio [...]; in-
vece di incontrarci sul corridoio o al bar e dire: “Mamma mia, sai che cosa mi è successo?
Tizio non ha saputo fare manco il...” [...], invece di fare semplicemente gossip sui ragazzi,
che non serve a nulla, gli ho detto: “senti, facciamo così...”; io ho bisogno di argomenti
[...] che partano dal laboratorio; lui praticamente, alla fine dell’unità (FGMat2/298) mi fa
una lista di argomenti che vengono fuori dai ragazzi (FGMat2/300). Che ne so, dovevano
calcolare uno smusso a 45° e i ragazzi non hanno saputo dire “A”. Allora io ho proprio una
lista scritta, e da lì praticamente (FGMat2/302) pesco degli argomenti [...] sia per quanto
riguarda la matematica, sia per quanto riguarda le scienze (FGMat2/304);
sento gli insegnanti di laboratorio [...], per capire un po’ se riesco ad agganciarmi anche
con dei termini; mi ero fatto dare dei disegni del settore meccanico per far notare alcune
cose, mi [...] sono fatto spiegare un poco alcuni preventivi in grafica, per usare magari
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anche termini che loro hanno già sentito in un’altra lezione in modo che arrivino a dire:
“Stanno parlando lo stesso linguaggio” (IntMe2/274);
un’altra strategia che viene adottata è, ad esempio, quella di creare dei collegamenti con
l’insegnante di laboratorio (FGMat2/84) [...]. Fondamentalmente la strategia è questa:
calarsi sempre nelle cose reali (FGMat2/86).
E. (IntMe3), insegnante di matematica, fisica e chimica a Mestre, racconta di
aver avvertito fin dall’inizio della sua attività al CFP, l’esigenza di confrontarsi con
i colleghi docenti di laboratorio. In quel CFP, i docenti di area pratica organizzano
anche degli workshop per i loro colleghi di area teorica, proponendo loro di realiz-
zare un oggetto nell’officina meccanica. In questo modo, ci si può avvicinare me-
glio all’esperienza che i ragazzi vivono all’interno del CFP, si possono scoprire le
complementarietà tra le aree disciplinari e si possono ricevere spunti per impostare
l’insegnamento della propria disciplina in modo meno “scolastico” e più centrato
su problemi reali da risolvere. L. (FGMat2/278-294), che insegna a Perugia, sotto-
linea come, nella formazione professionale, proprio i docenti di laboratorio godano
di una particolare considerazione da parte degli allievi e che per questo sia indi-
spensabile attivare con loro una proficua collaborazione. C. (FGMat2/298-304),
che insegna a Roma, e A. (IntMe2) di Mestre cercano di rendere sistematico lo
scambio di informazioni con i docenti di laboratorio, in modo tale che sia possibile
raccordare meglio i reciproci percorsi e che gli allievi siano messi nelle condizioni
di cogliere connessioni e continuità.
5.1.2. Essere presenti in laboratorio
Oltre a raccordarsi con i loro colleghi di laboratorio, alcuni docenti trovano
utile visitare i ragazzi mentre sono impegnati nel laboratorio, dialogare con loro,
dare e ricevere suggerimenti:
[...] sono abbastanza presente nei laboratori e faccio il finto ignorante con i ragazzi
(FGMat2/315); essendo io l’insegnante teorico, anzi il teorico per eccellenza
(FGMat2/317), [...] faccio finta di non sapere fare nulla con il tornio o con la fresa e
quindi praticamente vado lì e dico: “Ma qui come hai fatto a...”, così in qualche maniera
testo anche il ragazzo; allora lui, cambiando posizione, mi spiega – è come se ci fosse
uno scambio di ruolo, è come se, in quel piccolo momento, lui avesse la “soddisfazione”
di diventare protagonista (FGMat2/319) –; contemporaneamente, io acchiappo tutto
quello che potrebbe servirmi per poi ricomunicarlo alla classe [...] (FGMat2/323); ve-
dremo come andrà, però la presenza in laboratorio è fondamentale (FGMat2/325);
qualche volta vado in giro nei laboratori, parlo con i colleghi e cerco di catturare quello
che può essere ad esempio la parte di trigonometria che può interessare i ragazzi. Perché
il problema è che, se io dovessi spiegare tutta la trigonometria del triangolo rettangolo,
questi mi mollerebbero subito, mentre invece, se mi trovo a trattare da più lati le teorie
del triangolo rettangolo, agganciandomi all’ambito che interessa per risolvere quel pro-
blema, le cose sono diverse [...] (FGMat2/240);
vado (in laboratorio) mentre i ragazzi lavorano (FGMat2/252). Se, per esempio, vedo un
ragazzo che fa una filettatura lungo un tubo, gli domando perché con quel tubo più lungo
ci vuole più forza e perché con un tubo più corto ci vuole meno forza, oppure perché [...]
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riesco ad alzare un tornio con una mano e con un paranco lungo un metro faccio molta
più fatica; oppure, per esempio, quando, in meccanica auto, incontro le fasce che colle-
gano l’alternatore al motore, praticamente, con una proporzione, cerco di far loro capire
che relazione c’è tra la ruota piccola e la ruota grande (FGMat2/258).
C. (FGMat2/315-325) constata che è molto potenziante quella sorta di inver-
sione di ruolo che si realizza quando l’allievo, “esperto” in laboratorio, si trova a
spiegare il suo lavoro al docente di area teorica che, in laboratorio, diventa novizio,
principiante, pieno di domande. Molti formatori poi frequentano il laboratorio per
catturare esempi e situazioni che li aiutino a guidare processi di esplicitazione dei
saperi matematici implicati nel fare e dunque a costruire connessioni vive tra la
propria area disciplinare e l’area pratica.
5.1.3. Far fare – o valorizzare – le esperienze laboratoriali per “far vedere” i concetti
Abbiamo già visto sopra, i docenti avvertono l’esigenza di far vedere e toccare
con mano i concetti. Per avvicinarsi a questa matematica “sensibile” (che passa per
i sensi), al CFP, si tratta in primis di valorizzare l’esperienza di laboratorio che gli
allievi già vivono nel loro percorso, aiutandoli a mettere in relazione concetti ed
esperienza. In questo modo la matematica non viene ridotta a regole e norme e si
apre alle dimensioni dell’esplorazione e della scoperta:
l’attività è stata fatta [...] con i ragazzi di una prima meccanici, nella seconda parte del-
l’anno. I ragazzi avevano appena finito di realizzare il loro capolavoro in officina e ave-
vano finito di fare, in geometria, il calcolo dei volumi. L’attività, che ho impostato, in col-
laborazione con l’insegnante di laboratorio, si è svolta in tre fasi, ha riguardato complessi-
vamente un tempo di circa sei ore. Inizialmente i ragazzi sono stati chiamati a calcolare il
volume del pezzo che avevano realizzato in officina, partendo dai disegni tecnici su cui
avevano lavorato. In seconda battuta, sono stati chiamati a studiare le figure piane che ge-
neravano le varie parti del loro pezzo, a costruire i solidi a partire da queste figure piane e
a calcolarne i volumi semplicemente con le formule geometriche. Nella terza fase [...], i
ragazzi hanno dovuto costruire fisicamente, assemblando i solidi generati dallo sviluppo
delle varie figure, unendoli per formare, in carta, il pezzo meccanico che prima avevano
realizzato in officina. L’idea che ha mosso tutta questa attività è stata far vedere ai ragazzi
come una figura solida complessa possa essere realizzata partendo da una sottrazione di
volumi da un volume più grande, che è l’operazione che loro svolgono in officina, ma che
può essere realizzata anche come somma di volumi più piccoli e che, di fatto, è l’opera-
zione che si fa assemblando solidi geometrici semplici, per realizzarne uno più complesso.
Al termine di queste tre fasi, loro hanno dovuto schematizzare i tre calcoli dei volumi.
Con i ragazzi a cui non era venuto nei tre casi un risultato confrontabile, fatte le dovute
approssimazioni, si è andato a ricercare l’errore, se era stato un errore di calcolo o un er-
rore concettuale. Poi, ad ogni ragazzo – è stata la parte preponderante della valutazione –
è stato chiesto di scrivere una relazione su quello che aveva fatto e su quali erano stati, in
ognuna delle tre fasi, gli aspetti in cui aveva incontrato maggiori difficoltà. Questa rela-
zione, che doveva essere consegnata in forma cartacea [...], scritta in italiano comprensi-
bile, è stata valutata dall’insegnante di matematica, dall’insegnante di pratica, [...] ma
anche dall’insegnante di italiano, che ha espresso non un voto, ma delle considerazioni su
come era stata scritta. Visto che il voto doveva essere di matematica, la professoressa di
matematica non ha considerato le altre valutazioni, però l’insegnante di italiano, in alcuni
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casi, ha dato dei suggerimenti su come la relazione avesse potuto essere scritta meglio.
Questo ha fatto bene soprattutto a noi formatori, perché ci ha permesso di scambiare delle
esperienze e ha fatto sì che ognuno mettesse un po’ delle sue capacità, per costruire il per-
corso. L’attività ha funzionato bene ed è stata un modo per concludere l’attività dell’anno,
specialmente in laboratorio, in una maniera un po’ diversa (FGMat4/48);
quello che stiamo facendo con le terze è la trigonometria che, per i meccanici, è partico-
larmente importante (IntVr1/36); [...] mi sono soffermata sul fatto che questa è l’unità di
apprendimento fondamentale, che troveranno senz’altro agli esami [...], e su cui potreb-
bero esserci degli agganci [...]. Per tirar fuori un esempio-tipo, (parlo della) “conicità”,
che loro ritrovano sempre [...] nella soluzione dei problemi di tecnologia e di officina, e,
a partire da lì, ci colleghiamo a tutta la trigonometria, al fatto che i lati di un triangolo di-
pendono dai suoi angoli (IntVr1/38). “Ci sono degli strumenti: ci serve questa formula,
quest’altra formula, matematicamente è così...”, glielo spiego, faccio degli esempi, poi
dico: “Se abbiamo questo particolare da realizzare in laboratorio, secondo voi, come si
può agganciare tutto questo?”, e lì tiro fuori il disegno che loro stessi avevano fatto in of-
ficina sulla conicità e dico: “Vedete? Ecco qua il triangolo di cui avevamo parlato prima,
in trigonometria: iperbole, triangoli, rettangoli...; si tratta di mettere in relazione. Questo
triangolo, in qualsiasi disegno tecnico, riusciamo a trovarlo e quindi, se c’è da calcolare
la “conicità”, ecco qua il lato, ecco qua l’angolo, ecco dove vengono usate queste for-
mule che prima mi avete detto non assomigliavano a niente!” (IntVr1/40);
quando loro devono costruire dei pezzi, ad esempio, lavoro in collaborazione con il pro-
fessore di laboratorio, che magari mi ha detto: “devo fargli fare questi pezzi; prova a ve-
dere se riescono a...”; allora do loro lo stesso pezzo, ovviamente, e loro devono trovare
l’area, devono misurare, non so, il diametro del cerchio e [...] tener conto che a volte le
misure non sono precise; quindi ci sarà un pezzettino un po’ più lungo, uno un po’ più
corto; cosa fare allora? Si deve approssimare (IntVr8/54);
Nel caso raccontato da F. (FGMat4/48), che insegna in un CFP di Torino, un
percorso di geometria, sulle figure solide, si realizza in stretta sintonia con il per-
corso svolto dai ragazzi nel laboratorio meccanico. Anche i percorsi di F. (IntVr1),
sulla trigonometria, e di M. (IntVr8), sull’area del cerchio, sono tutti giocati sul
mettere in relazione e sul far sì che anche le “cose” matematiche arrivino ad asso-
migliare a qualcosa di reale e tangibile. Il contatto con il laboratorio consente di ri-
levare le molteplici applicazioni della matematica. Ma quello dei nostri formatori
non si riduce ad essere un approccio applicativo, consente anzi di far sperimentare
anche l’insegnamento della matematica come una forma di apprendistato, questa
volta prevalentemente cognitivo: alle prese con problemi autentici, i ragazzi pos-
sono sperimentare che anche in relazione alla matematica è possibile assumere un
atteggiamento attivo e provare a fare delle cose.
Per concretizzare la matematica, diversi formatori trovano utile collegarla ad
altre discipline, come la chimica o la fisica, in cui più facile il ricorso ad approcci
di tipo laboratoriale. È ciò che osserva, ad esempio, J. (FGMat1/22):
l’esempio concreto è importantissimo [...]; se con loro la matematica non la concretizzi,
non funziona; [...], in fondo, loro stanno diventando tecnici, meccanici o elettrici; [...] per
esempio l’iperbole: puoi dire che, aumentando la pressione, diminuisce il volume e che
le due grandezze sono inversamente proporzionali; piano, piano viene fuori un’iperbole,
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però la devono vedere. Per questo i CFP, secondo me, devono avere un piccolo labora-
torio di fisica, anche modesto, anche fatto da noi [...]. Una volta, per la risonanza acu-
stica, ho preso due diapason, che danno un’armonica pura; fai muovere uno, entra in
risonanza e comincia a vibrare anche l’altro (FGMat1/22);
I docenti di Matematica che insegnano anche Scienze fanno normalmente ri-
corso al laboratorio o inseriscono elementi laboratoriali – anche molto artigianali –
nell’attività didattica ordinaria. Vediamo qui di seguito alcuni esempi che si riferi-
scono agli ambiti disciplinari scientifici:
in laboratorio, ci sono alcuni esperimenti che i ragazzi fanno, per esempio la filtrazione
[...]; ci sono due o tre ragazzi per bancone, c’è tutta la strumentazione per montare l’at-
trezzatura, hanno il materiale, acqua e carbone, e viene loro spiegato come devono com-
portarsi, come devono fare la filtrazione, e la fanno loro; anche la cromatografia a volte la
fanno in laboratorio; nella seconda parte, invece, si avvicinano tutti [...] al primo bancone
iniziale e loro osservano altri esperimenti, tipo la centrifugazione; siccome c’è una sola
centrifuga, il professore fa vedere come funziona. Oppure fanno la distillazione; è neces-
saria un’attrezzatura molto complessa, con il fornello ecc.; il professore spiega e loro
prendono appunti; hanno lo schema alla lavagna, ricopiano, osservano e fanno domande
(IntVr6/12); e fanno la grappa, e intanto, finito l’esperimento, con il dito vanno ad assag-
giare il prodotto, insomma; in genere il laboratorio prende dalle due alle quattro ore, a
seconda che facciamo tutti gli esperimenti oppure ne facciamo solo alcuni (IntVr6/14).
I laboratori, in genere, sono le attività che hanno maggior successo: i ragazzi si ricordano
perfettamente [...] anche i metodi; magari non si ricordano proprio tutti gli strumenti ecc.,
però la centrifuga, lo strumento che serve per la centrifugazione del sangue, la ricordano;
faccio sempre l’esempio del doping, e dico loro che usano questo strumento per le analisi
del doping; si ricordano e quindi, quando fai degli esempi analoghi, tirano fuori sempre lo
strumento, per esempio “quello che serve per l’analisi del doping?” (IntVr6/26). Il con-
cetto rimane sempre molto vivo, quando lo vedono, lo vedono proprio, lo sperimentano
(IntVr6/28). Il problema in realtà sono i tempi, [...] perché questa parte più pratica serve,
secondo me, è utilissima, è essenziale, però bisogna togliere e aggiungere, fare ordine
nelle idee; loro si entusiasmano, vedono, fanno tante domande in genere, quando ci sono
questi esperimenti, però poi bisogna sempre ritornare al testo con le definizioni e far loro
capire che le definizioni nascono da quello che hanno osservato; poi le definizioni vanno
studiate, non basta descrivere l’esperimento con parole loro, insomma, bisogna anche for-
malizzare e la formalizzazione è sempre molto lenta. [...] Il mio obiettivo è riuscire, per
ogni argomento, a portare comunque qualcosa in classe di concreto e pratico, di visivo, e
di non fare solo lezioni con il libro davanti [...] (IntVr6/24); [...] ho fatto un esperimento
classico, quello della coltivazione dei fagioli, al buio e alla luce. Ho fatto tenere a loro una
tabella, dove dovevano osservare, giorno per giorno, quanti semi crescevano [...]; pote-
vano fare il confronto fra i semi alla luce e i semi al buio, e quindi, in base alle ipotesi che
noi avevamo fatto, vedere se nascevano prima o nascevano dopo quelli alla luce; confron-
tavano le ipotesi con i risultati ottenuti. Quindi preparavo due vasi con del cotone, un
certo quantitativo di acqua e dei fagioli; loro poi tenevano questa tabella, con vari pro-
blemi, perché qualcuno ammuffiva, quindi anche lì, si trattava di ricominciare l’esperi-
mento; gli errori però erano utili, perché facevano capire che l’esperimento non avviene
sempre in modo così lineare (IntVr6/18). Quest’anno non sempre gli esperimenti sono
riusciti bene, per problemi di muffa sui fagioli, ma [...] nelle classi dove l’esperimento è
riuscito bene, si ricordano le varie fasi del metodo scientifico: l’ipotesi, la verifica spe-
rimentale, il risultato e la teoria scientifica (IntVr6/26);
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ho proposto un esercizio sul calcolo della densità al primo anno di un corso biennale
– prima carrozzeria –; è durato circa tre o quattro ore. Prima di tutto, ho spiegato in
classe il concetto di densità – “massa fratto volume” –, quindi ho dato le formule dirette
e le formule inverse. Dopo di che, ho fatto costruire nel laboratorio meccanico dei
cilindri di diversi materiali e di diverse dimensioni; i materiali erano quelli che di solito
abbiamo in laboratorio meccanico: l’ottone, il bronzo, l’acciaio e l’alluminio. Se dovessi
rifare questa esperienza, farei costruire non solo dei cilindretti, ma anche dei cubetti,
delle altre figure solide. Ho dato a ciascuno dei ragazzi un cilindretto – erano tutti diversi
tra loro – e ho fatto portare ai ragazzi in classe il calibro manuale [...]; ho portato anche
una bilancia [...]. Il lavoro consisteva nel dimostrare di quale materiale era fatto il
cilindro che avevano realizzato in laboratorio; avevo preparato una tabella con le diverse
densità – ogni materiale ha una diversa densità –; è vero che, soppesando un pezzo di al-
luminio e un pezzo di acciaio, la differenza si vede ad occhio nudo, però loro dovevano
dimostrare questo fenomeno, cercando di trovare il valore di densità più simile a quello
indicato in tabella. Quindi dovevano venire alla cattedra, pesare il pezzo, poi tornare al
posto, prendere il calibro, [...] misurarlo – io avevo detto loro di prendere [...] sei misure
per ogni cilindretto, cioè di misurarlo da una parte, dall’altra, poi dall’altra ancora, fino
ad avere sei misure di diametro, poi di scartare la più grande e la più piccola e di fare una
media; così abbiamo introdotto anche il concetto di scarto delle misure ecc. –. Hanno
dunque calcolato il volume del cilindretto e infine, conoscendo il peso, hanno calcolato
la densità (FGMat4/50);
facendo scienze nel settore ristorazione, mi sono trovato a spiegare le temperature [...];
mi sono fatto prestare un sistema di distillazione della grappa, un alambicco con tanto
di termometro, ecc.; abbiamo fatto la grappa [...] nel laboratorio di cucina; [...] in quella
situazione, i ragazzi hanno potuto vedere in senso pratico come funziona la distillazione
e anche vedere un termometro che effettivamente, messo sulla pentola, sotto il fuoco,
segnala un innalzamento di temperatura [...] (FGMat2/129).
E. (IntVr6), che insegna Scienze e Chimica in un CFP di Verona, fa ricorso al
laboratorio per “rendere vivi” i concetti scientifici. Il laboratorio è uno spazio in cui
gli allievi possono innanzitutto osservare, ma anche fare e toccare con mano. Mol-
teplici sono gli esempi citati da E.: la filtrazione, la cromatografia, la centrifuga-
zione, la distillazione, la coltivazione ecc. I ragazzi si accendono, fanno domande,
imparano ad usare degli strumenti, acquisiscono familiarità con il metodo scienti-
fico. Vengono inoltre guidati dal loro docente non solo a descrivere l’esperimento
realizzato o osservato, ma anche a confrontare ciò che hanno visto con le defini-
zioni e le teorie che possono, ad esempio, trovare sul loro libro di testo e a riflettere
sull’utilità degli errori. Il nostro formatore è consapevole che questo tipo di didat-
tica richiede tempi distesi e che pertanto è necessario selezionare gli argomenti più
rilevanti. Del resto, limitarsi ad “insegnare il libro”, senza esperienze laboratoriali,
non faciliterebbe apprendimento e comprensione. Anche A. (FGMat4/50), che in-
segna a Fossano, e F. (FGMat2/129), che insegna a Foligno, raccontano esperienze
in cui, dopo aver messo i propri allievi nelle condizioni di fare delle cose con le
mani, li hanno orientati ad esplicitare quelle forme di ragionamento che costante-
mente attuano in laboratorio e di evidenziare il loro valore, paragonandole poi ai
procedimenti più formali.
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5.1.4. Non cose diverse ma in modo diverso
Val la pena di rilevare che, nonostante le difficoltà, la maggior parte dei forma-
tori sono convinti che i percorsi che si agganciano alla pratica non rappresentino
“cose diverse” da quelle previste nei progetti provinciali o regionali, ma modi di-
versi – diversi rispetto a quelli generalmente più diffusi nei contesti scolastici – per
far sviluppare apprendimenti altrettanto significativi:
l’attività culturale matematica l’ho sempre vista come un completamento [...] di quello
che fanno in pratica (FGMat2/242); [...] ho visto che l’attività culturale come completa-
mento dell’attività pratica, per il ragazzo, diventa più efficace [...], mentre, se io dovessi
svolgere quello che è il programma stilato nella programmazione provinciale, regionale
o quant’altro, molte cose resterebbero lettera morta [...] (FGMat2/246), parole... (FGMat2/
248) che cadono nel vuoto; [...] poi comunque mi accorgo che, alla fine dell’anno, se ho
seguito un certo iter e se ho tenuto il passo in modo abbastanza coerente con il collega,
non è che ho fatto cose diverse, forse le ho fatte in maniera diversa, con una modalità di-
versa e con un ordine diverso, però in realtà ho fatto le stesse cose, forse anche in maniera
più approfondita; [...] questa modalità di lavorare è un pochino più complessa, però sicu-
ramente più motivante per il ragazzo che si aspetta un’attività pratica [...] un po’ come
tutti, penso; anche noi vogliamo vedere il succo delle cose (FGMat2/250);
possibilmente [...] parto dalla pratica; l’altro giorno, con i riparatori di autoveicoli, ab-
biamo [...] immaginato un portaoggetti, con scritto Michelin su un fax-simile di ruota;
era un portaoggetti con un triangolo che sosteneva la ruota dal mozzo, con una certa am-
piezza, e il quesito era se, praticamente, la larghezza della scritta Michelin veniva coperta
dal settore, per cui bisognava andare a scoprire se il settore aveva una certa angolazione,
se era il settore di una circonferenza, di un cerchio, con un’ampiezza superiore, sapendo
solo l’angolazione, tale da coprire la scritta, applicata agli autoveicoli. Oppure, ad
esempio, con i termoidraulici, abbiamo una boccia di vetro che contiene un tot di acqua,
quindi una riserva d’acqua; dobbiamo trovare il volume. È diverso se propongo l’eser-
cizio in modo tradizionale: “Abbiamo una sfera con raggio ecc. ecc.”; l’obiettivo è lo
stesso, i calcoli sono gli stessi, ma è l’approccio che è diverso. Dire “Abbiamo una
sfera...”, oppure dire “Abbiamo una riserva d’acqua dei nostri termosifoni...”, oppure,
per i meccanici, dire: “Abbiamo una sfera di ghisa che dobbiamo porre sul palo di so-
stegno di un cancello ecc.” significa dire cose diverse. Alla fine i ragazzi neanche se ne
accorgono che i calcoli sono gli stessi, però il loro approccio mentale permette loro di
visualizzare l’oggetto con cui, in quel momento, stanno facendo i calcoli. Questo è un
coinvolgimento dal punto di vista pratico; occorre naturalmente ogni volta creare una si-
tuazione che abbia degli agganci con quel particolare settore ovviamente (IntRoma1/8);
oppure, per i meccanici, immagino che un cuscinetto a sfera per loro diventi qualcosa
di concreto; cioè, li poni in una condizione di minore diffidenza davanti al problema.
Mentre, se gli si dà il problema puramente astratto, i nostri ragazzi hanno immedia-
tamente un rifiuto, oppure la solita domanda: “Questo qui dov’è che lo applico?”
(IntRoma1/10).
I problemi matematici, a scuola, vengono spesso formulati con un linguaggio
solo formale, che può apparire astruso. I nostri formatori tentano di trasformare
i problemi matematici in problemi in carne ed ossa, consentendo ai propri allievi
di visualizzare gli oggetti rispetto ai quali viene loro richiesto di compiere opera-
zioni matematiche. Forse, con Piaget, potremmo affermare che gli allievi dell’IFP
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«...sono [...] del tutto capaci di afferrare concetti che sembrano al di fuori della loro
comprensione, ma a condizione di arrivarci per una via diversa, in quanto, quel che
essi non capiscono, sono le “lezioni” che vengono impartite, non la materia [...].
Quel che si desidera è che l’insegnante smetta di essere un conferenziere e stimoli
la ricerca e lo sforzo invece di accontentarsi di trasmettere delle soluzioni già
pronte» (Piaget 1991, pp. 26-27). E sembra proprio che questi ragazzi abbiano tro-
vato nei formatori del CNOS-FAP insegnanti capaci di guidarli ad interrogare il
fare e ad alimentare il gusto di cercare.
5.2. Agganciare l’esperienza pratica
Fare matematica non significa restare solamente su un terreno formale. Ri-
chiede anche – e in questo contesto soprattutto – di valorizzare i nessi che l’espe-
rienza di vita propone. Quella che i nostri formatori riescono, in vari modi, a stimo-
lare è una modalità di apprendimento basata sull’esperienza diretta e sulla presenza
di un maestro esperto, simile alla bottega di cui ci parla Francesco Antinucci:
«...quell’ambiente rappresentava, fino a qualche secolo fa, il cardine del sistema di
trasmissione delle conoscenze. Tutte le conoscenze, non solo [...] quelle al confine
con le cosiddette “abilità”. Le complesse conoscenze dell’ingegneria romana, ne-
cessarie a progettare e realizzare opere di statica e di idraulica ancor oggi funzio-
nanti, venivano così trasmesse» (Antinucci 2001, p. 22). L’esperienza pratica da
agganciare, nell’IFP, è in primis quella che si realizza all’interno del laboratorio,
ma anche quella che avviene nella vita quotidiana, a casa o con gli amici; perché
l’esperienza riesca a diventare uno spazio di apprendimento, è però necessario che
essa dia luogo ad una riflessione.
5.2.1. Dalla pratica alla teoria e viceversa
I ragazzi dell’Ifp sono abituati al concreto e avvertono la necessità di visualiz-
zare e manipolare i concetti. Con loro, la strategia normale è quella che li guida a
passare dal concreto all’astratto, dall’osservazione/manipolazione alla “matematiz-
zazione” del fenomeno osservato. Ma è possibile anche il percorso inverso, in cui
un problema matematico apre lo sguardo e stimola ad una osservazione più acuta
dei fenomeni (Castelnuovo 2008, pp. 17 sq.) o ad una loro messa in discussione che
porta a sollevare nuove questioni:
molto spesso noi parliamo della matematica che [...] riceve stimoli dalla parte pratica. A
volte, invece, funziona il percorso inverso, e questo contribuisce sempre a migliorare il
clima di collaborazione tra insegnanti ma anche ha un ritorno effettivo di maggiore atten-
zione. Io parto sempre, proprio per abitudine, dal concreto, tanto che, se, per esempio,
devo parlare con i meccanici di un cilindro, mi riferisco ad una barra di metallo. Nel caso
specifico che voglio raccontare, parlavo del cilindro di un autoveicolo, e ovviamente mi
è venuto spontaneo parlare di cilindrata e quindi del calcolo del volume, dando per scon-
tato, in quel momento, che l’insegnante di pratica avesse già parlato loro di cilindrata,
cosa che invece non era successa; per questo ho descritto sommariamente io il concetto,
ma la cosa divertente è stata che l’insegnante di pratica mi ha detto: “Sono arrivati da me
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chiedendomi informazioni sulla cilindrata; ho dovuto fare una lezione intera sulla cilin-
drata...”. Qual è stato il ritorno, nella lezione successiva? È stato che gli allievi avevano
colto il collegamento, ma questa volta non era la matematica che prendeva spunto dalla
pratica, ma la matematica che suscitava elementi di curiosità da riportare nella pratica.
I ragazzi poi mi chiedevano altri stimoli simili a questo per [...] “farsi belli” con gli inse-
gnanti di laboratorio [...] e dire loro: “Prof, ma io so che esiste anche questo e que-
st’altro...”. Ciò ha portato ad una maggiore considerazione dell’insegnamento della mate-
matica, proprio perché hanno colto loro stessi che c’erano dei punti che permettevano di
sviluppare, di anticipare addirittura, elementi che poi avrebbero visto nella parte profes-
sionale. Dunque c’è stato un miglioramento del clima di attenzione e dell’aspettativa da
parte della classe (FGMat5/4);
Anche i concetti matematici possono dunque guidare ad un’esplorazione del
reale, a notare cose, a fare congetture. In ogni caso, il passaggio dalla teoria alla
pratica – e viceversa – appare essere una costante nel lavoro dei nostri formatori.
Qui di seguito riporto alcune delle strategie a cui i nostri docenti dicono di ricorrere
più spesso.
a. Partire da esempi vicini alla loro esperienza e ai loro interessi
I formatori sanno che ognuno è guidato a capire da ciò che gli sta a cuore. Per
questo sono particolarmente attenti ad intercettare gli interessi dei loro allievi e ad
agganciare i percorsi formativi proprio a questi interessi:
i miei problemi li risolvo cercando di scoprire gli interessi che i ragazzi hanno; l’inte-
resse principale sono le moto, le macchine [...] quindi... (FGMat2/177) parto da quelle
cose, sia per la parte di officina, sia per la parte di disegno, sia per la matematica; [...] un
esempio molto pratico sono i cataloghi delle moto e delle macchine, dove le macchine
sono rappresentate in sezioni ortogonali; di solito, partiamo da lì, per vedere le proiezioni
ortogonali. Sono cataloghi molto complessi, però sono cose che loro conoscono già [...]
(FGMat2/179);
come esempio porto un esercizio che ho fatto su un problema pratico con le proporzioni.
Ho pensato a cosa si potrebbe fare per portare questo argomento sulla realtà [...]. Si po-
teva, ad esempio, applicarlo a dei modellini di macchina o di moto, che vengono venduti
anche in commercio e di cui i ragazzi sono in possesso. Allora ho chiesto a chi ne aveva
alcuni, di portarli a scuola, moto o macchine, chiedendo anche, nel contempo, di cercare
su internet o su delle riviste specializzate le misure reali, perché volevo fare un con-
fronto tra queste e la scala scritta sul modellino e verificare se veramente era così. Si
trattava di confrontare la misura del modellino con quella reale, cioè di verificare queste
misure tramite una proporzione (FGMat4/36). [...] Potevano portare Quattroruote o altre
riviste di auto; [...] si poteva cercare in internet, [...] digitando il nome del mezzo che si
cercava. Una volta portati a scuola i modellini, abbiamo costruito una tabella in cui c’e-
rano l’altezza del modellino, l’altezza reale del mezzo e la scala. Abbiamo poi utilizzato
una formula [...] standard, che è appunto una proporzione: misura modellino sta a misura
reale, come 1 sta alla scala. Abbiamo di volta in volta fatto degli esempi. Una volta, ab-
biamo posto che conoscevamo come dati la scala e la misura reale e dovevamo verifi-
care se la misura del modellino coincideva con quella dichiarata; scambiavamo l’inco-
gnita insomma; così i ragazzi potevano constatare che si potevano confrontare su oggetti
che anche loro possedevano, che toccavano con mano ogni giorno, per capire che cosa
significava, per esempio, “1:34”. Poi [...], come possibile sviluppo, ho pensato che si po-
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teva confrontare, per esempio, la piantina della scuola o della classe con i piani antin-
cendio, fatti in autocad, che hanno la scala di riferimento; si tratta di far misurare ai ra-
gazzi la loro aula e di verificare se corrisponde effettivamente anche quella disegnata
sulla mappa, oppure di lavorare con le mappe geografiche, che si possono reperire
sempre su internet o sugli atlanti. Questo viene fatto, di solito, con una prima classe
(FGMat4/38);
era il periodo dell’esame per la patente dello scooter; per combinazione, in una seconda
entra l’insegnante di educazione fisica del liceo che condivide la struttura con noi e pro-
pone una specie di doposcuola per prepararsi all’esame teorico per la patente. Alcuni ra-
gazzi colgono l’occasione al volo, tirano fuori il libricino dei quiz e, da quel momento,
praticamente, sono impossibilitato a continuare la lezione che avevo programmato. Per
fortuna, mi è venuta l’idea di chiedere a qualcuno quali dimensioni avesse effettivamente
secondo lui il motore del motorino, del “cinquantino”, per prendere la patente del quale
stava studiando. [...] Nessuno mi ha risposto dandomi una dimensione fisica; tutti quanti
mi hanno risposto dicendo: “più o meno così”, facendomi il gesto; ho insomma visto fisi-
camente le risposte. Ho allora pensato di fare costruire a ciascuno dei ragazzi 2 cubetti da
1 cm di lato. La cosa divertente è stata intanto vedere i ragazzi stupiti di come, da un fo-
glio di carta, si poteva tirar fuori un cubo, perché molti di loro non avevano la più pallida
idea di come si sviluppasse un cubo su un piano, per poi ripiegare i sei quadrati e attac-
carli; un’altra cosa molto divertente è stata vederli alle prese con questa piccolissima
cosa, magari alcuni con delle mani enormi; bene o male, tutti sono riusciti a farsi i 2 cu-
betti; chi ha finito per primo ha ricevuto la consegna di farne un terzo, in modo tale da
arrivare a fare 50 cubetti in tutta la classe. Fatto questo, abbiamo messo insieme i 50 cu-
betti che avevano costruito e quindi siamo riusciti a determinare la dimensione di 50 cm3,
che è il volume del motore del cinquantino. Fatto questo, si sono resi conto tutti quanti
che era molto più piccolo di quanto immaginavano; da lì ho poi preso spunto per far no-
tare l’importanza delle varie unità di misura e per far cogliere i vari aspetti delle fasi di
costruzione; la lunghezza l’hanno misurata in cm [...]; il singolo quadratino aveva l’area
di 1 cm2, perché aveva due dimensioni, il cubo aveva tre dimensioni, quindi il volume si
doveva calcolare in cm3. Nelle lezioni successive ho poi sviluppato questa linea, pas-
sando dalle unità di misura di lunghezza alle altre, prendendo spunto per collegare le
varie unità di misura tra di loro [...] (FGMat4/32).
Il punto di partenza di un percorso di matematica possono essere gli interessi
esplicitati degli allievi e che i formatori hanno l’abilità di cogliere, come ad
esempio, le moto o le macchine. Diversi sono i concetti matematici che sono impli-
cati nei casi che i nostri formatori riportano: il rapporto di scala, la trasformazione
geometrica che consente di rappresentare un oggetto di grandi dimensioni in un
modellino o, come nel caso delle mappe, una porzione della superficie dell’edificio
o del territorio su un piano; il volume dei solidi ecc. Il racconto di V. (FGMat4/32),
che insegna a Genova, è interessante anche rispetto a come una lezione possa na-
scere dalla situazione, cogliendo gli spunti che anche gli imprevisti possono offrire.
b. Partire da fenomeni chimici o fisici e farne cogliere la struttura sottostante
L’aggancio agli interessi dei ragazzi e il procedimento induttivo dalla pratica
alla teoria funzionano anche per insegnare fisica o chimica. Vediamo alcuni esempi
tratti dai racconti dei formatori impegnati con queste aree disciplinari:
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cerco sempre di partire dall’esempio pratico, concreto, per poi risalire al concetto teorico
[...]; non so, [...] sulla dilatazione termica, devi fare vari riferimenti al ghiaccio, alla bot-
tiglia che mettono nel frigo [...] o nel freezer e che magari qualcuno si accorge che è
scoppiata. [...] Qualcuno rimane stupito per il fatto che si verifica questo; allora partiamo
da lì e andiamo a vedere i cambiamenti di stato; [...] dall’esempio pratico poi ritornano
alla teoria (IntMi2/24); [...] (direi che è importante) partire [...] sempre e comunque da
un’esperienza diretta e non dalla teoria [...], perché se no, si fa fatica a catturare l’atten-
zione [...]; è chiaro che ad un formatore nuovo, che non ha mai provato, viene da dire:
“Seguo il libro, l’argomento è questo e vado”; però è chiaro che, tenendo presente l’in-
terlocutore che abbiamo, devi partire da loro, cioè da quello che in quel momento è il
loro interesse, per attirarli, per catturare l’attenzione [...] (IntMi2/34);
l’esperienza che porto è quella di una terza grafici, in cui ho provato a far loro vedere che
la fisica poteva interessarli, utilizzando una bussola. Quando mi hanno visto entrare con
una bussola, hanno detto: “Finalmente ci porta qualcosa di simpatico”. Qualcuno si ricor-
dava di averla vista agli scout, qualcun altro non ne conosceva neanche l’esistenza. La
prima cosa che ho fatto non è stata di far loro vedere la bussola; l’ho lasciata sul tavolo,
ho portato i geomag [...] che praticamente sono dei magnetini; ne ho consegnati due a
testa; qualcuno [...] ha cominciato a giocherellare, a metterli sopra il banco; c’era chi li
metteva sopra, chi li avvicinava; per capire il polo nord e il polo sud dei magneti, avvi-
cinavo i magneti alla bussola [...]. Ma la cosa interessante [...] è che io poi ho fatto loro
utilizzare questi magneti avvicinandoli ad oggetti a loro familiari, tipo il cellulare [...]
oppure le loro cuffiette dell’iPod, facendo loro vedere che c’era qualcosa di strano che
attraeva. Loro forse, in quel caso, hanno capito che quest’argomento poteva in qualche
modo riguardarli ed è stata una cosa molto positiva, secondo me (FGMat4/3). Lo scopo
finale era di aiutarli a rendersi conto che l’elettromagnetismo, il magnetismo in senso
stretto, li riguardava, che gli oggetti che avevano intorno a loro erano degli oggetti che
alla base avevano qualche fenomeno elettromagnetico; il fatto che funzionassero l’acceso
e lo spento si basava su meccanismi sicuramente per loro ancora astratti [...] ma tali da far
dire: “Qui c’è qualcosa che possiamo imparare e che ci può anche servire!” (FGMat4/5);
Nell’episodio raccontato da A. (IntMi2), che insegna Scienze nel CFP di Mi-
lano, notiamo che l’aggancio ad un fatto quotidiano che genera stupore, come la
bottiglia ghiacciata che scoppia, consente di sviluppare un percorso sulla dilata-
zione termica e sui cambiamenti di stato. Nel caso M. (FGMat4/3-5), che insegna a
Mestre, il percorso sul magnetismo prende avvio da piccole esperienze che coin-
volgono anche oggetti di uso quotidiano e consentono agli allievi di toccare con
mano che l’argomento “li riguarda” e che imparare “può servire” a qualcosa.
Nell’episodio che segue, lo studio dell’onda e del fenomeno della vibrazione
prendono avvio da esperienze di ascolto musicale, svolte fra l’altro con sensibilità
interculturale da P. (FGMat2/262-268), che insegna a Roma e ha a che fare con ra-
gazzi di diversa provenienza geografica e culturale:
per esempio, in classe ho un diffusore ad alta fedeltà; allora [...] lo collego all’oscillo-
scopio e faccio loro vedere la variazione del segnale, a diversi volumi, che cosa varia,
anche dal punto di vista elettronico, partendo dall’ascolto della musica; magari riesco a
[...] far loro capire che il rumore è nato dalle vibrazioni e che si può riprodurre elettroni-
camente attraverso un oscilloscopio; è una cosa che a loro visivamente risulta molto più
immediata [...] (FGMat2/262). Con i ragazzi di prima, siccome abbiamo proiettato dei
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video, abbiamo fatto un filmato su come si prepara il crème caramel [...], facendo le
riprese in cucina; [...] qualche ragazzo ha fatto il montaggio e poi abbiamo fatto la ripro-
duzione del filmato in sette lingue diverse (FGMat2/264); [...] in quella classe, quel-
l’anno, avevo persone di sette nazionalità diverse e praticamente, oltre all’italiano, c’e-
rano l’arabo, il rumeno, l’albanese, il tedesco, lo slavo e un’altra lingua che adesso non
ricordo. Insomma, i ragazzi [...] potevano rivedere [...] il montaggio del filmato in sette
lingue diverse e, per ogni filmato, c’era la musica adatta, la musica di quel paese. Per
esempio, i ragazzi di origine magrebina non potevano mettere Claudio Villa; allora ho
detto: “Portami un cd, dammi il titolo che poi te lo scarico io da internet” [...]. Allora,
praticamente per ogni filmato ho messo le musiche loro; per il ragazzo rumeno, quel-
l’anno c’era un brano che andava fortissimo, che era “Dragostea”, allora io gli ho messo
quella; ai ragazzi arabi ho fatto una cosa che non so nominare, comunque ho messo un
brano in arabo, cose carine, perché i ragazzi bene o male vedevano che tutto sommato la
cultura passa anche attraverso diversi mezzi (FGMat2/266); per quanto riguarda lo studio
della forma dell’onda o [...] della vibrazione [...], cercavo di utilizzare le stesse musiche
che ho utilizzato in quel filmato (FGMat2/268).
Spesso, i formatori sostengono l’utilità di insegnare parallelamente matematica
e scienze, fisica e chimica, ma anche elettrotecnica o tecnologia, perché questo
consente di agganciare i vari percorsi e soprattutto di togliere la matematica dal-
l’isolamento che sembra relegarla in un mondo a sé:
ho la fortuna di insegnare non solo la matematica, ma anche la chimica e la fisica
(IntMe3/112); la chimica e la fisica ci propongono dei problemi veramente completi
(IntMe3/116), [...] di analisi del mondo (IntMe3/118). Per esempio, una cosa molto bella,
che si studia in meccanica [...] (IntMe3/120), [...] è l’analisi dei metalli, perché, di fatto, il
meccanico medio si trova a lavorare in primis con il metallo in tutte le sue forme, poi si
specializzerà nella gomma, piuttosto che nel pellame [...] ma il metallo è il primo impatto.
Ora, il metallo ha alla base della sua struttura dei solidi molto precisi, per esempio dei
cubi, in cui ogni atomo del metallo sta in un punto particolare; per capire le caratteristiche
del metallo, devo conoscerne bene la sua struttura interna, ma come faccio a conoscere la
struttura di un cubo, se non ne conosco le proprietà matematiche? (IntMe3/122). Questo,
per esempio, offre la possibilità di un continuo collegamento. Allora, per me è più sem-
plice insegnare matematica, partendo da un fenomeno con il quale loro hanno a che fare o
su cui sbattono il naso quotidianamente (IntMe3/124). Sappiamo che il ferro ha determi-
nate caratteristiche, [...] perché, a seconda della temperatura a cui si trova, la sua struttura
interna cambia (IntMe3/128). Come cambia? Beh, bisogna partire dalle origini, la strut-
tura interna di [...] un cristallo di ferro è un insieme di celle fatte a cubo in cui gli atomi si
posizionano in determinati punti. Alzo la temperatura? Il cubo rimane, ma gli atomi si
mescolano e acquisiscono nuove posizioni. Come faccio a capire che posizioni assu-
mono? Come sono cambiate le distanze tra un atomo e l’altro? Come studiare l’area della
nuova cella che ovviamente cambia, perché si gonfia oppure si comprime? (IntMe3/130).
Studio l’analisi del cubo tridimensionale, ne studio il lato, ne studio l’area delle facce, ne
studio il volume; in questo modo mi faccio un’idea di come le cose possono cambiare e
di come, alzando la temperatura di 200°, 300°, effettivamente passo da una struttura del
ferro ad una struttura tutta differente, che per esempio non potrebbe rispondere alle mie
esigenze di lavorazione (IntMe3/132). Si è sempre con i piedi per terra e [...] si cerca
sempre di capire se a loro serve o meno. Diciamo che i ragazzi rispondono meglio ad un
approccio di questo tipo, che ad uno studio astratto della geometria tridimensionale
(IntMe3/134). Loro non riescono a fare il collegamento: “So come funziona il cubo, al-
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lora capisco come funziona il metallo”; non è immediato per loro questo passaggio
(IntMe3/136). Sono passaggi logici che vanno fatti alla rovescia (IntMe3/138), all’interno
di una logica che non è deduttiva [...], ma forse induttiva (IntMe3/140): da come stanno le
cose, provo a capire che logica c’è sotto (IntMe3/142); se io do gli strumenti, quel per-
corso dell’ “allora vuol dire che...” riescono a farlo, viceversa no (IntMe3/144);
ho sempre cercato [...] di creare dei collegamenti con quelle materie che loro ritengono
adattabili più all’atto pratico. Per esempio, nel settore elettrico, loro vedono l’elettrotec-
nica come una materia che risulta loro più utile, mentre la matematica è un mondo a
parte; durante le lezioni, cerco quindi di creare dei collegamenti con l’elettrotecnica. Per
esempio, per spiegare le equazioni di primo grado, [...] ho ripreso la legge di Ohm: “R =
V/I; conosci ‘R’, conosci ‘I’, devi trovarti ‘V’...”, [...] perché per loro – non so quale sia
il meccanismo mentale – se, al posto delle lettere “R”, “V”, “I”, ci sono altre lettere o ci
sono numeri, già si confondono. Quindi piano, piano, si tratta di abituarli ad un discorso
scientifico – cerco di parlare sempre in maniera più scientifica possibile –, sapendo che i
risultati non li posso ottenere dopo uno o due mesi, ma probabilmente alla fine dell’anno,
cercando di fare degli esempi matematici; stiamo parlando di matematica e parlo di ma-
tematica; poi è chiaro che ogni tanto faccio l’esempio con l’euro [...] o con le mele, le
pere e frutti vari, però in linea di massima il linguaggio che io cerco di tenere è quello
scientifico (FGMat2/205).
Nell’esperienza di E. (IntMe3), risulta utile collegare la matematica con altre
scienze, come la chimica e la fisica, e aiutare i propri allievi a scoprire la struttura
matematica che sta alla base di numerosi fenomeni di cui si occupano quelle
scienze e che può essere resa accessibile allo sguardo. Per la stessa ragione,
F. (FGMat2) cerca di costruire dei collegamenti tra la matematica e l’elettrotecnica.
Del resto, senza la matematica, non sarebbero nemmeno pensabili gli sviluppi
conoscitivi che si sono avuti in campo tecnologico.
5.2.2. Fare riferimento alla “matematica di tutti i giorni”
Il riferimento alla matematica di tutti i giorni può aiutare a percepire che i con-
cetti matematici, in realtà, sono implicati nelle cose che normalmente si fanno e
possono essere visti anche come strumenti utili per agire:
se io dico: “13 caramelle diviso 3 bambini”, loro sanno trovare il risultato ma, se io dico:
“13 : 3”, loro vanno in crisi; se dico: “50 euro diviso 2”, loro sanno quanto hanno in
tasca; [...] li osservo al bar: controllano il resto e dunque sanno quanto devono dare, per
cui non riesco a capire perché poi, nel calcolo, facciano tanta fatica; allora faccio riferi-
mento all’euro, alle caramelle. Per spiegare le frazioni, ho usato la cioccolata: ho portato
le stecche di cioccolata in classe, le ho divise in quadrettini e ho detto: “Bene, ognuno
adesso [...] ne prende una frazione”. “Quanto ne hai preso?”. “Ne ho preso 1/30; con
quell’altro fanno 2/30”. “Ah, bene, e tu?”. Hanno imparato le frazioni così [...], utiliz-
zando un riferimento continuo alla realtà, [...], al supermercato, alle torte che si fanno a
casa, alle caramelle, alla cioccolata [...]. Sono molto sensibili agli Euro (IntVr3/232); si
vede che fanno anche economia (IntVr3/234) [...]. Si tratta di pensare al loro quotidiano,
perché, se parli di cose tanto distanti da loro, non hanno più interesse, però se parli del
iPod, del computer, di altre cose, loro sono informatissimi sui prezzi, ti sanno dire dove
c’è lo sconto e dove risparmiano [...]; vuol dire che il ragazzino lo sa fare il calcolo
(IntVr3/252). Dico: “5:5?”. Mi dicono: “0”. Allora dico: “Scusa, ma se dico 5 caramelle
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diviso 5 bambini, tu quante ne dai a testa?”. “Beh, ne do una” [...]; dividere due quantità
uguali [...] è difficile per loro; [...] con caramelle e cioccolate gli è venuto facile [...]; op-
pure: divisione [...] tra polinomi. Chiedo: “Fate la verifica, la prova”. “Come si fa?”.
Dico: “13 caramelle diviso 3 bambini: qual è il quoziente? Qual è il resto? Che mecca-
nismo utilizzi per verificare se hai diviso in modo corretto?”. Loro mi dicono tutti i pas-
saggi. “Applica quel concetto alla divisione tra polinomi”. Loro vanno in crisi perché ci
sono i polinomi. “Ma se hai individuato la regola giusta per arrivare a quel risultato, con
il caso semplice delle caramelle, perché non la sai trasferire su un caso un po’ più com-
plicato?” [...]. “Non ci riesco, non capisco, ci sono i polinomi”. “Adesso tenta”. Allora si
mettono di impegno e pian piano fanno (IntVr3/254).
MR. (IntVr3) nota che i suoi allievi sono molto abili nel ragionamento pratico
e nell’utilizzo di strumenti di calcolo nella vita quotidiana, in riferimento ad ogget-
ti reali. Non si può dire la stessa cosa quando i ragionamenti e i calcoli riguarda-
no grandezze e relazioni astratte. L’intento suo e di altri formatori, come vedremo
negli esempi che seguono, è di lavorare su entrambi questi piani e di mettere a
fuoco le molteplici relazioni esistenti tra esperienza sensibile e intuizione ma-
tematica:
con alcuni allievi, quest’anno, ho avuto problemi a spiegare la semplice divisione; ho
scoperto che li stimola molto il riferimento all’euro. Ad esempio, ho detto ad una ragaz-
zina di sedici anni, del secondo anno: “Quanto fa 20:4?”, “Boh”. “Se papà ti dà 20 euro e
li devi dividere con 4 fratelli?”. Subito mi ha dato la risposta (FGMat2/38); [...] ...spesso
non c’è interesse che li possa stimolare, mentre un esempio [...] con l’euro risulta per
loro molto stimolante (FGMat2/88);
parto specificatamente dal fatto che dobbiamo utilizzare dei numeri nella vita quotidiana,
anche – succede – per andare a comprare le sigarette, piuttosto che i litri di miscela per
il motorino o un kg di pane [...] (IntMi6/14); [...] soprattutto quando si lega il discorso
al denaro, loro riescono a capire. Non so, il principio dell’equivalenza non riescono a
capirlo in sé [...], fanno fatica. Se uno invece dice: “Va beh, tu hai 10 euro, però i 10 euro
cambiano forma e sono 2 banconote da 5 [...]”, allora nessuno sbaglia. Sono esempi
banalissimi, però nelle prime lezioni, la prima settimana, è quanto basta per creare quel
clima di classe che poi può aiutare nella gestione; vedo che funziona abbastanza
(IntMi6/16);
ad un ragazzo ho detto: [...] “1:2 quanto fa?”, “Non si può fare”, “Sicuro?”, “Sicuris-
simo”, “Va beh, andiamo in pizzeria, siamo io te, oppure tu e la tua ragazza, ordinate due
pizze, ce n’è soltanto una, come fate? La mangi solo tu?”. “No”. “La mangia solo la tua
ragazza?”. “Nemmeno. La dividiamo a metà”. Allora, [...] bisogna rispecchiare la realtà,
cioè partire dal presupposto che, prima che io ti insegni la parte teorica, bisogna andare
sul pratico (FGMat1/14);
la mia strategia è quella di usare delle cose molto pratiche [...] (FGMat2/18). Per
esempio, sulle equazioni di primo grado, ho fatto l’esempio delle salsicce (FGMat2/20),
perché praticamente, [...] quando arrivavamo alla famosa [...] “3x=6”, non riuscivo a far
loro capire perché la x doveva essere 2 [...]. Ad un certo punto, ho detto loro: “Se 3 sal-
sicce le pagate 6 euro, quanto costa una salsiccia?”. E tutti: “2, professore, 2”, “Perfetto”.
Allora diciamo che la salsiccia è la x e che quindi, al posto della x, può essere messa la
salsiccia [...]; da quell’esempio, in qualche modo, hanno cominciato a capire e hanno
risolto l’equazione di primo grado (FGMat2/22);
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mi veniva in mente di proporre ai ragazzi di calcolare quanto costa venire a scuola; [...]
va bene sia che vengano a piedi, sia in bici o in auto, con i genitori, o in motociclo. Si
tratta di calcolare i tempi di percorrenza, la velocità media, il consumo, [...] il carburante,
nel caso del motociclo, oppure – collegato con [...] scienze – le calorie e quanto bisogna
mangiare per rimettere a posto quelle calorie; oppure il consumo per la manutenzione di
una bici; insomma bisogna fare tutti questi calcoli [...] (FGMat4/20);
G. (FGMat4/20) propone il compito di calcolare il costo e i tempi di percor-
renza del tragitto casa-scuola: si tratta di scoprire i dati di cui si ha bisogno, di va-
gliarli, di escogitare una strategia risolutiva del compito. I formatori colgono l’im-
portanza di “andare sul pratico”, di ricorrere ad esempi concreti e di fornire la defi-
nizione solo dopo aver fatto emergere le prospettive e le rappresentazioni degli al-
lievi. È il metodo a cui ricorrono anche S. (IntPd4), che sa che non basta che i ra-
gazzi si fidino e che è importante che essi comprendano, e P. (FGMat2/147-149),
soprattutto in relazione al calcolo letterale:
le difficoltà maggiori per loro riguardano le frazioni, le frazioni non riescono a digerirle
(IntPd4/28); non riescono a capire, non so, perché 1/4 è più piccolo di 5/2; [...] per loro
frazionare significa dividere; a loro il termine “frazione” dà l’idea di “poco”, quindi non
capiscono come una frazione possa essere più di un’unità. Allora, far capire che 5/2 è più
di un’unità, è difficile; bisogna disegnare la torta, far capire che questa torta è divisa in
due e ne prendo una, due e un altro pezzettino, proprio come alle elementari. [...] Quando
spiego le frazioni, metto una lista di frazioni inventate a caso e dico: “Cercate di metter-
mele in ordine crescente, oppure decrescente!” (IntPd4/32); loro guardano o il numera-
tore o il denominatore e sono convinti che [...] sia quello, insomma, il metodo per met-
terle in ordine crescente, allora la volta dopo bisogna spiegare che cosa fare (IntPd4/34);
[...] faccio alzare la mano ad uno e lui mi dice il suo ordine [...] (IntPd4/40), alza la mano
un altro ragazzo e mi dà un ordine completamente diverso; quando siamo arrivati a
cinque o sei persone che dicono cose totalmente diverse, anche loro si rendono conto che
forse c’è qualcosa che non va, perché, se ci fosse un unico modo, sarebbero sei ordini
uguali. E allora da lì, dai loro errori, do io la definizione, spiego come si fa e mettiamo
assieme in pratica quello che abbiamo capito in teoria. Ma io, in tutte le mie materie [...],
cerco di far ragionare prima loro e dopo do io la definizione o comunque faccio la spie-
gazione, perché la tendenza che ho visto nei nostri ragazzi è quella di accettare la “pappa
pronta”, cioè: “Va beh, lei mi dice che è così, mi fido!”; io non voglio che si fidino di me,
voglio che capiscano quello che spiego e che lo imparino (IntPd4/42); [...] in terza, ab-
biamo fatto la curva di domanda e la curva di offerta, i fattori che influenzano l’una in-
fluenzano anche l’altra (IntPd4/48); allora dico: “Perché quest’elemento influenza la
curva di domanda?”. “Boh!”. “Pensateci!”; non ci arrivano e allora lo dico io: “Avete ca-
pito il perché?”, “No, ci fidiamo!”, “No, non ci si può fidare, bisogna capire!”. Allora in-
sisto, faccio esempi pratici, finché loro non sono convinti di quello che dico (IntPd4/50);
un grosso scoglio è il calcolo letterale. Nel secondo anno, gran parte delle molte ore è de-
dicata a questo, forse la cosa più astratta che c’è in matematica [...] (FGMat2/147): un va-
lore alfanumerico. Ho visto che, almeno per le somme e le sottrazioni, anche se qualche
allievo rideva un po’ [...], ha avuto successo [...] utilizzare dei riferimenti concreti; perché
per i ragazzi a+a fa a2. Allora dico: “a+a: che c’è in mezzo?”. “Più”. “Ma che cos’è
questa “a”? Allora dico: “Fa finta che sia una mela; si può sommare una mela a un’altra
mela?”, “Sì”, “Quanto fa?”, “2 mele”, “Quindi non fa una mela alla seconda, fa 2 mele,
avete detto bene”. Poi puoi mettere a+b e far loro vedere che non sono più simili. Che ci
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sia una mela o che ci sia una pera, l’operazione fa sempre mela “+” pera, non può fare
mela “-” pera. Questo li ha un po’ aiutati, almeno per quanto riguarda le somme e le sot-
trazioni. [...]. Per le equazioni [...], lo spunto è che il principio di equivalenza [...] può es-
sere rappresentato da una bilancia. L’equazione è una bilancia in cui, da una parte e dal-
l’altra, distribuisci dei pesi. Nel momento in cui tu aggiungi o sottrai, lo devi fare da tutte
e due le parti. Quindi [...] fai fare degli esempi in cui dici: “Tu hai aggiunto 5, quanto do-
vete aggiungere di là?”. “Anche là 5”. “Perché proprio 5?”. “Perché cerchiamo di scoprire
quant’è questo numero”. Allora la prima parte è andata bene; poi [...] quando hanno capito
il concetto, vado sulla parte un po’ più meccanica, cioè: “Cambi il segno”; quando devi
spiegare, poi ti limiti ad ottenere il coefficiente della x quando devi andare a concludere
quanto è la x; anche lì: “Io ho 2 volte x; se voglio averne una, che cosa faccio?”, “Divido
per due”, “Allora divido per 2 da una parte della bilancia, ma divido per 2 anche dall’altra
parte”. Questo mi sembra che abbia funzionato (FGMat2/149).
Si tratta insomma di guidare processi di comprensione, incoraggiando a socia-
lizzare esperienze, lasciando un tempo adeguato per pensare e soprattutto introdu-
cendo la vita nella matematica, ma senza forzature. Lockhart, anch’egli insegnante
di matematica, ci ricorda infatti efficacemente che molti tentativi di presentare la
matematica come rilevante per la vita quotidiana «...risultano inevitabilmente for-
zati ed artefatti: “Vedete, ragazzi, se conoscete l’algebra potete calcolare quanti
anni ha Maria sapendo che ha due anni più del doppio dell’età che aveva sette anni
fa!” (come se capitasse spesso di avere accesso a questo genere di informazioni
invece che sapere direttamente l’età della fanciulla)» (Lockhart, 2010, p. 33). Gli
ambiti in cui la matematica può diventare utilissima sono in realtà moltissimi.
Vediamo qui di seguito quelli più citati dai nostri formatori.
a. La matematica economica e finanziaria
I docenti fanno spesso riferimento al contesto economico per dare concretezza
alla matematica e, in particolare, alle operazioni di calcolo numerico. Abbiamo già
visto il ricorso all’Euro come aggancio alla matematica di uso quotidiano. Vediamo
altri esempi più specifici. Un primo ambito riguarda il calcolo dei tassi di interesse:
la percentuale, l’interesse, lo sconto; con i ragazzi del terzo anno ho affrontato questi
argomenti. Ho cercato di portare tutto sul pratico. Allora, prima di iniziare ad affrontare
un argomento, cerco innanzitutto di far nascere il problema; poi si cerca di risolverlo
insieme (FGMat2/40); [...] per quanto riguarda la percentuale, parto ad esempio dal
problema dell’interesse su un prestito che chiediamo in banca (FGMat2/42); abbiamo
bisogno di soldi e non li abbiamo (FGMat2/44) per la nostra attività di pizzeria,
ad esempio – perché io insegno in un corso di cucina – (FGMat2/46); [...] andiamo a
chiedere un prestito; [...] prima di farci prendere in giro dal malintenzionato di turno,
dobbiamo fare i conti, dobbiamo sapere che interesse andremo a pagare su questo pre-
stito, in quanto tempo [...]; in questo modo, creo il problema, creo anche le condizioni
per affrontare il problema (FGMat2/48). Rispondono bene, perché ho scoperto, appunto,
che l’aspetto economico li interessa (FGMat2/50), li tocca da vicino (FGMat2/52);
[...] si parla di competenze sul fatto che sappiano fare un bilancio personale o familiare
dal punto di vista economico; faccio loro vedere, per esempio, prendendo qualsiasi gior-
nale di quelli che regalano agli angoli delle strade, come l’offerta dei prestiti, in realtà,
possa presentare degli aspetti assolutamente preoccupanti, in alcuni casi, perché ti
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dicono: “Ti diamo 10.000 euro, se li restituisci in rate di 50 euro l’una”; poi uno fa il
calcolo e si rende conto che restituisce tre volte tanto; ovvio che ci siano gli interessi ma,
se non viene scritto quale interesse è applicato, ci sono dei rischi. [...] Nel momento in
cui questi ragazzi arrivano a 17 anni e vanno a lavorare, non è che avranno tante altre
possibilità di avere informazioni minime, di base, per evitare poi di trovarsi vittime di
fregature; [...] faccio l’esempio del mutuo sulla casa; [...] su queste cose, anche solo per
sentito dire dai genitori, si interessano molto (IntMi6/30); [...] in queste cose in cui hanno
degli appigli concreti con il loro settore, con la loro realtà o comunque con il denaro, loro
seguono sempre e sono anche pieni di domande [...] (IntMi6/50).
S. (FGMat2/40-52) pone un problema (il calcolo dell’interesse su un prestito)
ed incoraggia, attraverso la discussione, alla ricerca di strategie risolutive; utilizza
le conoscenze che i ragazzi hanno già maturato nelle loro esperienze e le indirizza
verso il sapere matematico. Anche R. (IntMi6) pone i suoi allievi di fronte a pro-
blemi analoghi a quello visto sopra. L’atmosfera che si crea è particolarmente
vivace: gli alunni pongono domande e, insieme al docente, cercano delle risposte.
Un altro esempio, citato da parecchi formatori, è il caso dell’acquisto del mo-
torino, che comporta anche tutta una serie di ragionamenti di tipo matematico, an-
cora una volta relativi al calcolo degli interessi su un prestito e in collegamento con
l’insegnamento di Economia:
in seconda c’è un modulo che è più economico e allora si studia l’interesse commerciale,
anche qui con esercitazioni pratiche; quest’anno il modulo era sull’acquisto di un moto-
rino: “Come faccio io, quindicenne, ad acquistare un motorino, se ho solo un po’ di ri-
sparmi miei [...]?”. Allora si introducono le varie grandezze matematiche e, non so, si
pone il problema della restituzione di un prestito alla famiglia: “Però, se mi chiedono gli
interessi?”; loro fanno un lavoro anche su questo (IntMi3/33). [...] In economia azien-
dale, [...] al di là dell’esercitazione sull’“acquisto del motorino”, vediamo anche delle
implicazioni su che cos’è l’economia nella vita di tutti giorni, su che cosa vuol dire chie-
dere un prestito ad una banca, piuttosto che a tutte queste società che adesso ci possono
prestare i soldi, su come restituire; poi sono loro stessi che cominciano a farti domande:
“Vado in un supermercato, acquisto una lavatrice; posso prenderla a rate: cosa vuol
dire?” oppure: “Quella pubblicità alla televisione sulla finanziaria...” [...] (IntMi3/113);
informatica e matematica, soprattutto al secondo anno, vanno a braccetto [...]. Al
secondo anno, l’insegnante di matematica presenta il problema di un allievo che vuole
acquistare un motorino – e già qui la motivazione cresce –; l’idea è di costruire un file
di excel [...] applicando le formule [...] (IntMi4/11): “Allora, riporta in questa colonna
l’attivo [...], adesso fai un secondo foglio con il passivo e sul terzo foglio mi fai il
bilancio, cioè devi prendere l’attivo e il passivo...”; la parte drammatica da far capire è
che il motivo per cui si fa un prestito e si chiede l’interesse è avere il motorino subito; lo
so che, se tu lavori, non hai nessun passivo, però il motorino ce l’hai tra due mesi, non ce
l’hai adesso [...] (IntMi4/13);
con i ragazzi del primo anno, lavoriamo su interesse, sconto, interesse semplice e inte-
resse composto. Poniamo il caso di un acquisto [...]: “Acquistate un motorino. Siete pro-
mossi quest’anno e i vostri genitori vi regalano un motorino, ma non hanno i soldi per
comprare il motorino, lo fanno con un finanziamento. Che cosa significa TAIG, TAN...,
andiamo a calcolare l’interesse”. Si conquista l’attenzione dei ragazzi, magari collegano
la matematica con una cosa che a loro piace, il ciclomotore, e viene molto più semplice
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capire la formula che scrivo alla lavagna; quindi partire dall’esperienziale, almeno per
quanto riguarda la matematica, serve molto per motivare i ragazzi con qualcosa che piace
loro effettivamente; in questo modo, è molto più semplice andare a risolvere determinati
tipi di problemi (FGMat1/49).
Il motorino accende interesse e offre la possibilità che ciascuno impari facendo
concretamente o vedendo fare calcoli e bilanci, con i compagni e il docente. Un
altro esempio riguarda il calcolo dello sconto negli acquisti e dunque un lavoro
basato su proporzioni e percentuali:
il calcolo di percentuali [...] lo faccio fare entrando in un negozio: ci sono tanti bei ve-
stiti; un vestito mi piace moltissimo e ha lo sconto del 15%; il prezzo è questo; calcolami
quanto spendo (IntVr3/244);
cerco di partire, se posso, da problemi reali; ad esempio, ho appena finito di fare i rap-
porti, le proporzioni e le percentuali, e una delle cose che ho fatto è stata di portare dei
volantini con gli sconti, per vedere [...] se gli sconti erano giusti, cosa conveniva loro
ecc. Oppure [...] si può partire, non so, dal prezzo di listino, aggiungere l’IVA, togliere lo
sconto; [...] la cosa è piaciuta ai ragazzi, sono stati interessati e mi sembra che abbiano
lavorato bene. Certo l’argomento è facile, nel senso che è reale, il problema degli sconti
se lo trovano per strada [...] (IntVr8/2);
[...] ai ragazzi del primo anno preparo a casa una lista della spesa, con tanti prodotti e il
prezzo scritto su ciascuno [...]: “Ditemi quanto avete speso alla fine!”; l’esercizio si tra-
duce in tutta una serie di operazioni, addizioni, sottrazioni: “Andate al supermercato,
provate a calcolare con la calcolatrice quanto spendete” [...] (FGMat1/49).
Altri formatori – che magari operano negli indirizzi legati al settore terziario –
fanno lavorare i propri allievi su bilanci e partite doppie:
ho fatto fare un po’ di economia in matematica: [...] “Se questo soggetto guadagna 1000
euro e vuole comprarsi un televisore, dell’abbigliamento, vuole pagare le bollette
(IntVr3/250) ...e non vuole rubare (risata), vuole starci dentro, come fa?”. Allora ab-
biamo fatto tutta una serie di valutazioni economiche, utilizzando anche i numeri; poi
[...] ho fatto fare loro un piccolo bilancio [...], con costi e ricavi... (IntVr3/252);
la mia prima esperienza di formatore professionale, l’ho fatta con allieve del settore del
terziario, in una classe composta circa da venticinque ragazze [...]. Sono riuscito a far
conoscere loro la prima nota e la partita doppia, matematica finanziaria settoriale, e il
calcolo computistico; la mia matematica è questa [...]. La positività di quest’esperienza è
che sono riuscito a far sì che queste ragazze capissero la complessità della contabilità, por-
tandole ad un punto tale, che, alla fine del percorso formativo, riuscivano a fare le schede
clienti e fornitori [...], con tanto di [...] dare e avere, entrate e uscite, carico e scarico
(FGMat1/14); [...] dico sempre che la contabilità è come una camicia, tanti bottoni e tante
asole; c’è poco da fare, se tu ti metti un bottone fuori posto, la camicia non ti sta bene. È
stata una grossa conquista, [...] perché le ragazze non erano abituate a fare dei ragiona-
menti del genere: cos’è la prima nota? Cos’è la partita doppia? [...]. Tale lavoro non è
durato un’ora ma tutto l’anno; si trattava si far capire determinate cose: l’entrata e l’uscita
di cassa, l’ammortamento [...] (FGMat1/122); [...] una ragazza dice: “Ma io devo dare o
devo ricevere?” [...]; la cosa fondamentale l’ho fatta capire alle ragazze con la cassa: “Se
io oggi non ho niente nel portamonete, complessivamente quanto ho?” “Niente”. “Se io
oggi ricevo lo stipendio, che è pari a 1000 euro, complessivamente quanto ho?”, “1000”.
“Se oggi ho 1000 euro e ho dovuto dare 500 euro a mia moglie, complessivamente quanto
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ho?”, “1000 – 500 fa 500”; “Se oggi devo pagare una bolletta di telefono che costa 100
euro, quanto mi rimane?”. “Allora, 1000 entrata cassa, 500 le ho date a mia moglie, 100...
ma 100 dove va? A destra o a sinistra?”. “Sceglilo tu”. Sbagliavano. Alla fine facevano i
conteggi, perché dovevano bilanciare, e c’erano quei 100 euro in più. “Allora ci sarà un
errore!”. L’errore lo dovevano capire loro [...] (FGMat1/124).
Un ulteriore esempio riguarda il calcolo del prezzo di un prodotto, magari di
quello effettivamente realizzato nel laboratorio professionale:
un altro esempio che posso portare è relativo a quando [...] un ragazzo doveva fare il cal-
colo del costo di un cocktail, a partire dai quantitativi che utilizzava per realizzarlo, par-
tendo quindi dai costi unitari, arrivando al costo parziale dei quantitativi e al costo totale
del cocktail; si trattava di fargli capire che un normale pub vende quel cocktail ad una
cifra che corrisponde a otto, dieci volte il costo iniziale, e di fargli comunque capire che,
nella realtà, i costi sono molto più alti dei prezzi delle materie prime, perché il commer-
ciante deve comunque guadagnare per poter gestire un locale in un certo modo [...]
(FGMat4/156). [...] Davo loro la ricetta di un cocktail, ad esempio un Manhattan o un Dai-
quiri [...], che normalmente era in vendita nei pub della zona. [...] Da internet, scaricavo i
prezzi reali e, dai colleghi di sala, mi facevo dare il prezzo all’ingrosso, cioè il prezzo di
quel liquore che [...] il barista usa. Indicavo quindi i quantitativi; loro dovevano affrontare
la questione delle frazioni e dovevano capire, che ne so, la frazione espressa in decimi.
Avevano diversi componenti che servivano a realizzare quel cocktail; da lì ricavavano la
quantità in capacità, quindi in centilitri; dando loro il prezzo al litro praticato dal grossista,
loro ricavavano quanto costava realmente quel cocktail al produttore, cioè al barista. Veri-
ficavano, ad esempio, che un Manhattan, presi tutti i componenti, acquistati uno per uno
all’ingrosso, facendo tutti i calcoli parziali, totali e via di seguito, veniva a costare neanche
1 euro, magari 70, 80 centesimi, perché logicamente il barista [...] non è che va a comprare
al negozio, all’enoteca, va dal grossista, dove magari compra 10 litri di whisky, 15 litri di
creme varie, che servono per la realizzazione del cocktail. Fatto questo, facevo confrontare
il risultato da loro raggiunto, con il listino del pub o della discoteca. Insomma, pratica-
mente andavano a verificare, per esempio, che in discoteca quello stesso cocktail lo pa-
gano 8 o 9 Euro ecc. Di conseguenza, con il semplice metodo delle proporzioni, facevo
loro capire quanto era la percentuale di guadagno di un barista che voleva offrire quel tipo
di prodotto e quanto, in effetti guadagna chi lavora e lavora bene [...], perché dietro
comunque c’è anche un ragionamento matematico, che serve ad arrivare alla costruzione
di una attività. Magari si stupivano del fatto che pagavano un cocktail, non so, 9 euro,
mentre, in realtà, come materie prime, costava 70 centesimi. Questo è un modo per cercare
di far loro capire che un ragionamento, se pur relativamente complesso, è fatto di tanti pas-
saggi semplici che però devono seguire un filo logico [...]; che non puoi fare le cose così
come vengono, devi contestualizzare sempre le tue attività. In particolare, la matematica,
in questo caso, era utilissima per fare dei ragionamenti su quanto guadagno e quanto non
guadagno, sul perché quel negozio vende quel cocktail ad un certo prezzo o quell’altro pub
vende lo stesso cocktail ad un altro prezzo. Si tratta di contestualizzare questi discorsi, in
maniera tale che i ragazzi possano capire [...] ad esempio, perché un barista ci guadagna
così tanto. Contestualmente si va a sapere che il gestore del pub deve pagare il personale,
deve pagare le tasse, deve pagare questo e quest’altro [...] (FGMat4/158).
L’economia e la finanza sono dunque contesti in cui diventa possibile appli-
care o esercitare conoscenze di tipo matematico, in particolare quelle legate al cal-
colo, e dunque si presentano come risorse importanti per la didattica.
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b. La matematica statistica
Sempre per rilevare l’utilità delle conoscenze matematiche, diversi formatori
ricorrono anche ad indagini statistiche e sondaggi, come attività specifica, connessa
all’insegnamento della matematica, o come parte di un percorso interdisciplinare
più complesso:
in statistica – chiaramente, si tratta solo di cenni [...] – devono sapere media, moda, media-
na, devono fare un grafico; non è che devono fare chissà quale tipo di calcolo, però a loro
tutto questo potrebbe ritornare utile, proprio nella loro vita, un domani, per organizzarsi con
i clienti, con le ore lavorate, con i flussi di denaro che entrano ed escono (IntMi6/50);
un altro capitolo riguarda [...] la statistica: i ragazzi devono sapere principalmente che
cos’è una media, come si calcolano la mediana e la moda, e devono saper leggere un gra-
fico, un istogramma o un diagramma a torta; [...] questo, per esempio, serve a chi sceglie
di fare contabilità, perché da noi c’è un laboratorio che si chiama “simulazione d’im-
presa”, dove c’è anche l’ufficio marketing; quando loro sono all’ufficio marketing,
hanno delle indagini statistiche sotto mano e quindi applicano quello che hanno imparato
in matematica (IntPd4/26);
di solito, quando, preparo una lezione di matematica finanziaria – seguo le commesse,
quindi ho una matematica abbastanza spicciola –, si parte sempre dalla simulazione di
un’esperienza che avviene nel quotidiano o da un’esperienza che avranno nel periodo di
stage [...]. (Riguardo al) calcolo statistico [...], chiedevo alle [...] ragazze di andare dalle
loro amiche e chiedere il tipo di abbigliamento e la marca che preferivano; [...] è stato in-
dividuato un campione abbastanza grande, per poi arrivare, appunto, con un argomento
che a loro interessa, ad un risultato ben definito (FGMat1/38): un’indagine sondaggistica,
anche soltanto tra le bancarelle del mercato, per vedere chi vende di più, chi vende di
meno, che tipo di marche [...] (FGMat1/40);
quest’anno abbiamo lavorato sul “lavoro”: cosa vuol dire? Vuol dire che in italiano hanno
letto degli articoli sulle problematiche del lavoro in Italia; in etica, hanno affrontato il pro-
blema dello sfruttamento [...] del lavoro minorile; in matematica, hanno costruito un que-
stionario e l’hanno somministrato a degli amici e poi abbiamo fatto la raccolta dei dati e
questi dati sono stati rappresentati attraverso dei grafici: l’istogramma, il grafico a torta
ecc.; [...] in informatica, è stato utilizzato internet, perché dovevano trovare delle ricerche
nazionali; avevo dato io delle indicazioni di siti, da quello dell’Istat ad altri, sul mondo del
lavoro, per cui poi la relazione finale è stata comparare i dati di una piccola nostra inter-
vista – adesso non mi ricordo se erano 50 o 60 interviste – e quelli di una ricerca a livello
nazionale, per vedere quali erano le differenze (IntMi3/33). [...] In seconda, quest’anno,
c’era un’unità in situazione [...] sul tema della diversità, l’anno scorso invece era sul bul-
lismo. Ora, come si collega questo alla matematica? Pur non affrontando in seconda la sta-
tistica [...], che viene fatta in terza, i ragazzi hanno già teoricamente acquisito [...] il calcolo
delle proporzioni, le percentuali [...]. Quindi alcuni dati che loro raccolgono o leggono in
alcuni articoli [...], poi vengono rielaborati anche in matematica, perché viene ripreso l’ar-
gomento proporzioni, l’argomento percentuali; [...] se prendo un articolo del “Corriere” che
mi presenta una tabella, come faccio a leggere quella tabella, se non ho conoscenze mate-
matiche? [...] (IntMi3/67). [...] L’anno scorso, in una classe di terza elettro, tutti maschi, ap-
passionati di calcio, facevamo le indagini statistiche su chi aveva segnato più goal in serie
A, oppure [...] la media inglese sulle classifiche che sono riportate sulla “Gazzetta dello
Sport” [...]; avevo trovato degli esercizi su un testo che analizzava, all’interno di una
poesia, se veniva ripetuta di più la lettera “A” o la lettera “B”, e poi dovevi fare tutte le per-
centuali; al posto della poesia, avevo scelto una canzone di Ligabue (IntMi3/121).
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Nei racconti dei formatori, l’uso della statistica è spesso connesso a scenari
reali (l’ufficio marketing nell’impresa simulata, il sondaggio di opinione tra le ban-
carelle del mercato o con i compagni del CFP) e consente di rappresentare in modo
conciso, ad esempio attraverso il ricorso a diagrammi, la distribuzione di frequenza
di eventi che fanno parte della vita di tutti i giorni. Nel racconto di C. (IntMi3), il
ricorso alla statistica avviene all’interno di complesse unità interdisciplinari, come
apporto specifico del sapere matematico all’indagine su un tema (negli esempi
riportati, il lavoro, la diversità, il bullismo, lo sport ecc.) e fa cogliere come la ma-
tematica possa essere uno strumento importante per organizzare dati e analizzare
fenomeni sociali. Del resto, la capacità di leggere e interpretare grafici e tabelle, a
cui anche l’informazione fa ampio ricorso, fa parte delle competenze essenziali
anche per esercitare il proprio diritto di cittadinanza.
c. La matematica in cucina
Per i docenti che operano in CFP con indirizzi alberghieri, è frequente il ricorso
al contesto alimentare, con il calcolo delle calorie o delle proporzioni di ingredienti
che servono per realizzare una ricetta15:
per capire l’importanza del concetto di “proporzione”, è meglio [...] fare riferimento alla
pratica. La ricetta è un esempio di proporzione (FGMat2/62); [...] spesso vado a trovarli
in laboratorio e mi rendo conto se applicano effettivamente la proporzione o meno
(FGMat2/64); [...] il cuoco è molto pratico, nel senso che, se per 1 kg di farina occorrono
200 g di zucchero, per esempio, il cuoco direbbe che, se ne mettiamo 250, la torta viene
un po’ più dolce, ma la questione è che, in termini di proporzione, la cosa sballa...
(FGMat2/66); [...] si cerca sempre [...] di trovare un riscontro nell’attività pratica che
fanno questi ragazzi, [...] cioè di trovare dei collegamenti o comunque di porre loro dei
dubbi su cose effettivamente quotidiane (FGMat2/76);
(abbiamo) un corso per cuochi e un corso per tipografi; facciamo la preparazione di una
marmellata che poi può essere venduta; [...] i cuochi hanno preparato la marmellata, i
tipografi hanno preparato tutte le targhette con gli ingredienti, e hanno fatto entrare la
matematica per il calcolo delle calorie (FGMat1/114).
La matematica quotidiana è insomma la matematica che si può incontrare nella
vita di tutti i giorni, alle prese con diversi compiti. Non è che tutta la matematica
debba essere ricondotta a questo tipo di ragionamenti; esiste certamente anche una
matematica la cui «bellezza consiste proprio nella sua totale irrilevanza per la
nostra vita» (Lockhart, 2010, p. 32). I formatori, con i loro esempi, ci rivelano però
che proprio i contesti pratici e quotidiani possono essere il luogo in cui si attivano
ragionamenti di tipo matematico (magari anche “alimentando dubbi sulle cose quo-
tidiane”) e che, per diversi ragazzi che frequentano i CFP, proprio da questa via
è possibile talvolta accedere anche all’esperienza della matematica come arte che
affascina e procura piacere (cfr. Lockhart, 2010; Ambrosetti, 2009).
15 Sulla matematica in cucina, cfr. Giusti, 2004.
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5.2.3. Lavorare per problemi
I formatori del CFP sanno che uno dei problemi principali della matematica
scolastica di cui i loro allievi avevano tristemente fatto esperienza nei percorsi pre-
cedenti era l’assenza di problemi autentici o l’avere avuto a che fare solo con insi-
pidi esercizi, che venivano spacciati per problemi, ma che in realtà richiedevano
solo passive esecuzioni. Anche un docente esperto come Walter Maraschini sa
«...quanto una didattica orientata alla posizione e risoluzione di problemi faciliti
l’apprendimento dei concetti o, quanto meno, restituisca un’immagine della mate-
matica meno noiosa e fredda; ponendo problemi e invitando a risolverli, si punta
infatti a far comprendere il senso del processo d’astrazione matematico senza che
scompaiano le questioni reali da cui muovono o a cui si applicano i concetti mate-
matici stessi» (Maraschini, 2008, p. 52). Si tratta allora di suscitare problemi, di so-
stenere lo sforzo che gli allievi fanno per risolverli, di dare il tempo per la formula-
zione di ipotesi, di fornire strumenti, di valorizzare i loro errori, ma anche le loro
scoperte e ciò che essi riescono ad inventare. Vediamo come si articola questa stra-
tegia nei racconti dei nostri formatori.
a. Focalizzare l’attenzione sulla soluzione di problemi, possibilmente posti da loro
Molti formatori fanno l’esperienza che i loro allievi imparano meglio quando
sono attivamente impegnati nella ricerca di soluzioni a problemi concreti, percepiti
come tali:
per quel che ho potuto notare io, i migliori risultati si ottengono quando si lega la mate-
matica ad un capolavoro da fare, oppure a qualcosa che sia di loro interesse; [...] ad
esempio, cerco di spiegare i volumi e le conversioni nelle varie unità di misura per poter
misurare i volumi, ma mi guardano come se parlassi un’altra lingua; nella mia mente
penso: “ma in fondo si tratta del volume di un cilindro, non è che sia...”, ma ottengo
poca attenzione; se, invece, faccio un esempio pratico, collego il volume del cilindro
[...] alla cilindrata del loro motorino, ottengo un effetto diverso: è come se si alzassero;
guardano, seguono, hanno motivazione [...]; ad esempio, se vado a parlare di pesi speci-
fici, ottengo qualcosa, però è difficile. Se invece dico: “Il Centro deve rifare il parapetto
che è di ferro ed è arrugginito; quanto costerà? Vediamo, dobbiamo fare un calcolo, il
preventivo di quanto può costare questo parapetto”, allora è diverso. Magari usciamo
dalla classe – la classica classe, dove loro vedono la lavagna, vedono l’insegnante:
“oggi c’è matematica! Uffa” –, usciamo con il blocco degli appunti e, non so, comin-
ciamo a misurare con un metro quanto è lunga questa ringhiera, che forma ha, da quante
parti è formato questo parapetto; quindi cominciamo a scindere il problema. Vedo che lì
c’è un impegno diverso [...] (FGMat1/6) [...] Mi viene in mente, ad esempio, il pro-
blema delle equazioni. Nel momento in cui io vado in classe e dico: “Oggi parliamo di
equazioni”, i ragazzi cominciano ad irrigidirsi e a dire: “Chissà che cosa sono! Chissà a
che cosa servono...”; [...], se io invece vado a dire: “Tu hai 3 mattoni che pesano 6 kg;
quanto pesa 1 mattone?”, ecco che qualcuno comincia a dire: “ah, ma si fa così”; oppure
gli dico: “hai comprato 6 cd e hai speso 18 euro; quanto costa 1 cd?”, ecco che l’allievo
dice: “ma allora è questa roba qua..”. Quindi la parola “equazione” non diventa niente
altro che il cercare qualcosa che non sai in questo momento, ma hai gli elementi per ri-
uscire a calcolare; [...] se io trattassi la teoria delle equazioni in maniera classica, dovrei
incominciare a parlare del principio di addizione e sottrazione, del principio di moltipli-
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cazione e divisione, e, se rimango su questi termini, di nuovo rimango in un settore pu-
ramente astratto; ma se io alla lavagna disegno una bilancia e dico: “L’equazione è un
bilanciamento tra i due piatti; [...] se io faccio sparire la mia scatola di pomodori da una
parte e dall’altra parte non ho la scatola di pomodori, ma ho pesini equivalenti, cosa
succede? Se io tolgo di qua, che cosa deve apparire di là, se voglio dei piatti sempre in
equilibrio?” [...]. Ecco allora, (si tratta di) calare nella realtà di tutti i giorni quella che
potrebbe essere una teoria assolutamente astrusa (FGMat1/8); (si tratta di) partire
sempre da qualche cosa che rientri nella loro sfera di interesse sociale o professionale
(FGMat1/10).
M. (FGMat1/6-10) nota che fare di un problema o di un esempio pratico, posto
dai ragazzi stessi, il punto focale dell’insegnamento e dell’apprendimento ottiene
l’effetto di un accendersi di sguardi e di attenzione (“è come se si alzassero; guar-
dano, seguono, hanno motivazione...”). Del resto, in tutte le stagioni della vita, si
impara soprattutto a partire da ciò che interessa qui e ora.
b. Partire da problemi concreti
Per i nostri formatori è dunque essenziale prendere avvio da problemi autentici
e rilevanti, che possano avere a che fare con la vita e l’esperienza. Come afferma
Lockhart, che pure – lo abbiamo ricordato sopra – è alquanto critico nei confronti
di una matematica “utile”, un buon problema «è qualcosa che non si sa come risol-
vere. È questo che ne fa un valido enigma, e una valida opportunità. Un buon pro-
blema non rimane isolato, ma funge da trampolino per altri quesiti interessanti»
(Lockhart, 2010, p. 35). Ora, la vita e l’esperienza offrono molti problemi di questo
genere, problemi generativi, che suscitano sempre nuove domande e stimolano a
cercare. La scommessa dei nostri formatori è che, partendo da questi problemi, si
possa arrivare a porre e ad affrontare veri e propri problemi matematici, per risol-
vere i quali risulta necessario attivare processi di pensiero, formulare ipotesi, ricer-
care soluzioni. Vediamo alcuni esempi:
questa mattina ho cercato [...], visto che avevamo concluso con la teoria dei triangoli, di
far fare qualche problema concreto; non era tanto legato alla meccanica ma alla realtà:
come fare a misurare l’altezza degli alberi? Come si fa a misurare l’altezza delle mon-
tagne? Come si fa a sapere a che distanza una barca si trovava dal faro? Erano tutti pro-
blemi che si risolvevano con i triangoli, che erano facili e che hanno fatto in quattro e
quattr’otto, mentre prima, per arrivare qua, avevamo fatto una serie di esercizi tutti con
triangoli girati in su e giù; alla fine, se insisti, anche quelli che hanno difficoltà riescono
a fare, se ti seguono – e in questo stai attenta che tutti facciano –; è un lavoro molto fati-
coso, devo dire! (IntVr1/195) [...]. Ho dato loro delle figure e ho spiegato le forme; io ho
un po’ rinunciato a fare problemi con il testo; anche questa mattina [...] avevo il testo ma
l’ho tradotto negli schemi, però a parole l’ho detto: “Cercate di scrivere quello che sto
dicendo, se volete scrivete voi un testo, perché la grossa difficoltà, nello svolgimento dei
problema di matematica... (è la comprensione del testo)” (IntVr1/197); devo dire che al-
cune volte hanno anche ragione, perché (certi problemi) sono scritti in modo assai ingar-
bugliato; oggi ho tradotto questo per arrivare a quelli, ho fatto una serie di esercizi, questi
(mostra dei fogli), che addirittura spiegavo alla lavagna senza lettere, senza niente; giro il
triangolo: “Ma allora questo cosa rappresenta?”. “Così semplice?” [...] (IntVr1/199);
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nella prima lezione, per introdurre l’argomento e per motivare un po’, parto da un pro-
blema concreto (IntMe2/226): “Qualcuno ha idea di come dovrei fare, in geometria, a
calcolare l’inclinazione di una scala, sapendo che ho 10 m di distanza dal muro e devo
arrivare a 10 m di altezza?”. Allora loro incominciano a pensare e io faccio la proiezione
alla lavagna; faccio notare che qualcosa dei triangoli già sanno: il teorema di Pitagora;
loro vedono che quello non serve (IntMe2/228). Faccio loro notare che dovremo lavorare
sugli angoli, che però quello è un problema, perché abbiamo un numero di angoli e di
misure di lati che forse non va bene e allora faccio loro capire dove sta la difficoltà: a noi
manca questa informazione, dobbiamo trovare un modo per arrivare a questa informa-
zione. Allora incomincio la parte teorica, e questo mi facilita perché, nel momento in cui
termino la parte teorica e presento il contenuto, lo strumento che possiamo utilizzare
adesso, con questa cosa, riprendiamo il problema che abbiamo lasciato in sospeso e lo ri-
solviamo insieme (IntMe2/230); loro dovrebbero avere interesse a risolvere il problema
della scala e adesso che hanno capito qual è lo strumento, ecco che riusciranno a risol-
verlo (IntMe2/232).
F. (IntVr1), dopo aver sviluppato la teoria dei triangoli, propone dei problemi
di carattere pratico che ricadono nella stessa categoria del quesito appena risolto,
sollecitando ad utilizzare e, nel caso, a modificare i metodi già utilizzati in prece-
denza. A. (IntMe2) fa in modo che il contenuto (la “parte teorica”) venga percepito
come risposta ad un problema, una domanda che effettivamente gli allievi avver-
tono come tale. Nell’esempio che segue, il formatore guida ad esplorare una situa-
zione e ad individuare i problemi che in essa si generano e che possono avere a che
fare con la matematica:
questo lavoro, che ho fatto in una seconda CFP elettro, è una parte di trigonometria che
ho cercato di applicare ad un problema, [...] reale. Loro sapevano già che cos’erano il
seno e il coseno di un angolo, i vari grafici; allora ho proposto questa attività, con l’o-
biettivo di analizzare un problema da tanti punti di vista. [...] Ho riportato loro un’espe-
rienza che avevo visto: il giorno di Pasquetta, sul Po, c’è una gara di aquiloni; allora ho
raccontato loro di tutti questi aquiloni che volavano e si vedevano lontano; quindi ho
fatto usare un po’ l’immaginazione [...]. Dopo ho proposto questo problema, ho detto:
“Voi siete i giudici di questa gara, dovete decidere le regole, chi vince e quanto vince”.
Questa è stata la consegna. “Divisi in tre quattro gruppi, lavorate!”. Subito sono rimasti
spiazzati: non avevano notizie, volevano dei numeri per poter applicare le regole, invece,
con questa consegna un po’ generica, non sapevano che fare. Ho dovuto insistere: “Pro-
vate a partire!”. “Chi vince? Quanto vince?”. [...] Hanno iniziato a lavorare per cercare di
risolvere questo problema. Ho detto: “Prima di tutto, dovete decidere le regole, quindi
scrivetele in modo che siano comprensibili!”. “Vince il più lungo!”. “Intendi dire l’aqui-
lone che vola più in alto?”. È importante anche l’utilizzo di un italiano comprensibile a
tutti, perché di solito parlano per grugniti e non è che si capisca molto! Bene, poi si tratta
di definire anche [...] cosa uno deve fare per iscriversi. “Deve avere un aquilone”. “Deve
avere la possibilità di dare 5 o 10 euro per iscriversi”... Dovevano scrivere tutte le regole:
“Chi vince..., quanto vince...”. Subito sparavano: “150 euro”. “Se c’è solo un iscritto, che
fate? Gli date 150 euro di tasca vostra?”. Allora andare a pensare quanti sono gli iscritti,
quanto si può far pagare la partecipazione alla gara, se far vincere anche qualcosina al se-
condo e al terzo, se da questa gara vogliamo guadagnare qualcosa, se dobbiamo pagare
quello che porta le birre [...]. Si trattava quindi di far loro valutare tutti questi aspetti per
risolvere il problema. Poi c’era il problema vero e proprio: chi è che vince e come faccio
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a vedere che vince. Allora davo loro dei dati; ogni concorrente poteva dire la lunghezza
del filo – 100 o 150 metri – misurare l’inclinazione rispetto all’orizzontale che è di, non
so, 12, 13, 15 o 20, 30 gradi; conoscendo questi dati, dovevano essere in grado di capire
chi [...] era il vincitore. Allora come fare? Si sono rimessi in gruppo e hanno rifatto, valu-
tato ecc. [...]; io intanto schematizzavo il problema alla lavagna: se conosco triangolo,
ipotenusa, angolo, conosco tutto, posso ricavare l’altezza [...] ecc. Anche qui, cercavo di
far loro capire che ci sono delle approssimazioni da fare, ad esempio il filo va conside-
rato ben teso, la pendenza costante, ma questo non è detto, il filo può cambiare di pen-
denza; si trattava di capire quali erano gli elementi critici del problema [...]. La valuta-
zione consisteva non solo nel calcolare esattamente chi aveva fatto volare più in alto l’a-
quilone, ma anche nella correttezza di tutti i passaggi che avevano fatto: la scrittura di
tutte le regole, il modo di iscriversi, i criteri per la scelta del vincitore [...]. L’esperienza è
durata un paio di ore; [...] e loro sono riusciti a capire che il problema del triangolo può
essere applicato anche ad un contesto abbastanza reale (FGMat4/47).
M. (FGMat4/47), che insegna a Verona, mette i suoi allievi a confronto con un
problema insolito che, a prima vista, non sembra avere molto a che fare con la ma-
tematica. Il formatore guida a pensare e ad individuare i possibili problemi, senza
aver fretta di applicare conoscenze già acquisite. A riguardo della strategia di par-
tire da problemi concreti, alcuni formatori segnalano una criticità:
vedo assai improbabile affrontare – come viene chiesto spesso a noi – la matematica solo
con problemi; si può fare ma, se non c’è questo aggancio alla formazione interiore, tutto
si riduce veramente all’osso, cioè a quelle che sono le operazioni fondamentali [...];
d’altro canto, mi dicono: “Quando io so fare più e meno – che non sempre è così – io
sono apposto!” (IntVr1/187). Questa può essere la mia interpretazione di quello che mi è
stato chiesto negli anni; è un po’ difficile trovare una via di mezzo, perché, se utilizzi un
approccio dal punto di vista dei problemi, allora devi veramente tralasciare il resto, ma
poi ti trovi con metà classe che vuole passare all’ITI e che si trova senza determinati
strumenti, che non hanno un aggancio concreto immediato (IntVr1/189);
è difficile trovare sempre un argomento, un problema che li veda attivi, nel senso che, se
devo spiegare la divisione tra polinomi, non è che mi posso inventare un problema pra-
tico (IntVr8/18).
Insomma, secondo alcuni formatori, non ci si può “limitare” ai problemi, per
quanto questi siano importantissimi. Gli allievi possono essere indotti a ritenere che
basta una conoscenza “utile”, che abilita a cavarsela nella vita, e non sia necessario
andare in profondità nella comprensione delle cose. Inoltre, la matematica richiede
di confrontarsi anche con oggetti che non hanno un aggancio immediato con la
realtà. L’esperienza ha insegnato ai nostri formatori che comunque è utile che
l’avvio sia centrato su problemi concreti, per poi aiutare a cogliere che esistono
anche problemi astratti che possono essere altrettanto affascinanti.
c. Accompagnare nella ricerca della soluzione
La soluzione al problema va fatta cercare e scovare. Non è facendosi dire
come risolvere un problema che si affina la mente, ma orientando ad affrontarlo per
conto proprio o confrontandosi con gli altri:
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il meccanico parte da un problema: “devo costruire un pezzo che corrisponda a quella
determinata esigenza del mio cliente”; il cliente magari non ne sa nulla di meccanica;
devo essere io, completamente autonomo, a gestire e a rispondere alla sua esigenza.
Questo come viene fatto? Insegniamo loro – cosa che nelle scuole non si fa più volen-
tieri – a risolvere problemi. I problemini che si fanno alle medie, che a volte, e adesso
sempre più spesso, vengono proprio glissati, perché si cerca di correre alla fine di questi
programmi ministeriali che sono sempre incalzanti. Noi prendiamo quei problemini, ov-
viamente diamo loro una veste applicativa all’interno di un ambiente meccanico e inse-
gniamo loro a ragionare, a partire da una questione: “devo cavarmela con questo pro-
blema”. Costruisco allora una sorta di albero logico, che mi permette poi di costruirmi
la soluzione e raggiungo la soluzione, posto il fatto che l’albero può essere diverso da
persona a persona [...] (IntMe3/30); si parla di albero perché ricorda molto i diagrammi
di flusso dell’informatica (IntMe3/32); per loro, c’è sempre una cosa di quel tipo, anche
per aiutarli ad approcciarsi all’elemento informatico che si applica in meccanica, che
c’è all’interno di una macchina a controllo numerico e che [...] va almeno compreso, ca-
pito (IntMe3/34). [...] Ad un ragazzo del CFP, molto pratico, con una mentalità molto
concreta (IntMe3/44), non posso [...] dare una sorta di prontuario di soluzione del pro-
blema: “Per risolvere un problema, bisogna fare A B C...”; il ragazzo del CFP difficil-
mente accoglie questa [...] che per loro è una forzatura mentale (IntMe3/46). Quando
devo affrontare un problema e devo insegnare loro a risolverlo, partiamo per esempio da
un dato problema, do loro la richiesta, facciamo un brainstorming su come ciascuno di
loro si approccerebbe al problema (IntMe3/48). In questo, sono supportata anche dal
professore di lettere, che insegna ai ragazzi l’analisi del testo (IntMe3/54), cosa per noi
fondamentale, perché mi permette di definire qual è la richiesta fondamentale, distin-
guendola da tutte le frasi subordinate che generalmente danno solo il dato (IntMe3/
56). Una volta capito che ciascuno di loro ha ben chiaro dove vogliamo arrivare
(IntMe3/60), do loro del tempo per elaborare una soluzione, anche rozza, che, secondo
loro, potrebbe funzionare per quella determinata richiesta. Selezioniamo le due o tre
soluzioni più (IntMe3/62) opportune, perché poi alcune sono dei tentativi vani
(IntMe3/64). Ne prendiamo due o tre, quelle che nella mia mente potrebbero funzio-
nare, e cominciamo ad analizzare tutte le difficoltà di ciascuna soluzione. Per esempio,
la soluzione di un ragazzo può analizzare direttamente la richiesta, senza prendersi cura
dei dati; noi allora tiriamo fuori il problema, analizzando direttamente la richiesta, senza
tenere conto di quello che ho; mi porta alla soluzione? No. Allora si scarta quell’idea e
si prende quella di un altro ragazzo, che magari aveva ben definito i dati, dato loro
il posto giusto, però si era un po’ perso nel tentativo di soluzione; allora dico: “Se so
i dati, ma non ho ben chiaro dove voglio arrivare, ci arrivo?”. “Probabilmente no. Scar-
tiamo!”. E questo fino a quando non troviamo la via di soluzione più vicina al modo
ideale di raggiungere il risultato. Presa quella ipotesi di soluzione, cominciamo ad ana-
lizzare tutti i vari passaggi, tenendo conto che ciascun passaggio deve essere al posto
giusto (IntMe3/66). Perché ovviamente, se mi manca quel lato o non ho ancora analiz-
zato quel problema, che ne so, convertito da cm a m, non posso andare avanti. Si co-
struisce la soluzione, si fa il calcolo e si trova il risultato. Trovato poi il risultato, si vede
se concretamente può essere accettabile, perché se, analizzando un’area di mattonelle
da stendere, io alla fine trovo km, che ne so, o m3, qualcosa non ha funzionato, forse
perché parliamo di un’area, e poi perché, parlando di mattonelle, forse il km non è
l’unità di misura corretta (IntMe3/68);
un esempio [...], realizzato in collaborazione con il collega che si occupa di officina
meccanica, è [...] la realizzazione di oggetti manuali, tipo [...] piccoli solidi, partendo
dal foglio di carta, per fare in modo che i ragazzi possano maneggiare, visualizzare con-
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cretamente le unità di misura. Oppure, [...] si può far loro misurare, dopo una serie di
domande a cui i ragazzi avevano risposto, domande del tipo: “Quanto è lungo il nostro
cortile? 1 km? 20 km? 10 m? Con che cosa lo misureresti? Con il tachimetro, con il
contachilometri della macchina, con il righello?”. Di fronte a risposte veramente di-
verse, sparate, si può provare a dire: “Visto che, secondo te, il cortile è lungo 2 m, io ti
dico che le misure nell’ordine dei metri [...] si possono misurare anche con i righelli; al-
lora scendi in cortile e misuralo con il righello”. Il ragazzo, dopo aver fatto quattro mi-
sure, mi dice: “Prof, io non arriverò mai alla fine!”. Allora si può provare a far visualiz-
zare loro, partendo dalle cose che possono realizzare manualmente, le grandezze, perché
molto spesso hanno dimostrato di avere delle grosse difficoltà a capire oppure, come in
questo caso, fargliele associare a delle cose che per loro sono ben note (FGMat4/146).
Molti, dovendo misurare con il righello un cortile che è lungo quanto un campo da
calcio, dicevano: “Non ce la faccio! Non ce la farò mai, ci metto troppo tempo!”. Il pen-
siero che nasceva in loro era: “Mi serve qualcosa di più adatto, mi serve qualcosa di più
lungo”. Quindi l’intuizione di dire: “Questa non è l’unità di misura giusta! Mi serve
qualcosa di più lungo” era una cosa che nasceva da loro. Oppure, poteva funzionare il
confronto con delle misure a loro note: “Il nostro cortile è grande quanto un campo da
calcio”, quindi 100 m, perché loro sanno quanto è lungo un campo da calcio, lo hanno
imparato sentendolo allo stadio o leggendolo da qualche parte. Con questo collega ab-
biamo puntato molto, sempre con i ragazzi del primo anno, a fare in modo che fossero
loro a scoprire le cose e a trovare delle soluzioni [...] come risposte a difficoltà perce-
pite, ad una esigenza che a loro faceva venir naturale rispondere con un “mi serve
questo, mi serve quest’altro, questo non va bene, questo non basta”. Facendo così, si po-
nevano il problema di trovare qualcosa che invece fosse idoneo e adatto al compito che
veniva loro assegnato. Questo ha fatto sì che nascessero [...] domande e poi anche il
confronto su che cosa utilizzare, su che cosa andava bene come strumento di misura, sul
perché alcuni strumenti andavano bene per certe misure e altri erano più adatti per certe
altre misure; questo è servito perché loro capissero da una parte i concetti di misura, di
grandezza [...] e dall’altra che non dovevano per forza sapere tutto, ma che potevano
anche scoprire, andare avanti per domande successive. Quindi, davanti ad una cosa che
si presenta come un problema, penso un attimo e mi accorgo che i miei strumenti sono
limitati e cerco nuovi strumenti. Vado avanti un altro po’, poi si presenterà un nuovo
problema e ragionerò sugli strumenti che ho utilizzato, sul mio percorso e sceglierò
nuovi strumenti o chiederò nuovi strumenti a qualcuno e andrò avanti. Questo è stato
fatto anche in abbinamento all’attività di officina, perché anche lì il procedimento che si
adotta è [...] quello di andare avanti passo passo; a loro vengono spiegati i vari pezzi
della lavorazione e, quando arrivano alla fine di una lavorazione, molto spesso sono
loro stessi a dire che, con lo strumento che hanno a disposizione, non riescono a fare la
lavorazione successiva che viene loro richiesta; allora pensano allo strumento che
devono montare sul tornio per poter fare il passo successivo. [...] Abbiamo provato ad
abbinare lo stesso procedimento a questo aspetto della matematica, le unità di misura e
le grandezze (FGMat4/148).
In modo analogo a quello che succede in laboratorio, gli insegnanti di CFP
cercano di focalizzare l’attenzione sui problemi e di trasformare l’incontro con
un problema in occasione per sviluppare ragionamenti e per imparare cose nuove.
E. (IntMe3) è particolarmente attenta a far sostare sul problema, a farne esplorare
la formulazione, a far esplicitare l’approccio che si intende seguire, a far verificare
le ipotesi di soluzione, analizzandole e criticandole. Come giustamente afferma
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Lockhart16, la matematica «...si occupa di problemi, e bisogna fare in modo che
i problemi siano il centro di interesse della vita matematica degli studenti. Per
quanto doloroso e frustrante dal punto di vista creativo possa essere, gli studenti e
i loro professori dovrebbero essere coinvolti in ogni fase del processo: avere delle
idee, non averne, scoprire schemi, fare congetture, formulare esempi e controe-
sempi, escogitare argomentazioni e criticare a vicenda il proprio lavoro. Tecniche e
metodi specifici scaturiranno spontaneamente, [...] non isolati dal problema che ne
costituisce il sottofondo, ma organicamente connessi a esso e come sua conse-
guenza» (Lockhart, 2010, p. 51). Anche F. (FG4/148) racconta episodi – in partico-
lare quelli sui concetti di “grandezza” e di “misura” – in cui l’intuizione utile alla
soluzione del problema “nasce da loro” e il docente svolge il compito di guida nel
passaggio dall’intuizione alla spiegazione.
d. Tradurre gli esercizi classici in problemi concreti
Alcuni formatori trovano utile “tradurre in problema concreto” alcuni dei clas-
sici esercizi che sono riportati sui testi con un linguaggio solo simbolico, per lo più
espresso in cifre:
nel predisporre i testi di alcuni esercizi, se prendo i dati [...] di esercizi che portano risul-
tati comodi e li traduco in problema concreto – la strada, la scala, l’inclinazione di un
campo da basket [...] –, allora la cosa diventa per loro più interessante (IntMe2/262) ed è
anche più facile ragionarci, quando dobbiamo correggere insieme (IntMe2/264). Ad
esempio, la strada: “Ma è possibile che una strada sia inclinata di 50°? Proviamo a pen-
sare ad una strada...”; vedi che loro lo fanno con facilità; la difficoltà che molti hanno è
la difficoltà di astrarre (IntMe2/266). Considerando la stessa classe, con lo stesso tipo di
interessi, davanti a due argomenti diversi, quello che può essere legato ad un problema
concreto e quello che può essere legato ad un classico esercizio su un prodotto notevole,
le cose sono molto diverse [...]. La difficoltà è appunto capire negli anni quali argomenti
si prestano a questa operazione; ad esempio, la matematica di prima è molto difficile
[...], perché tutta la parte del ripasso sulle operazioni principali, piuttosto che l’introdu-
zione delle operazioni con i monomi, purtroppo, richiedono la teoria spicciola e per
questa non è sempre facile trovare esempi concreti (IntMe2/268). Con le equazioni di
primo grado invece è più semplice, perché i problemi legati alle equazioni di primo
grado sono molti; allora è più facile anche farli ragionare [...]. Altra cosa che per loro si
presta bene, più nel settore meccanico, [...] come contenuto che si aggancia in parte alla
realtà, sono ad esempio i sistemi di primo grado risolti con il metodo grafico, con il
piano cartesiano; è l’idea che ci sono due equazioni messe a sistema che sono delle rette;
significa che possiamo trovare il punto in cui si incontrano le rette, troviamo un punto
sul piano e traduciamo l’equazione in una retta, quindi abbiamo due punti [...] (IntMe2/
270).
Non per tutti gli argomenti è possibile una tale traduzione. Quando però questa
avviene, la risposta degli allievi è diversa e il loro interesse si fa più vivo.
16 Va osservato, per correttezza, che Lockhart si riferisce a problemi di “ragione”, non tanto a
problemi pratici, mentre i formatori dei CFP sono più attenti ad una matematica dei sensi e non di puri
oggetti – e dunque problemi – mentali. Questo però non toglie però validità all’affermazione riportata.
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5.2.4. Legare anche i percorsi di fisica e chimica ad aspetti attuali e professionali
L’esigenza di agganciare l’esperienza pratica è un’attenzione presente non solo
in matematica, ma anche nell’insegnamento delle scienze, della chimica e della
fisica e in genere di quelle discipline che sono basate sul “senso delle cose”. Ve-
diamo alcuni esempi tratti dai racconti dei formatori impegnati anche in queste aree
disciplinari:
per esempio, per spiegare loro alcuni concetti di fisica, tipo il numero di giri dei motori,
come si calcola la velocità angolare ecc., faccio continuamente riferimento alla loro ope-
ratività. Loro dicono: “Ma che è?”. Allora io faccio l’esempio ovviamente sulle molte-
plici macchine, torni e frese, che loro usano; [...] continuo a cercare di prendere come
esempio non una realtà loro lontana, ma la realtà loro più vicina, cioè quella appunto dei
torni e delle frese che i nostri ragazzi del CFP usano [...] (FGMat2/34);
la chimica è abbastanza difficile per loro, è difficile far capire il senso della chimica o il
senso delle scienze in generale (IntVr6/46); [...], in genere, per la parte più chimica,
cerco di trovare degli elementi di attualità; per esempio, sulle energie, l’esempio classico
è il motorino: l’energia chimica della benzina che si trasforma in energia termica e,
transitando nei pistoni, in energia cinetica, in movimento; poi l’attrito che genera energia
termica [...]. È importante fare sempre questi riferimenti alla loro vita quotidiana, perché
altrimenti la teoria in scienze e proprio in chimica non la considerano; insomma, non ne
vedono l’utilità; quindi legare il concetto di energia anche al panino che mangiano forse
è sciocco, però è collegato alla loro esperienza (IntVr6/46); [...] è meglio che sappiano
qualcosa in meno, non so, sugli orbitali di un atomo, ma che sappiano capire le diffe-
renze tra petrolio, carbone, biogas, solare ecc. (IntVr6/50) [...]. Facciamo i passaggi di
stato, che sarebbero più un argomento di fisica, ma io li tratto per prepararli al labora-
torio, dove vedono la distillazione [...]. Oppure il classico esempio dell’acqua che bolle
nella pentola, dove c’è la condensa dell’acqua. Oppure, facciamo la separazione delle
sostanze e i ragazzi vanno in laboratorio, quindi vedono; poi c’è il modello atomico,
come è fatto un atomo, e spesso lego questo argomento agli isotopi radioattivi e quindi
alla fissione e alla fusione nucleare, [...] all’energia nucleare, a come viene prodotta, e su
questo dopo affido ad alcuni una ricerca. Poi c’è la parte, appunto, della tavola perio-
dica, e quindi i metalli e i non metalli, come si distingue un metallo da un non metallo, e
quindi, fondamentalmente, faccio vedere i metalli che ho a disposizione [...]; dopo [...]
passo alle reazioni chimiche e in particolare alla reazione di ossidoriduzione, che per
esempio lego alla corrosione dei metalli, alla ruggine, al ferro; in genere, faccio riferi-
mento alla combustione; l’esempio classico è il fornello del gas; scrivo la reazione alla
lavagna e dico: “Questa reazione avviene nel vostro fornello del gas; voi non ve ne ac-
corgete, perché i prodotti che reagiscono, come l’anidride carbonica e l’acqua, voi non li
vedete, ma se mettete la mano sopra il fornello, non proprio sopra la fiamma, voi ve la
ritrovate bagnata: è il vapore acqueo che si produce con la combustione e si condensa
sulla vostra mano, quindi avete la prova che dalla fiamma si forma acqua evaporata”.
C’è gente che prova a casa e poi viene: “Ah, prof, è vero!” (IntVr6/54). [...] Lego il con-
cetto di reazione chimica per lo più alla combustione, alla fiamma che brucia. E la rea-
zione di ossidoriduzione può essere legata anche al ferro, quindi alla ruggine. Poi af-
fronto la questione delle pile – la produzione di corrente elettrica da reazione chimica
[...] (IntVr6/30) – quindi le batterie delle automobili [...]. E poi c’è [...] tutta la parte
relativa alle energie (IntVr6/56); [...] perché spiegare gli orbitali ai ragazzi, cosa serve
[...]? Non è un discorso che serve solo all’università? Eppure, in tutti i programmi di
chimica c’è l’argomento degli orbitali. Con gli orbitali non puoi fare nessun abbina-
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mento a qualcosa di pratico, a qualcosa di attuale, quindi è solo un lavoro teorico [...].
Nel CFP è molto difficile apprendere, se gli allievi non hanno un riscontro; si riduce
tutto ad una questione di memoria, di imparare a memoria qualcosa che non vedono, che
non capiscono o che fanno fatica a capire (IntVr6/70). (Si tratta allora) di fare [...] più
pratica possibile, cioè di partire dalla pratica e poi passare al libro, per formalizzare,
perché con la pratica rimangono loro in mente non le definizioni, ma come funziona,
quale è il concetto; solo dopo ci si può sforzare a formalizzare questo concetto attraverso
le definizioni imparate a memoria. Se hanno solo la definizione imparata a memoria,
magari hanno anche dei buoni voti, magari prendono anche otto, perché, bravi a stu-
diare, imparano tutto a memoria, però non sanno di che cosa stanno parlando e, alla fine,
penso che la scuola, più che per i voti, serva per dar loro delle basi, per capire la realtà
dove loro si trovano e quindi la realtà che li circonda [...]: (allora la chimica può aiutare
a capire) l’attualità, le fonti d’energia, la fotosintesi delle piante, le stalattiti e le stalag-
miti, se entrano in una grotta, che cosa stanno mangiando e tutti questi aspetti, insomma,
cosa stanno vedendo, la pioggia, il sole, la neve, la brina (IntVr6/72); la parte teorica è
formativa per la loro struttura mentale [...], però l’imparare senza avere capito non serve
a nulla (IntVr6/74).
C. (FGMat2/34), per affrontare argomenti di fisica, fa riferimento agli strumenti
che i soggetti utilizzano nel laboratorio professionale. E. (IntVr6) fa invece riferi-
mento ad elementi di vita quotidiana e, raccontando i nuclei fondamentali che
affronta nel programma di chimica, per ciascun argomento evidenzia i possibili col-
legamenti all’esperienza dei soggetti o all’attualità. È come se l’esperienza stessa dei
soggetti diventasse il principio che orienta nella scelta dei contenuti. Il sapere scien-
tifico viene quindi proposto come chiave per leggere la propria esperienza. Di
seguito, riportiamo alcuni ulteriori esempi tratti dai racconti di altri formatori:
a. Esempio: la birra
Partire dall’esperienza concreta di “produrre la birra” consente di stimolare lo
sviluppo di molteplici apprendimenti, in varie aree disciplinari:
mi sono fatto spiegare come si fa la birra [...] (FGMat2/129) [...] Allora mi è venuto in
mente: “Ma perché la birra deve essere solo una cosa che si spiega teoricamente? Fac-
ciamola!”. Infatti, mi sono studiato [...] soprattutto (FGMat2/131) il procedimento e,
visto che il kit in sostanza costava 50 euro, ho proposto al nostro coordinatore di acqui-
starlo: “50 euro per il kit, compreso il malto e tutto quanto, li possiamo anche spendere”;
abbiamo quindi fatto la birra in classe. [...] La cosa bella è stata che questa cosa [...] è di-
ventata anche oggetto di attenzione da parte degli enti esterni alla scuola [...], tanto che,
per esempio, fino a ieri siamo stati in una sagra paesana, a fare la mescita della birra; è
una festa con ambientazione medioevale [...]. Anche all’interno del “fare la birra” logi-
camente ci sono tutti quei contenuti e quelle cose che non sono più un pezzo di carta
scritta, ma comportano un verificare che la fermentazione avvenga realmente, che il gor-
gogliatore nel barile stagno effettivamente emetta gas e anidride carbonica, verificare
che la birra in bottiglia e lo zucchero creino anidride carbonica (FGMat2/133). Agganci
con la matematica ce ne sono tanti. A partire dal fatto che, per esempio, per misurare il
grado alcolico della birra, c’è un misuratore di densità, un densimetro che dà il peso spe-
cifico (FGMat2/139); quindi [...] ho potuto fare un parallelo con il peso specifico, non
spiegandolo alla lavagna, ma prendendo la provetta, mettendoci la birra dentro, metten-
doci il misuratore. Per quanto riguarda la matematica, per esempio, abbiamo affrontato il
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discorso della capacità e delle percentuali. Per esempio, il barile è di 23 litri; per avere
un certo tipo di fermentazione, ci devi mettere una determinata percentuale di zucchero
e altrettanto devi fare con l’alcol; e di conseguenza [...] la quantità di zucchero che tu
metti produce un certo grado alcolico. La prima fermentazione dura un certo tempo, la
seconda fermentazione dura un altro tempo. Poi abbiamo visto la capacità delle bottiglie;
anche le cose pratiche, che possono essere per esempio il tappa bottiglie: [...] in qualche
modo, questi ragazzi hanno visto anche come funziona il sistema della leva. Poi [...] è
anche questione di fortuna: avere il ragazzo più interessato che incomincia a fare do-
mande, ma si tratta anche di indurre delle domande a partire da quello che un ragazzo fa;
poi l’insegnante cerca di indirizzare l’attenzione verso un determinato ambito e uno
scopre che i ragazzi tante volte sono incuriositi da tante altre cose, che magari a te non
vengono in mente; poi, diciamo, una cosa bella, al di là di tutto, è che veramente [...]
puoi partire da un fatto pratico, per spiegare una cosa teorica (FGMat2/141). È la solu-
zione ideale per queste situazioni: [...] l’importante veramente è partire da un fatto pra-
tico (FGMat2/145);
volevo raccontare una recente esperienza che ho avuto con alcuni ragazzi del corso opera-
tore servizi ristorativi. Da qualche anno sto sperimentando la produzione della birra a li-
vello didattico, nella scuola. In particolare, quest’anno, sono andato un pochino più a
fondo, portando a scuola dei manuali che già girano su questo prodotto. Con una classe
che l’anno scorso era praticamente quasi ingestibile, quest’anno ho iniziato subito a fare
questo lavoro, partendo da una questione teorica, per dare quattro input e per poter far ca-
pire che cosa si stava facendo. [...] Sabato mattina della settimana scorsa, abbiamo fatto la
birra in laboratorio cucina e me li sono portati tutti dietro, in collaborazione con il collega
di cucina; per la prima volta, dopo tanto tempo, me li sono trovati un po’ zitti e quasi tran-
quilli; diciamo che, finalmente, ero riuscito a catturare l’attenzione del 90% dei ragazzi.
Allora, insieme al collega di cucina, abbiamo fatto la birra, dando a ciascun ragazzo un
compito: chi doveva sciogliere il lievito, chi doveva sciogliere lo zucchero, chi doveva
curare il malto, chi doveva fare una cosa chi un’altra; abbiamo praticamente proposto
un’attività che doveva sviluppare un processo che poi doveva portare ad un risultato [...].
La pensata era di far fare la birra a loro, attraverso varie fasi, in cui ognuno aveva un
compito pratico, però non come gioco, ma come fatto preciso, perché non si dovevano
bruciare i batteri, non si doveva superare una certa temperatura dell’acqua, si dovevano
rispettare certe percentuali di miscelazione ecc., si doveva saper misurare la temperatura.
Dovevano svolgere dei compiti che non erano dei giochi ma portavano ad un prodotto
reale. Devo dire che questo prodotto reale in quell’ora di lezione ha funzionato; la setti-
mana prossima abbiamo l’impegno di fare il primo imbottigliamento con questa classe e,
tra circa un mese, un mese e mezzo, potremo assaggiare questa birra e verificare se con-
cretamente l’esperimento è riuscito. Visto che ormai sono due anni che stiamo testando
questo lavoro, credo che non ci saranno problemi. Comunque i ragazzi, per lo meno
alcuni, li ho visti molto motivati, perché hanno toccato con mano una teoria che poteva
essere campata per aria (FGMat5/1).
S. (FGMat2/129-145; FGMat5/1)17, nel CFP di Foligno, scopre che diversi
contenuti propri delle sue aree disciplinari – la fermentazione e le varie combina-
17 Il nostro formatore, ritorna sullo stesso argomento in due occasioni diverse: il FG svolto nel
giugno 2008 (FGMat2) e quello svolto nel mese di ottobre del 2009 (FGMat5). Lasciamo entrambi i
racconti perché questo consente di notare come una stessa attività si affini nel tempo.
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zioni tra elementi, per la chimica; le misurazioni, il peso specifico, il concetto di
capacità, le percentuali ecc., per la matematica –, passando attraverso l’esperienza
della produzione della birra, assumono una densità differente rispetto a quella che
avrebbero se accostati solamente attraverso le pagine di un libro. Si tratta di ac-
compagnare gli allievi ad interrogare quello che fanno e di essere aperti alle loro
curiosità.
b. Esempio: i controllori dell’igiene
Alcuni concetti di igiene e di sicurezza alimentare possono venire appresi più
efficacemente all’interno di un’attività che assume una rilevanza non solo all’in-
terno del contesto formativo, ma anche fuori di esso. In questo caso, del resto, il la-
boratorio di cucina del CFP è molto simile a quello che gli allievi potrebbero in-
contrare in un ristorante reale:
l’HACCP18 è una materia che insegna a rimanere dentro i limiti della sicurezza alimen-
tare, dell’igiene alimentare e anche comportamentale, dell’abbigliamento ecc. Allora io
mi sono inventato di trasformare i ragazzi da controllati in controllori [...]. I ragazzi
stanno seguendo un corso di ristorazione. In genere, i ristoratori sono sottoposti a dei
controlli da parte dei NAS o degli ispettori sanitari, dei medici sanitari, e quindi devono
avere l’abbigliamento adatto e pulito, le scarpe di sicurezza, il cappellino; inoltre, devono
tenere sotto controllo la temperatura dei frigoriferi, dei forni; [...] quindi, in genere, sono
sottoposti a questi controlli abbastanza rigidi. Allora, anche per variare il metodo di la-
voro [...], abbiamo pensato di trasformare questi ragazzi in controllori. D’accordo con
l’insegnante di pratica, mentre l’insegnante di pratica aveva in laboratorio un’altra classe,
la seconda, io dividevo i ragazzi della terza in gruppi di 4-5 persone. A turno, entravano
in laboratorio, in perfetto silenzio, armati di penna e quaderno, e ciascuno, in silenzio,
annotava le cose che i ragazzi di seconda facevano bene e le cose che invece non face-
vano bene; ad esempio, la compagna di seconda che aveva gli orecchini, oppure un altro
compagno, che non aveva il cappellino, un altro che aveva qualche piercing di troppo;
qualcun altro annotava la temperatura dei frigoriferi, perché ad esempio ci sono degli ali-
menti che devono stare a -20°, altri che devono stare a -4° e altri ancora che devono stare
a temperature inferiori [...]. Abbiamo capito che i ragazzi apprendevano meglio in questo
modo, controllando gli altri, perché viene più facile controllare gli altri... (FGMat2/392)
[...]. I ragazzi che erano in cucina, non dovevano notare la presenza dei compagni, come
dire, gli altri non dovevano farsi notare, [...] dovevano stare in silenzio, cercando di dis-
turbare il meno possibile, mentre la seconda classe lavorava [...] e preparava dei piatti. In
questo modo ci siamo accorti che i ragazzi apprendevano molto meglio (FGMat2/394).
Il coinvolgimento che S. (FGMat2/392-394), formatore nel CFP di Gela, nel-
l’indirizzo alberghiero, riesce ad attivare è notevole. Gli apprendimenti connessi
alla sua area disciplinare possono venire appresi anche in connessione con elementi
del sapere professionale e delle implicazioni di carattere normativo e deontologico
delle pratiche lavorative.
18 L’HACCP (Hazard Analysis and Critical Control Points) è un sistema di controllo che ogni
futuro operatore nel settore della ristorazione deve imparare a mettere in atto per poter valutare e sti-
mare pericoli e rischi e per prevenire l’insorgere di problemi igienici e sanitari.
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c. Esempio: il faro della bicicletta
Nel caso raccontato da M. (IntRoma1), l’avvicinamento ad alcuni concetti
della fisica avviene a partire da un problema concreto posto da un ragazzo:
un ragazzo, ad esempio, che ha grosse difficoltà disciplinari, di interesse in generale,
però è attento, curioso, [...] ha detto: “Ma sa, prof, io stavo pensando ad una luce supple-
mentare da mettere nella mia bicicletta, sotto la sella, così me la accendo di sera e mi ve-
dono un po’ di più e sono un po’ più tranquillo ecc.”. Allora io: “Tu intanto comincia a
pensare a come la vorresti fare ecc.”; da questo punto, si è scoperto che aveva bisogno di
conoscenze: “Allora, vediamo un attimino la dinamo; quanto ti può dare di corrente?
Che cosa ci puoi mettere?...”. Qui si è avuto un avvicinamento alla fisica, attraverso
quello stimolo iniziale e, in classe, abbiamo portato questo esempio come esempio di ap-
plicazione pratica di concetti fisici che potevano permettere di risolvere il problema che
era sorto. Anche in questo caso, l’esempio portato avanti da un allievo è diventato
esempio per tutta la classe e quindi a tutta la classe ho detto: “Ecco, abbiamo questo pro-
blema, vediamo come risolverlo”; “Cosa proponete voi come soluzione? Cosa fareste?”.
Intanto il ragazzo si è sentito tantissimo gratificato, perché al centro dell’attenzione in
quel momento (IntRoma1/2). Ho rimandato il problema alla classe, chiedendo: “Come
proponete voi di risolverlo? Cosa dobbiamo applicare per riuscire a risolvere questo pro-
blema? Non guardiamo ora il problema dal punto di vista pratico, perché poi lo realizze-
rete in officina, ma andiamo a vedere dal punto di vista teorico quali concetti ci sono
dietro!”. Il ragazzo si è sentito estremamente gratificato e, nello stesso tempo, la classe
si è sentita coinvolta nel risolvere un problema che poi coinvolgeva in effetti anche il
compagno [...] (IntRoma1/6).
Il docente, nel caso raccontato, ha la prontezza di non lasciarsi sfuggire lo
spunto offerto dal suo allievo (“stavo pensando ad una luce supplementare da met-
tere nella mia bicicletta”), anzi sceglie di valorizzarlo come caso da proporre a tutto
il gruppo classe. Da qui nasce lo spunto per riflettere su quali concetti potrebbero
essere implicati nella soluzione del problema.
5.3. Fornire strumenti matematici per risolvere problemi lavorativi in team
I formatori intervistati sono convinti che, se gli allievi vengono coinvolti, in
gruppi, nella ricerca di soluzioni a problemi che possono incontrare in contesti reali
e lavorativi, apprendono meglio e più efficacemente di quanto farebbero limitan-
dosi ad ascoltare un docente che parla o a leggere le notazioni inserite nei testi. Si
tratta allora di valorizzare la leva del “far fare” e di operare in modo che gli allievi
diventino attori e non soltanto spettatori del processo. Quale contesto migliore, per
fare questo, di quello offerto dal lavoro?
5.3.1. Agganciare i concetti matematici a problemi che gli allievi possono incon-
trare nel contesto lavorativo
Come abbiamo già in parte visto sopra, i contesti lavorativi e i problemi che si
possono incontrare al loro interno offrono in un CFP lo scenario principale in cui
collocare anche i problemi di carattere matematico o scientifico e in cui imparare a
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guardare la matematica con uno sguardo differente, più concretamente di come
sono stati abituati a fare:
si tratta di far vedere che la matematica, prima di tutto, è una materia che può avere dei
risvolti per loro, nel campo applicativo in cui lavorano. Per i grafici, è importante saper
disegnare un quadrato che abbia tutti i lati uguali: devono saperlo disegnare in quel
modo, nella materia di disegno; ci sono degli appigli anche con la matematica: le propor-
zioni, le percentuali [...]; quando fanno dei lavori interdisciplinari, [...] non so, una com-
messa nelle ore di tecnologia e di disegno, comprendono che questa commessa ha anche
dei risvolti matematici, ad esempio gli aspetti della matematica finanziaria (IntMi3/29);
(si tratta di) far loro vedere che la matematica non è fine a se stessa, non è il 3x2 o il 32
[...], cioè di far vedere che dietro quei numeri ci può essere qualcosa di diverso, che loro
possono valorizzare in altre discipline, oppure direttamente nel mondo del lavoro [...]
(IntMi3/31);
ci sono alcuni argomenti che si legano particolarmente alla matematica, tipo la carta, in
cui [...] ci sono alcuni concetti come la quantità dei fogli [...], il peso; [...] i ragazzi si
possono rendere conto, quando io parlo di pacchi di carta, di [...] cosa vuol dire 500
fogli, quanto pesano 500 fogli. Vado in legatoria, dove abbiamo il magazzino della carta,
e dico: “500 fogli sono questi, prova ad alzarli”, “Eh, ma pesa troppo!”, “In che senso
pesa troppo? Ci sarà qualcuno che dice quanto deve pesare”; allora si va a vedere, si va a
ragionare (IntMe6/124). C’è poi il discorso del peso massimo che può portare una per-
sona; allora dico: “Va bene, il peso massimo è – adesso non mi ricordo esattamente – di
15 kg; allora andate e trovate un pacco che pesa più di 15 kg”. Allora vanno, girano, leg-
gono le etichette [...]; imparano in questa maniera: leggere un’etichetta, sapere cosa c’è
dentro, sapere il peso (IntMe6/126). Possono anche calcolarlo [...]; glielo faccio anche
calcolare [...]; questo si fa sempre, perché è pane di tutti giorni per chi farà questo me-
stiere: “Devi stampare, non so, 1000 fogli 35x50; io in magazzino ho il 70%, che è un
formato che mi fornisce la cartiera; quanti 70% devo tagliare? Oppure quanto mi costa
tutto questo? Quando si parla di soldi (IntMe6/130), ragionano. Diciamo che sono un po’
più stimolati se vedono concretamente le cose (IntMe6/134);
il problema era cercare di dare una connotazione pratica ad un argomento teorico di ma-
tematica, i sistemi di primo grado, i sistemi lineari, con le classi seconde. Per cercare
qualcosa che fosse più vicino ai ragazzi, ho provato ad interagire con i colleghi dell’indi-
rizzo grafico, di quello meccanico e di quello elettrico, in particolare con chi si occupava
di acquisti per la scuola o cose del genere. Mi sono fatto dare, pescando tra le carte, fat-
ture e listini sia di materiale sia di servizi acquistati o erogati e ho ricreato, a seconda del-
l’indirizzo, delle fatture, spesso utilizzando i nomi dei ragazzi, come se l’azienda fosse
proprio del ragazzo [...]; le fatture le ho create appositamente a coppie, cioè ogni coppia
di fatture aveva gli stessi prodotti; i prodotti non erano mai più di due, perché lo scopo
era avere i sistemi a due equazioni, con due incognite. Nella fattura non era specificato il
prezzo unitario, ma solamente i quantitativi, per esempio: un’azienda acquista un ser-
vizio di 3 ore [...] o di 8 ore di utilizzo di una betoniera o tot. metri di cavo coassiale ecc.
Le due fatture erano create appositamente e non c’erano gli importi unitari, c’erano le
quantità e l’importo complessivo della fattura. Le ho consegnate ai ragazzi e ho chiesto
loro di andare a trovare – questa era una piccola fase iniziale di movimento all’interno
della classe – la persona che aveva la fattura che poteva abbinarsi con la propria. [...]
Una volta trovata la fattura che si abbinava alla propria, il ragazzo insieme al compagno
– lavoro sempre a coppie – doveva impostare il sistema e svolgerlo con il metodo della
sostituzione, trovare le soluzioni e trovare il costo unitario di un cavo, piuttosto che di
un’ora di servizio (FGMat4/6).
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Nell’azione dei nostri formatori, i contenuti culturali e disciplinari vengono
spesso recuperati come contenuti implicati nella pratica lavorativa, che richiede ap-
punto di attivare saperi matematici, scientifici, tecnologici, ma anche più ampia-
mente culturali e perfino etici ed estetici. La valorizzazione del contesto lavorativo,
inoltre, può suggerire il ricorso a modalità specifiche per attivare apprendimento.
Sono davvero numerosi gli esempi a questo riguardo:
per esempio, nel settore grafico, sia per la stampa che per la pre-stampa [...], viene
richiesta una conoscenza il più approfondita possibile [...] del piano cartesiano, perché
quando poi loro muoveranno i loro vettori all’interno del programma di grafica che
stanno usando, devono capire bene [...] con quale delle due dimensioni giocare
(IntMe3/16), in che termini l’una dimensione ha alcune caratteristiche peculiarità, o
come, intervenendo sull’altra, si ottengono altri risultati. Come fare allora con la mate-
matica? È chiaro che, in prima – perché già in prima quest’esigenza è molto forte –, non
si può pensare all’insegnamento del piano cartesiano stile terza liceo scientifico [...]; bi-
sogna adattarlo (IntMe3/18). Uno dei metodi che abbiamo utilizzato è lo studio della
geometria piana – i triangoli, i quadrati, le figure semplici – (IntMe3/22), all’interno del
piano cartesiano. Cioè, invece di dire che il mio rettangolo ha la base di 10 cm e l’altezza
di 2 cm, diciamo che, piazzando il nostro rettangolo all’interno di un piano cartesiano
con uno spigolo nell’origine, uno dei lati misura x = 10, e l’altro y = 2. In questo modo,
loro cominciano a piazzare la figura all’interno del piano e a costruire mentalmente quel-
l’ambiente su cui poi andranno a lavorare (IntMe3/24). Poi, è chiaro che ruotiamo le
figure, studiamo, all’inizio, solo le aree, poi, con il tempo, anche i volumi e qui entra, per
esempio, l’esigenza dei meccanici, che hanno a che fare con viti [...] e con bulloni che
hanno volumi particolari, che devono sposarsi alle esigenze di un determinato pezzo. A
quel punto, diventa fondamentale scoprire quale volume possa adattarsi a quel pezzo, [...]
quale raggio all’interno di una vite posso utilizzare per quell’altro scopo [...] (IntMe3/26)
[...]. Altra esigenza della grafica – e anche dell’elettronica – è imparare un ordine men-
tale, per cui, se una cosa non è esattamente al proprio posto, tutto cambia. Se all’interno
di un immagine che sto modificando – parlo per i grafici –, io cambio un lavoro su un
pixer piuttosto che su un altro, le cose non funzionano. In elettronica, se non seguo un
profilo logico, per cui prima c’è quello step, poi l’altro, tutto cambia. Come lo inse-
gniamo questo? Con una dettagliata, a volte un po’ noiosa per gli studenti, applicazione
dell’algebra, “dell’algebretta”, quella di prima (IntMe3/28). Quindi lo studio delle
espressioni e poi lo studio delle equazioni viene fatto in maniera quasi maniacale, in
modo che loro imparino che un fattore che cambia di posto non necessariamente mi
rende le cose uguali o accettabili, anzi, generalmente va a cambiarmi tutto il problema
(IntMe3/32);
l’esempio che voglio raccontare è su come spiegare una funzione trigonometrica ai ra-
gazzi partendo da una flangia, che è un attrezzo che serve a fissare i tubi in idraulica [...]
(FGMat4/154). La dinamica, in questo caso, [...] era semplicemente questa: prima di
tutto avevo la flangia di vecchie costruzioni, che avevo reperito tra i materiali del CFP.
Volevo far loro vedere che questi oggetti [...] erano realmente utili per il loro lavoro. At-
traverso questa presentazione, facevo degli esempi visibili alla lavagna, dove pratica-
mente disegnavo la flangia che avevo realmente in mano e, da quella, attraverso costru-
zioni geometriche, risalivo alla costruzione del triangolo rettangolo, con la funzione tri-
gonometrica del triangolo rettangolo, identificando ipotenusa, cateti e angoli di cui mi in-
teressava trovare il seno. Attraverso questo, cercavo di far loro capire quale era la stra-
tegia per arrivare al risultato. Prima facendo l’esempio sulla lavagna, che praticamente
richiedeva un po’ di tempo, poi dimostrando che, con l’uso corretto della calcolatrice,
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c’era una strategia per arrivare a quel risultato, sintetizzando il calcolo in poche opera-
zioni [...] e facendo loro vedere che, in termini terra, terra, ci vuole più tempo a spiegare
il calcolo che a farlo. In questa maniera, nella maggior parte dei casi, credo di essere
riuscito a far comprendere ai ragazzi che la realizzazione pratica avviene attraverso pas-
saggi di ragionamento fatti da una persona, che [...], una volta che siano stati compresi e
correttamente eseguiti, sono facilmente applicabili in diversi contesti, in maniera abba-
stanza semplice, utilizzando strumenti come la calcolatrice, una normalissima penna e un
foglio [...] (FGMat4/158);
mi sono reso conto che la cosa più importante è agganciarsi sempre all’attività pratica e
poi portare tale attività sulla matematica [...]. Abbiamo uno strumento, un fonometro, che
praticamente abbiamo messo alla prova in classe, in maniera abbastanza rocambolesca,
perché facevo urlare un ragazzo davanti ad un fonometro, per fare capire qual era il
livello del rumore, per comprendere [...] quanto questo potesse essere influente nell’am-
biente; e poi siamo andati vicino ad una macchina e abbiamo fatto delle prove con il
cofano aperto, con il cofano chiuso, da una certa distanza ecc. Si tratta di un modo,
diciamo, per unire l’attività pratica con l’attività teorica, un lavoro costruito andando
dentro il laboratorio e vedendo anche quello che fa l’insegnante di laboratorio, per poi ra-
gionarci un attimino su e capire quello che è il lavoro più efficace da fare per far com-
prendere al ragazzo... (FGMat2/240);
avevo un gruppo di saldatori e ho detto loro: “Andate da un signore che vuole un depo-
sito d’acqua e vi dice ‘Voglio un deposito qui’. Come lo fate? Lo fate in base al bagno; vi
serve sapere se è stretto, se non è stretto, e io vi dico che il bagno è stretto, che non po-
tete farlo più largo di... e più lungo di..., cioè due dimensioni le avete: in altezza potete
andare quanto volete, però il deposito deve avere due metri cubi d’acqua...”. Con un po’
di difficoltà, siamo riusciti a farlo. Con la formula inversa del volume, con una disequa-
zione, è venuto fuori che l’altezza doveva essere un tot... (FGMat1/24). Poi c’è un altro
esempio, che ha funzionato con una classe e non con un’altra [...]: avevamo il rapporto di
trasmissione di un trapano, che ha un elettromotore con un numero di giri fisso, e dove-
vano calcolare il numero di giri che dovevamo mettere per quel tipo di motore, che
pulegge mettere. Siamo andati lì a misurare concretamente le pulegge e abbiamo fatto
la cosa che serviva [...]. Con un altro gruppo non ha funzionato: “Professore, dacci i dia-
metri, fai tu, noi guardiamo!” (FGMat1/28).
Esigenze specifiche del contesto professionale in cui i soggetti andranno ad
operare suggeriscono a E. (IntMe3) un particolare approccio allo studio della geo-
metria, che valorizzi il piano cartesiano. Si tratta dunque, quando è possibile, di
adattare i contenuti al contesto. Inoltre, il collegamento continuo con le esigenze
del contesto lavorativo consente di dar senso, agli occhi dei ragazzi, anche a quegli
apprendimenti di tipo ripetitivo che sono connessi con lo sviluppo di abilità stru-
mentali che richiedono di seguire con ordine precise procedure. S. (FGMat4/154-
158) imposta un percorso sulla trigonometria, sulle relazioni tra angoli e distanze,
ricorrendo all’esempio della flangia e aiutando a comprendere i processi di ragio-
namento che sono implicati nelle realizzazioni pratiche. Sempre S. (FGMat2/240),
in un’altra occasione, racconta un episodio che evidenzia come, ancora una volta a
partire dall’esperienza concreta, ci si possa confrontare anche con quei problemi
matematici che hanno a che fare con un fenomeno di natura ondulatoria, come il
suono. Anche J. (FGMat1/24-28) riporta alcuni esempi di lavori centrati sulla pra-
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tica. Il secondo lavoro, quello sulle pulegge del trapano, è stato proposto dal nostro
formatore in due gruppi differenti. Con il primo gruppo ha funzionato, con l’altro
no. In didattica, non ci sono tecniche risolutive, che valgono in ogni circostanza.
5.3.2. Costruire unità di apprendimento centrate sulla realizzazione di capolavori
Se molte delle attività che abbiamo visto sopra possono essere incorporate al-
l’interno di lezioni cosiddette normali, quelle che vedremo in questo paragrafo si
collocano all’interno di progetti più lunghi, complessi ed articolati, che integrano
vari saperi e vengono chiamati “unità di apprendimento in situazione”. Qui si tocca
con mano come la curvatura professionale della matematica (l’aggancio al settore
industriale o a quello economico) presenti grandi opportunità per l’apprendimento
delle discipline matematiche e scientifiche:
quello delle unità d’apprendimento in situazione [...] è un metodo [...] ancora allo stato
germinale, nonostante sia un metodo che portiamo avanti da ben quattro anni, perché
chiede una certa mole di lavoro da parte degli insegnanti e secondo me non abbiamo an-
cora trovato il sistema per ottimizzare il guadagno e minimizzare lo sforzo. Cioè, in
questo momento, secondo me, lo sforzo è ancora eccessivo rispetto al guadagno che se
ne ha [...]. Allora, che cosa sono le unità di apprendimento in situazione? Sono delle
unità interdisciplinari, che hanno lo scopo di creare un oggetto, [...] un manufatto
(IntMi4/5); per ogni classe, si fanno circa due unità di questo tipo in un anno (IntMi4/9);
una delle cose che funziona è legare i percorsi alla loro esperienza, ad aspetti pratici, fon-
damentalmente ad aspetti pratici, [...] in modo che la loro attenzione sia focalizzata su un
problema da risolvere, su un capolavoro da creare. I nostri ragazzi non pensano di stare
facendo inglese, matematica, geometria, in maniera distaccata, separata, scollegata. C’è
però, chiaramente, una difficoltà in questo, perché la cosa va anche organizzata e trovare
momenti in cui poter fare una programmazione per unità di apprendimento più ampie,
più complesse, forse, è qualcosa che va al di là della volontà di un singolo insegnante
(FGMat1/6).
Questi percorsi nascono dalla consapevolezza che si impara meglio quando da
un processo scaturisce un prodotto. Orientando le energie alla realizzazione di un
capolavoro concreto, gli apprendimenti non avvengono in modo fine a se stesso,
ma all’interno di un contesto che li integra e dà loro senso. S. (IntMi4) e M.
(FGMat1/6) non nascondono la difficoltà e il dispendio di tempo che la progetta-
zione di tali ambienti di apprendimento comporta. La testimonianza loro e di molti
altri formatori rivela però che ne vale la pena. Vediamo qui di seguito alcuni elo-
quenti esempi al riguardo.
a. Progettare unità di lavoro nelle quali tutte le discipline convergano alla
realizzazione di un prodotto significativo
Questo tipo di attività è basato su un problema complesso, che richiede la
ricerca di soluzioni e l’attivazione di una forte collaborazione tra gli allievi. Gli
allievi sono tenuti a cercare le risorse di cui hanno bisogno, a discutere valutando
possibili soluzioni alternative, ad operare delle scelte e soprattutto a realizzare e poi
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ad esibire un prodotto finito. La centratura su un problema o sulla realizzazione di
un prodotto specifico dell’area professionale in cui sono impegnati (il “capolavoro”
o il “manufatto”) chiede di valorizzare gli apporti di tutte le discipline. È la situa-
zione migliore per accorgersi che la realtà è unitaria e complessa e che le discipline
non sono “materie”, ma punti di vista differenti sulle cose e sul mondo, che ven-
gono mobilitati come risorse per la soluzione di problemi concreti:
una delle cose migliori che [...] si producono in questa scuola sono quelle realizzazioni
che mettono insieme tutte le materie (IntMe3/356): il famoso “monopattino” per i mec-
canici (IntMe3/358) o il book per i grafici, dove veramente i ragazzi colgono la necessità
di diversi linguaggi (IntMe3/360), per esempio, piuttosto che l’esigenza di gestire la spa-
zialità o la chimica di un pezzo (IntMe3/362). [...] La volontà che abbiamo è di riuscire
sempre più spesso a generare questo tipo di unità di apprendimento costruite con l’ap-
porto di più materie (IntMe3/364);
il progetto prevede la realizzazione di un “capolavoro” di metallo, a fine anno. Quindi
più insegnanti, lavorano in base ad un capolavoro, ad un prodotto finale, che corona il
percorso. Ecco allora che l’allievo non è “dissipato”, cioè l’inglese non va per conto suo
e le altre materie per conto loro, a ruota libera, ma il percorso è, diciamo così, orientato,
e questo è un vantaggio [...]; cioè, in questo caso, non si fa una matematica, chiamiamola
“tradizionale” – aritmetica, logaritmi o quant’altro –, bensì inerente al momento in cui ne
ha bisogno l’insegnante di laboratorio (FGMat1/2);
il “trucco” del manufatto è il fatto di avere, alla fine, qualcosa di concreto, [...] un lavoro
completo [...]; non sempre è un vero e proprio manufatto, come in meccanica; [...] in
realtà, noi facciamo anche dei manufatti nel senso letterale del termine, perché, ad
esempio, un totem mi pare molto tangibile, [...] però non possiamo fare quaranta oggetti
di questo genere [...] (IntMi4/21);
il fatto di lavorare su un contesto che non sia legato solo alla matematica, ma che possa
giocarsi su altre discipline o il fatto far studiare la matematica come una materia che non è
arida, sterile o fatta solo di numeri, secondo me, aiuta loro [...], almeno su alcuni argo-
menti, ad essere più partecipi o più attenti (IntMi3/25) [...]; di solito, in una unità, ab-
biamo come risultato finale un capolavoro, per cui l’unità è seguita dai docenti delle aree
professionalizzanti. Quest’anno in terza [...] ho chiesto al coordinatore se potevamo fare
un lavoro in cui il capolavoro finale, diciamo così, fosse costituito dalla raccolta di tutte le
interviste fatte da loro e da una relazione sui risultati che emergevano dall’analisi delle in-
terviste realizzate con ragazzi della loro stessa età. Anche qui, non si può dire che il lavoro
[...] sia piaciuto a tutti, però, per esempio, le interviste le hanno fatte, hanno proprio inter-
vistato i loro amici, le hanno portate, chi trascritte al computer, chi trascritte a mano, e,
voglio dire, 5-6 interviste, tutte riscritte a mano, non sono una cosa da poco! (IntMi3/35);
esempi di prodotto sono: un portamatite, un portacellulare, un portachiavi, un cavatappi,
un apri-bottiglia da muro [...] (FGMat2/187).
Il “capolavoro” è normalmente qualcosa di tangibile e vicino a quanto gli
allievi saranno chiamati a realizzare nell’attività professionale (il monopattino o
il portachiavi, per i meccanici; il book o un calendario per i grafici...). Per questo
l’unità viene normalmente coordinata dai docenti dell’area professionale e vede
il concorso dei docenti delle varie discipline. Il gruppo degli allievi alle prese con
il compito viene spesso organizzato con l’attribuzione di ruoli simili a quelli che
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potrebbero ricoprire in un contesto reale, all’interno di un’impresa. Alcuni forma-
tori di area scientifico-matematica organizzano anche delle unità che prevedono la
realizzazione di “prodotti” gestibili all’interno del percorso disciplinare (come, ad
esempio, il report di un’indagine condotta per rilevare le opinioni di altri allievi del
CFP, con l’elaborazione statistica dei dati).
Oltre alla difficoltà di progettare percorsi di questo genere, che abbiamo già
ricordato sopra, alcuni formatori segnalano anche altre criticità connesse a questo
tipo di lavoro: non sempre si possono trovare dei collegamenti con tutte le aree
disciplinari e qualche volta i collegamenti risultano un po’ stiracchiati:
il problema [...] è che non per tutti gli argomenti si riescono a trovare buone situazioni o
a disporre varie situazioni, anche perché questo vorrebbe dire che si coinvolgono i for-
matori di tutte le discipline o comunque di un certo numero di discipline, soprattutto
quelle di laboratorio [...]; vorrebbe dire avere molte più ore a disposizione per la prepara-
zione e per lo svolgimento delle stesse. Noi, quest’anno, con i corsi di 1050 ore, che poi
probabilmente scenderanno a 990, con il tipo di lavoro che dobbiamo svolgere e con il
carico che abbiamo, facciamo fatica a fare anche solo tre o quattro unità in situazione per
classe (IntMi6/20);
quando ci siamo fermati a progettare le unità di apprendimento come il monopattino,
il book e quant’altro [...], abbiamo cercato di capire quali erano le materie che potevano
intervenire, che sarebbe stato opportuno collegare: il diritto, l’italiano, l’inglese, la tecno-
logia [...]; difficilmente siamo riusciti ad inserire la matematica; l’idea era di provare ad
inserire la matematica per risolvere il problema del preventivo nella simulazione di diffu-
sione di un prodotto grafico [...], però, devo dire la verità, è un collegamento un po’
tirato, fatto giusto per dire “metto dentro anche la matematica!” (IntMe2/282).
Le unità di apprendimento in situazione richiedono di sganciarsi da un’atten-
zione esclusivamente centrata sui contenuti disciplinari e di concentrarsi su obiet-
tivi di apprendimento operativi, esprimibili in termini di competenza (Pellerey,
2010). Ma non necessariamente tutto il percorso annuale deve essere centrato su
questo tipo di unità, che possono essere alternate da moduli maggiormente standar-
dizzabili:
per ognuna di quelle che noi chiamiamo “unità di apprendimento in situazione”, [...] c’è
un referente; di solito, il referente è anche quello che, alla fine di tutto il lavoro, raccoglie
anche i voti nelle altre discipline. Dipende quindi se sei tu il promotore, oppure se vieni,
diciamo, agganciato da altri. Faccio un esempio: quella del motorino è un’unità di ap-
prendimento di area scientifica, rientra in un argomento specifico, un modulo del pro-
gramma di seconda, quindi non esula da quella che è la programmazione regionale, e in
questo facciamo rientrare il lavoro di informatica, tenendo sempre presente la program-
mazione del secondo anno. L’unità di lavoro di matematica sulla “storia dei numeri” non
rientrava in nessun modulo, non era richiesta come argomento matematico all’interno di
una unità più vasta, però [...] mi piaceva perché [...] è accattivante per i ragazzi, diventa
una curiosità per loro, diventa un modo di agganciarli anche ad altri sguardi possibili.
Quindi io, all’interno della mia programmazione [...], è come se “rubassi” le ore per fare
questo tipo di lavoro (IntMi3/61), perché alcune cose sono proprio legate agli obiettivi da
raggiungere – e quindi cerchiamo di creare dei lavori che rispondano alle richieste del
programma regionale –, altre invece si discostano dalla programmazione regionale [...]
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(IntMi3/63); [...] dobbiamo tener presente la programmazione richiesta dalla Regione,
[...] ma c’è anche spazio per quello che può essere un vezzo tuo, qualcosa che vuoi intro-
durre tu, che potrebbe essere leggermente diverso, deviante, rispetto ai moduli standar-
dizzati (IntMi3/79). [...] Fin quando si tratta di un’unità di apprendimento in situazione di
area scientifica, problemi non ce ne sono, perché, sia che la crei io, sia che la crei il do-
cente di informatica o [...] di fisica, sai che è molto legata a quel determinato pro-
gramma; con altri colleghi invece potrebbero esserci delle differenze o comunque delle
cose che si discostano molto da quello che è il tuo programma. Però, diciamo che, se si
riesce a salvare [...] la didattica che tu costruisci all’inizio dell’anno, poi il di più va
benissimo, per cui [...], se io so che cinque, sei ore le dedico al capolavoro di grafica, ma
so che così riesco ad ottenere una migliore conoscenza nella classe, i ragazzi lavorano
meglio, [...] ti seguono di più, riescono a scoprire degli aspetti diversi della matematica,
[...] allora tutto questo ci sta (IntMi3/81).
C. (IntMi3), che insegna nel CFP di Milano, fa comprendere che sono diverse
le esigenze da contemperare: esiste una programmazione regionale che “detta”
buona parte del curricolo, del percorso da realizzare, articolato in “Moduli” o in
“Aree disciplinari” o in “Assi culturali”, a seconda dei diversi contesti regionali.
Questo lavoro viene portato avanti in modi differenti. Ci sono dei blocchi di le-
zione, chiamiamoli così, “ordinari”, centrati sugli obiettivi di apprendimento indi-
cati dalle programmazioni. In vari CFP sono poi previste alcune “unità di apprendi-
mento in situazione”, che chiedono di essere svolte contemporaneamente da do-
centi di varie discipline e che sono più o meno orientate agli obiettivi della pro-
grammazione regionale. C’è però anche lo spazio per realizzare anche delle “unità
di apprendimento” o “unità di lavoro” specifiche per un’area disciplinare (nell’e-
sempio di C., l’unità sulla “Storia dei numeri”, nell’ambito del percorso di matema-
tica), dentro cui il docente può giocare gli argomenti della sua disciplina che mag-
giormente gli piacciono o lo appassionano, anche se si discostano dalla program-
mazione regionale.
Diversi esempi di capolavori realizzati all’interno di percorsi didattici sono già
stati nominati nei brani degli intervistati che abbiamo riportato sopra: il totem, il
portamatite, il portacellulare, il portachiavi, il cavatappi, l’apri-bottiglia da appen-
dere al muro, il book artistico o fotografico, il calendario, ma anche il report di
un’indagine di opinione. Qui di seguito, riportiamo la narrazione di alcuni esempi
di “unità di apprendimento in situazione”, realizzate dai docenti intervistati. Ini-
ziamo con alcuni esempi “pescati” nel settore meccanico: il monopattino, il poggio
regolabile e il cancello metallico:
i meccanici fanno un monopattino (IntMe6/298), lo costruiscono proprio fisicamente; è
un esercizio di laboratorio. Per fare il monopattino di cosa ho bisogno? Devo comprare
i materiali [...], devo andare a vedere le aziende che me li forniscono e, se l’azienda è in
Inghilterra, devo scrivere una lettera commerciale in inglese [...]; oppure, si chiedono:
“ma quanto mi costa?”. Quindi in matematica fanno un minimo di preventivo [...]; i mec-
canici in questo sono [...] proprio bravi: suddividono i ragazzi anche per la gestione: “io
sono il capo-commessa, tu sei quello che mi convalida il pezzo, tu sei quello che ha pre-
notato il singolo pezzo...”, [...] come in un’impresa vera (IntMe6/300);
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si fanno delle prove, dei capolavori, [...] degli oggetti – parlo dei meccanici – come la
morsa, il cubo, e si cerca di trasmettere a questi alunni il fatto di vedere tutte le materie
coinvolte in questo lavoro pratico [...] (IntMi2/42); per la seconda meccanici, abbiamo
realizzato un poggio regolabile; in pratica, è una vite che si può avvitare e svitare, a se-
conda dell’altezza che manca per sostenere un altro oggetto; lì c’è l’applicazione di tutta
la teoria, dalla vite, al filetto, al disegno, al calcolo di quanto si deve alzare, di quanto si
deve abbassare, al costo dell’oggetto, al costo del lavoro; tutti elementi che riguardano la
produzione del pezzo complessivo [...]; quindi, è un discorso intero, globale, che coin-
volge tutto quello che hanno fatto. Poi l’hanno realizzato loro e mi hanno fatto anche ve-
dere gli aspetti teorici, sia di matematica – i calcoli – che di disegno; in officina poi lo
hanno appunto costruito [...] (IntMi2/46);
abbiamo fatto un project-work calato nella realtà dei nostri ragazzi. Da che cosa siamo
partiti? Allora: “Io, cliente, ho bisogno di fare un lavoro metallico, un cancello; come lo
facciamo?”. Allora, il ragazzo dice: “È semplice, il cliente viene qua e mi dà i soldi”.
“Calma, non si parte [...] in questo modo. Prima c’è la richiesta del preventivo. Il cliente
vuole questo lavoro. Noi dobbiamo rispondere con un preventivo. È chiaro che non pos-
siamo rispondere oralmente, perché, se è un’azienda, se è una ditta, loro mi scrivono e io
devo rispondere per iscritto”. Perciò abbiamo capito che bisogna fare [...] un’offerta col
preventivo. Acquisto del materiale: che materiale dobbiamo acquistare? Noi dobbiamo
partire dal presupposto che l’oggetto che dobbiamo dare sia un oggetto garantito; non
devo fregare il cliente, perché il cliente lo frego la prima volta, ma la seconda volta non
viene più da noi. “Attenzione – ho detto ai ragazzi –, corriamo il rischio o di non trovarci
nessuno dietro la porta o di trovare venti persone dietro la porta la mattina, alle quali
dobbiamo fare il lavoro. Che significa questo? Se io faccio un preventivo troppo alto,
nessuno mi verrà a cercare, se io faccio un preventivo troppo basso, avrò una fila di per-
sone, dietro la porta che vorranno quel lavoro, con il rischio, da qui a breve tempo, di
chiudere i battenti, perché non vado a guadagnare niente”. Allora, di concerto tra i col-
leghi [...] di tutte le materie inerenti alla costruzione di questo cancello, abbiamo fatto
realizzare una piccola dispensa. È chiaro che è stato determinante il nostro aiuto, perché
per i ragazzi scrivere quattro parole in italiano era già un problema, però il 70% del la-
voro lo hanno fatto loro. Abbiamo fatto una dispensa, abbiamo fatto un cd [...] abbiamo
presentato anche le fatture, lo sconto, la modalità di pagamento e così via (FGMat1/14).
Nell’esempio che segue, un percorso di disegno tecnico ha rivelato diverse im-
plicazioni di carattere matematico e geometrico:
invece di fare il solito disegno meccanico, quindi il disegno di pezzi espressamente mec-
canici, alberini e cose del genere, siamo andati in un’aula dell’oratorio, sempre all’interno
del nostro istituto, e abbiamo cominciato a fare i rilevamenti delle misure di quell’aula. È
un’aula molto grande, con parecchie cose dentro, calcetti, bigliardi; c’è anche un bar, ci
sono tante cose; lo scopo era quello di rilevare queste misure, per poi realizzare la pian-
tina dell’oratorio, con gli arredamenti e tutto quanto e farne il disegno completo per una
possibile ristrutturazione. La difficoltà era che dovevano farlo in modo autogestito; io non
intervenivo, intervenivo per dare alcune dritte su come prendere le misure, su come usare
quello strumento, su come fare quello o quell’altro, poi si dovevano organizzare da soli.
Quindi, aiutato da un mio collega [...], abbiamo diviso la classe in tre gruppetti; in questi
tre gruppi, ognuno aveva il proprio ruolo (FGMat2/362), [...] c’era quello che, diciamo,
faceva l’ingegnere e organizzava il gruppo [...], qualcuno prendeva le misure, qualcuno
faceva lo schizzo a mano libera, altri magari prendevano le misure più impegnative con il
decametro, il metro e via dicendo. Questo lavoro è durato un’ora e mezza, due ore; [...]
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poi bisognava andare nell’ufficio, che era la nostra aula informatica, e realizzare il
disegno su autocad, usando tutti i comandi che si conoscevano, in più introducendone
di nuovi, che ne so, un comando serial per fare le piastrelle del pavimento, utilizzare layer
– eravamo abituati ad utilizzare tre o quattro layer e lì i layer aumentavano –, un sistema
di quotatura diversa da quello meccanico [...]; siamo andati avanti non solo quel giorno,
ma anche le due lezioni successive. Il riscontro è stato bello, perché non mi sembrava di
fare scuola, non so come spiegare, cioè i ragazzi l’hanno presa in maniera molto positiva
[...] (FGMat2/364); io ero lì che davo suggerimenti, non stavo facendo lezione; ho fatto
un po’ di lezione quelle due ore su, in aula, per spiegare i comandi nuovi [...]
(FGMat2/366); [...] poi, per integrare italiano, che veniva alla fine della giornata; dopo
sei ore [...], in cui si erano, diciamo, svagati un po’, riprendere la concentrazione era dif-
ficile: hanno fatto una piccola relazione, scrivendo se la loro esperienza era stata positiva
o negativa, cosa avevano fatto (FGMat2/372); [...] tutti hanno detto che il fatto di non
essere in aula a lavorare, ma di essere “in giro” – perché ci siamo spostati, abbiamo cam-
minato, siamo andati in un altro ambiente e ognuno era libero di fare “quello che voleva”,
con i suoi amici, perché i gruppi se li sono scelti loro e li hanno formati loro –, tutto
questo è piaciuto molto e ci hanno proposto di rifarlo, magari in un ambiente esterno al-
l’istituto, in un cantiere vero e proprio [...] (FGMat2/376). A livello didattico, ad esempio,
parlare del layer quando si fa una lezione in un’aula informatica è una cosa molto astratta
[...] (FGMat2/380). Sono tutti i piani di lavoro, che poi si disegnano su cad. Vederli al-
l’atto pratico è un’altra cosa; ho fatto quest’esempio: “Noi dobbiamo realizzare la pian-
tina, dobbiamo costruire questo ambiente, non c’è, dobbiamo costruirlo noi, dobbiamo in-
ventarlo noi, quindi facciamo il disegno così com’è, come lo vedete adesso, solo che, per
poterlo realizzare, deve passare l’idraulico, deve passare l’elettricista, deve passare l’arre-
datore e, se vogliamo, il muratore. Noi realizziamo un disegno completo, ma all’idraulico
un disegno completo con tutti gli arredamenti, con i serramenti o con quello che ci met-
tiamo dentro interessa poco, gli interessano solo alcune zone dell’ambiente; quindi, se noi
utilizziamo questi layer, congeliamo e utilizziamo solo quelli che interessano all’idraulico
o all’elettricista; con lo stesso disegno riusciamo a soddisfare tante richieste”. E questa
cosa sono riuscito a farla capire di più con questo tipo di lavoro che non spiegando in aula
con mille esempi (FGMat2/382). La matematica è rientrata perché, per riprodurre su
disegno la disposizione dei calcetti, abbiamo tribolato abbastanza, perché i calcetti veni-
vano dritti, magari qualcuno era inclinato, ci sono delle colonne, quindi bisognava pren-
dere la circonferenza di queste colonne: “Come si fa? Perché per misurare una cosa si
utilizza il metro?” [...]. Siamo riusciti ad integrare molto bene la matematica in questo
lavoro, soprattutto perché bisognava riprodurre il disegno in scala (FGMat2/384).
In un corso per carrozzieri, l’unità di apprendimento in situazione ha riguar-
dato la manutenzione e completa rimessa a nuovo di un’automobile:
[...] i ragazzi dell’indirizzo per carrozzieri hanno preso una Mercedes 190, arrivata al
Centro in condizioni pietose, [...] e l’hanno completamente rimessa a nuovo, carteggiata,
stuccata, riverniciata nel forno; nella parte meccanica, hanno smontato e rimesso a nuovo
il motore, hanno smontato le portiere, i sedili. Adesso la macchina è al Centro ed è come
nuova. Hanno collegato a questo lavoro anche le altre aree; ad esempio, per la parte di fi-
sica e matematica, abbiamo studiato il principio fisico del torchio idraulico, il funziona-
mento dei freni dell’automobile e anche il funzionamento del carro-ponte che serve per
sollevare l’auto in officina. Per la parte di italiano, hanno scritto la relazione tecnica dei
vari passaggi che hanno sviluppato nel carteggiare, nello stuccare, nel verniciare. Per la
parte di inglese, hanno semplicemente tradotto in inglese, con i termini tecnici appropriati,
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la relazione che avevano fatto sul torchio idraulico. Per la parte di informatica, hanno
preso la relazione di italiano e l’hanno ricopiata in word, scaricando da internet delle foto;
addirittura hanno fatto delle foto alla Mercedes e poi le hanno riportate nella loro rela-
zione. Per la parte di storia, hanno fatto la storia della carrozzeria: in Piemonte, abbiamo
la fortuna di avere Giugiaro e Pininfarina; le prime carrozzerie sono nate a Torino e sono
famosissime. Abbiamo notato che questa metodologia serve per mantenere l’attenzione
dei ragazzi e per far loro vedere che tutte le materie tendono ad un obiettivo comune
(FGMat4/135).
Negli indirizzi per operatori del legno (falegnami e restauratori), vengono rea-
lizzati altri tipi di prodotto, ad esempio la scacchiera o la cassapanca:
l’oggetto che abbiamo finito è stata una scacchiera di dama e scacchi, realizzata comple-
tamente dagli allievi. Hanno dovuto fare il disegno, [...] il progetto [...]; io ho detto: “Sì,
la possiamo fare, però dovete fare tutto voi”. (FGMat2/185). Quindi [...] ognuno si è co-
struito la scacchiera secondo la sua fantasia, ha realizzato un disegno; poi, all’atto pra-
tico, sono intervenuto un po’ anch’io e abbiamo dovuto procedere tenendo conto di ciò
che ci permettevano di fare le macchine, perché non tutti i progetti erano realizzabili;
però [...] tutti hanno creato un loro disegno, un loro progetto, e poi abbiamo anche realiz-
zato fisicamente questa scacchiera [...] (FGMat2/187).
M., docente di matematica a Fossano, racconta in due occasioni (FGMat1/71-
75 e IntRoma1) lo stesso episodio19, relativo ad una unità di apprendimento centrata
sulla realizzazione di una cassapanca. Riportiamo entrambi i brani per far cogliere
la situazione in tutta la sua ricchezza:
in un [...] corso per restauratori di mobili antichi, mi ero personalmente proposto come
cliente interessato ad acquistare una cassapanca e quindi gli allievi dovevano propormi
una serie di cassapanche in diversi stili, elaborando, per ogni modello, progetto, disegno,
costo; [...] io avevo proposto questa unità proprio come una commessa; abbiamo scelto
insieme il modello. Anche in questo caso, c’era tutto il discorso dei costi delle materie
prime, della lavorazione, dell’ammortamento delle macchine, dei costi fissi e così via
(FGMat1/71); il lavoro l’ho commissionato davvero, [...] ho pagato tutte le materie prime
(FGMat1/73); in questo caso, poi ho dato un forfait al CFP e gli allievi hanno realizzato
proprio una cassapanca Luigi XVI (FGMat1/75);
ricordo un’esperienza, in particolare, perché sono riuscito in quel caso innanzitutto a rag-
giungere un convincimento quasi generale della classe, allo stesso tempo sono riuscito a
coinvolgere molti... – non penso mai di riuscire a coinvolgere tutti, non ho questa presun-
zione, ma diciamo che, in quel caso, l’attività ha coinvolto molti degli allievi; era un
corso per restauratori di mobili antichi –. Ho detto: “In questo momento, a casa mia, sto
cercando un pezzo di arredo [...], però non vorrei spendere troppo... Vorrei una cassa-
19 Questo fatto ci consente di fare anche una nota di tipo metodologico: M. aveva partecipato ad
un FG, svoltosi a Roma, nel mese di giugno del 2008. Il primo brano è tratto dal suo intervento nel
FG. L’intervista individuale con M. è stata realizzata nel mese di novembre dello stesso anno, dopo
che a M. era stata inviata la trascrizione del testo del FG. Si può notare la diversa densità descrittiva
dei due testi. Va tenuto conto che, nel primo caso, si trattava di un FG e, nel secondo, di una intervista
individuale. Le due tecniche consentono la raccolta di materiali di diversa densità. Ma importante è
stata anche la possibilità per M. di leggere il testo della trascrizione dei FG prima della realizzazione
dell’intervista. È come dire che la narrazione stimola ulteriore narrazione.
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panca...” (IntRoma1/42). Decisamente è quella la volta in cui li ho coinvolti maggior-
mente, anche dal punto di vista emotivo, perché ho visto la partecipazione dei ragazzi...
(IntRoma1/44). In questa attività, erano implicati diversi concetti matematici: [...] innan-
zitutto concetti geometrici: volume e peso dell’oggetto; poi, i costi; in questo caso, [...]
quasi tutti mi hanno dato come costo, il costo orario e il costo del materiale; fine del dis-
corso; allora ho detto loro: “ma, secondo voi, in laboratorio, non pagate l’affitto? I mac-
chinari che utilizzate non hanno necessità di essere cambiati? Quindi, non occorre un at-
timino anche ragionare sugli ammortamenti, sulle somme che avete investito per co-
struire quel laboratorio? Poi, voi avrete un guadagno, ma dopo potreste avere un periodo
in cui, magari, non avete lavoro; non dovreste tener conto anche di questo? Oppure, ma-
gari, vi viene un’occasione, quindi non occorrerebbe avere una certa somma di liquidità
che... non dovete costruire sul mio pezzo, ma distribuire su tutti i pezzi, una somma che
vi permetta di avere delle scorte di materiale, di far fronte ad una necessità improvvisa,
ad esempio la rottura di uno strumento o di un macchinario che voi pensavate che vi du-
rasse almeno tre anni ecc. ecc..”. Cioè, in pratica, ho cercato di esplicitare tutti gli aspetti
di costi da tenere in conto. Allora, in questo caso, andare a fare i conti voleva dire calco-
lare percentuali, aumenti, non solo i semplici costi. Oppure ho detto: “Benissimo, a quel
gruppo là che vuol mettersi per conto suo [...]: avete 100.000 euro che, più o meno, vi
serviranno per aprire la vostra attività...”. In effetti, questo gruppo di ragazzi poi si è
messo per conto proprio, alla fine del corso. “Eh no – dice uno – dovrò farmi fare un pre-
stito dalla banca!”. Allora gli ho detto: “e la banca te li presta gratis i soldi? Non devi
anche tenere conto del fatto che dovrai restituirli e quindi che avrai anche questa come
spesa aggiuntiva?”. Quindi si è riusciti a trasformare un problema pratico, che poteva
essere puramente geometrico, perché in fondo in fondo la cassapanca era un problema di
volume, in problema matematico, che comportava tutta una serie di problemi, di percen-
tuali, di ammortamenti, di calcolo di tassi di interesse e così via; quindi abbiamo coin-
volto degli aspetti della matematica, che magari, detti così, in maniera pura, astratta e
sganciata dal reale, non avrebbero coinvolto così tanto la classe (IntRoma1/46).
Analizzando gli esempi, possiamo cercare di sintetizzare alcune caratteristiche
proprie del lavoro sui capolavori, estraendole dagli esempi stessi, anche a rischio di
ripetere alcuni concetti a cui si era già precedentemente accennato:
– le “unità in situazione” vengono realizzate all’interno di contesti autentici, veri
o simulati (l’officina meccanica, la fabbrica, lo studio professionale, l’a-
zienda...) e spesso comportano un’uscita dall’ambiente abituale dell’aula e
qualche volta anche del CFP;
– nascono da forme di collaborazione tra docenti di diversa area, in fase proget-
tuale, realizzativa e valutativa;
– richiedono generalmente un’articolazione degli allievi in gruppi di lavoro e
dunque qualche forma di collaborazione tra pari;
– quando questo avviene, spesso, all’interno dei gruppi, vengono assegnati, dai
docenti o dagli allievi stessi, dei ruoli (ad esempio, il capo-commessa, il vali-
datore, il misuratore, l’ingegnere...), congruenti con il contesto professionale
all’interno del quale avviene l’esercitazione;
– anche i docenti possono assumere dei ruoli: il cliente, il committente, oppure
l’esperto o il maestro artigiano a cui ricorrere per ricevere eventuali consigli...;
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– la realizzazione del compito implica l’impiego di conoscenze e abilità svilup-
pate nei diversi ambiti disciplinari; talvolta, è il lavoro disciplinare ad offrire
sguardi diversi sul compito stesso (come nel caso del lavoro sulla “storia della
carrozzeria”, e dunque su una parte importante della storia industriale del Pie-
monte, attivato a partire dal compito di rimessa a nuovo di un’auto vecchia e
scassata); tra area pratica e area teorica si crea cioè un rapporto di reciproca
implicazione e fecondazione;
– il livello di supporto offerto dal docente può essere più o meno elevato, a se-
conda delle caratteristiche del gruppo; si va da un lavoro fatto sostanzialmente
insieme, in cui il docente interviene spesso con domande che aiutano ad impo-
stare e a risolvere correttamente il problema pratico, ad un lavoro in cui il
docente si limita ad aggirarsi tra le postazioni (che generalmente non sono solo
i banchi), dove i ragazzi lavorano in modo sostanzialmente autonomo, e a
fornire, se richiesto, “dritte”, consigli e suggerimenti;
– l’ultima fase del lavoro, generalmente è costituita dalla realizzazione di
qualche forma di presentazione ad altri del prodotto realizzato (relazione,
documentazione fotografica o video...);
– la realizzazione del compito è spesso accompagnata da qualche forma di rifles-
sione sul processo, sulle difficoltà incontrate, sul contributo di ciascuno alla
realizzazione dell’impresa, sui possibili miglioramenti da apportare, ma anche
sui saperi implicati e sulle forme proprie del ragionamento pratico; questa ri-
flessione può avvenire sia durante l’attività, soprattutto attraverso le domande
poste dal docente, sia dopo l’attività, in un momento ad essa dedicato;
– allievi e docenti non hanno l’impressione di “stare facendo scuola”, almeno
nel senso che questa espressione generalmente assume: sono attivi, coinvolti
anche emotivamente, interessati, impegnati; non solo applicano delle cono-
scenze precedentemente apprese, ma, durante il lavoro stesso, realizzano o
consolidano processi di comprensione di elementi o fenomeni che non erano
ancora stati compresi durante le ore di teoria.
Infine, si può notare una certa continuità tra lo “stile” relazionale che i docenti
assumono e gli aspetti di “compito reale” connessi alle pratiche professionali. In
altri termini, quella educativa non è solo un’azione di cura, ma un’azione di cam-
biamento che qualifica gli allievi in termini di autonomia e responsabilità. Per far
questo occorrono punti di aggancio, compiti-problema significativi ed utili, colla-
borazione tra le discipline ed oltre le discipline, coinvolgimento del mondo esterno
al CFP.
b. Far calcolare “costi e ricavi” e preventivi dei capolavori che realizzano in
laboratorio
Sopra abbiamo visto alcuni esempi di “unità di apprendimento in situazione”
descritti dettagliatamente, in tutte le loro fasi. Anche per le attività descritte qui di
seguito, il contesto è generalmente quello delle unità di apprendimento in situa-
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zione. Solo che la focalizzazione dei racconti seguenti è maggiormente posta sul
contributo specifico dei saperi propri dell’area disciplinare matematica alla realiz-
zazione di un prodotto. Ecco allora ricomparire la consegna – già vista varie volte –
di far fare dei preventivi o dei calcoli sui costi e sui possibili ricavi nella realizza-
zione di un prodotto, che spesso è utilizzata anche al di fuori delle unità di appren-
dimento in situazione, magari come ambientazione dei classici esercizi che si tro-
vano sul manuale:
con gli insegnanti di laboratorio, cerchiamo [...], per esempio, di far fare loro un preven-
tivo per l’acquisto del materiale (per la realizzazione di un lavoro di officina): [...] quanti
pezzi servono? Quanto vengono pagati? Ci potrà essere uno sconto? Sono indicate le per-
centuali? [...] (IntMi6/16). Può essere un preventivo per l’acquisto di materiale, piuttosto
che un preventivo da fare perché magari dico: “Se voi doveste uscire, dato che siete degli
elettro, e vi chiedessero di creare un impianto per una casa, dovreste presentare un pre-
ventivo; non potete fare cose esageratamente onerose per il cliente, ma neppure (appli-
care) prezzi stracciati, perché sareste fuori mercato, in un caso come nell’altro”. Ecco, su
questi esempi, su questo tipo di modalità, vedo chiaramente che sono più attenti
(IntMi6/18); [...] si cerca di spiegare prima, di preparare la classe al tipo di lavoro che
devono fare; non è necessaria un’ora, basta semplicemente spiegare che il tipo di com-
pito è un po’ diverso da quelli tradizionali, che sono abituati a fare, che le modalità di va-
lutazione sono diverse, perché il lavoro che si propone serve per capire se hanno vera-
mente capito tutto quello che è stato fatto, e che loro consideravano così inutile o così
slegato dalla realtà; in realtà, non è un lavoro slegato, magari sono cose già fatte nelle
singole lezioni, però, quando viene fatto questo tipo di lavoro, si tirano le somme di tutto
quello che è stato fatto in precedenza e si cerca di capire se loro hanno acquisito qualche
cosa. Devo dire che normalmente i risultati rispetto a questo tipo di lavoro sono migliori
di quelli ottenuti invece nelle singole esercitazioni un pochino più classiche (IntMi6/20).
[...] Domani, andando fuori come elettricista, l’allievo dovrà comunque incominciare a
utilizzare del materiale e, per utilizzare il materiale, dovrà fare degli ordini, controllare
che siano corretti, cercare di non farsi fregare dalle persone che eventualmente forni-
ranno il materiale stesso o fare dei preventivi per dei clienti [...] (IntMi6/26); con loro af-
fronto costi unitari, sconti, percentuali, perché i colleghi mi dicevano che, ad esempio, se
si supera un certo numero di componenti acquistati, si ha diritto ad ulteriori sconti, op-
pure anche semplicemente per confrontare i fornitori e individuare quale potrebbe essere
il più [...] vantaggioso [...]. Con loro poi, [...] faccio specificatamente riferimento al fatto
che dovranno presentare una dichiarazione dei redditi. Adesso tutti parlano del fatto che
è necessario fare educazione civica, del fatto di pagare le tasse [...]; rispetto a questo, in-
dipendentemente dal settore, si dovrebbe essere in grado di fare almeno quattro calcoli o,
se non si è in grado, almeno di controllare quelli a cui si fanno fare (IntMi6/30);
ho avuto occasione [...] di fare un collegamento tra l’asse tecnico professionale e quello
culturale, in questo modo: siccome sono ragazzi che fanno grafica, è stato possibile fare
una serie di esercitazioni per capire come viene fatto [...] un preventivo di stampa [...].
Ho chiesto ai ragazzi: “Quanto costa la stampa, la carta che dovremo utilizzare per una
commessa di stampa?”. In quel caso io, essendo molto ignorante in materia, mi sono
fatto aiutare da un collega [...], nel senso che mi ha spiegato cosa andava fatto, quindi
tutti i procedimenti, il taglio della carta, il peso della grammatura e così via, e ho visto
che, l’anno scorso, nonostante fossimo a fine anno, la cosa ha avuto un discreto successo.
Quindi loro hanno visto come è possibile applicare fondamentalmente i calcoli delle
quattro operazioni, ma anche le proporzioni [...]; ho visto la differenza netta nel loro inte-
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resse, nel momento in cui si parlava di qualcosa che era prettamente inerente alla stampa
[...] (FGMat2/232). Con i grafici sono partito da un discorso che interessava loro, sui pre-
ventivi. Allora, ho fatto alcune lezioni sui tassi di interesse, sull’interesse semplice,
soprattutto, sulla proprietà di capitalizzazione, sul montante, e questo mi è servito per
simulare il problema di un ipotetico imprenditore, alle prese con un preventivo, alle prese
con alcuni costi e con qualche problema di investimento sulle macchine, e per far loro
calcolare che cosa voleva dire differire di tre mesi un pagamento, che conseguenze
poteva avere; questo era un problema concreto (IntMe2/234);
[...] la situazione che volevo ideare per l’esame finale, era quella di [...] creare con loro
un sistema per ricavare guadagni e costi del capolavoro che loro dovranno realizzare in
officina; [...] l’idea era di fare quel lavoro come esame finale di terza, così agganciamo
(IntVr1/189) costi e guadagni al lavoro che loro fanno [...], con valori reali [...] e questo
comporta una messa in funzione di processi di pensiero di tipo matematico esattamente
collegati a quello che hanno fatto (IntVr1/191);
[...] Avevano fatto un morsetto in laboratorio e io ho chiesto: “Avete fatto il morsetto?”.
Tutti: “Sì, sì” (FGMat1/24). “Facciamo un preventivo. Cosa viene a costare un morsetto?
Riusciamo a venderlo, se volessimo?”; e venivano fuori varie cifre: “100 euro un mor-
setto? Secondo voi, lo vendiamo?”. “Secondo voi dove possiamo migliorare?”. E si ren-
devano conto [...] del fatto che dovevano lavorare in modo più veloce, che il laboratorio
era appunto un costo. Poi la nostra segretaria si chiama Mariella: “Mariella deve pren-
dere il suo stipendio, cosa le diamo?”. I costi fissi [...] e poi cosa cambia se produciamo
mille pezzi e così via, e questi concetti basilari (FGMat1/28).
L’apprendimento che avviene attraverso il coinvolgimento attivo nella solu-
zione di problemi lavorativi è un apprendimento fortemente contestualizzato. Le
conoscenze che esso permette di sviluppare sono particolarmente vive, perché ri-
conoscibilmente legate a prestazioni e prodotti finali dotati di senso. Le situazioni
che vengono create risultano particolarmente motivanti perché si caricano dell’ec-
citazione che in genere caratterizza la realizzazione di un’impresa e consentono di
apprendere insieme ad altri.
5.4. Orientare a mettere in parola l’esperienza pratica
Abbiamo visto sopra la centralità di ancorare la matematica ai problemi, ma
questo non basta. È necessario far cogliere che la matematica fornisce una lingua,
con i suoi segni (per i numeri, le operazioni, le relazioni...) e le sue procedure, per
esprimere e verificare legami, corrispondenze e dipendenze tra i fenomeni, e che
tutto questo richiede un certo grado di astrazione (l’operazione di prescindere dalle
caratteristiche singolari degli oggetti e di isolarne alcuni aspetti, come ad esempio
la quantità) e un certo modo di ragionare che, per quanto possa essere almeno al-
l’inizio visibile e sensibile, conduce a operare generalizzazioni (cfr. Maraschini,
2008, pp. 38-45) e a produrre spiegazioni semplici ed eleganti.
5.4.1. Superare un’operatività priva di pensiero
Lavorare sui problemi e cercare agganci con l’esperienza non significa ridurre
tutto ad un’operatività priva di pensiero. Eppure la formalizzazione dei processi e
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la costruzione di dimostrazioni matematiche non sono risultati semplice da rag-
giungere:
ci sono alcuni contenuti che sono fondanti al primo, al secondo e al terzo anno. Al primo
anno, ad esempio, uno dei contenuti che ritengo veramente essenziale sono le grandezze
direttamente proporzionali, perché qualsiasi sia il settore, una proporzionalità diretta
esiste; quindi questo è uno dei contenuti che occorre riuscire a trattare. Normalmente non
è un grosso problema, anche perché il concetto di per sé è abbastanza semplice. Qual è la
metodologia? Ricorrere ad esempi semplicissimi, quale prendere due matite uguali e
dire: “Questa matita pesa x g; quanto pesa prendere in mano 2 matite?”. La risposta è im-
mediata [...]; mi dicono: “Il doppio!”. Quindi: “Quanto è il peso?” e da lì ragionare sulla
proporzione che esiste tra due oggetti. Oppure si possono fare sulla lavagna dei disegni
di quantità che aumentano, che possono essere delle quantità lineari, ad esempio delle
lunghezze, e andare a vedere come, raddoppiando la lunghezza dal punto di vista grafico,
raddoppia anche la misura; questi concetti normalmente passano abbastanza bene. Un
elemento che ho trovato invece estremamente difficile [...] è formalizzare un processo
risolutivo, passare da un testo scritto, che esplicita quali sono gli elementi da cui partire e
chiede di raggiungere degli obiettivi, e dire: “Adesso, mi sai dire i passi che da A ti per-
mettono di arrivare a B?”. È la formalizzazione del processo logico che permette di arri-
vare alla soluzione; trovo una difficoltà enorme a tradurre un contenuto reale in una serie
di contenuti tra virgolette “astratti” [...] e non ho trovato ancora altro metodo, se non
quello di fare tanti esempi simili per indurre a un certo tipo di mentalità. [...] Se i dati
sono simili, il percorso è simile; l’allievo, [...] per similitudine, riesce a percorrere, a
ideare il percorso, ma se i dati sono di tipo diverso e richiedono un approccio [...] nuovo,
normalmente fanno più fatica (FGMat4/131).
M. (FG4/131), docente a Fossano, esprime la difficoltà di guidare alla forma-
lizzazione di processi logici e alla costruzione di “teorie”, basate su dimostrazioni.
Spesso gli allievi dell’IFP – ma forse il discorso non vale solo per loro – sono più
propensi ad accettare che le cose stiano così come dicono l’insegnante o il libro di
testo, che non a formulare ipotesi e a dedurre delle tesi a partire da queste, attra-
verso ragionamenti rigorosi. Il primo livello della formalizzazione è constatare che
diversi casi particolari funzionano in modo simile. Siamo ancora distanti da una
dimostrazione matematica, ma è già qualcosa. Anche F. (IntVr1) incontra difficoltà
analoghe:
a volte mi soffermo e dico qual è la nomenclatura, metto qualche “parolona”, perché
piace a me, e loro dicono: “Ma cos’è sta roba? ‘Nomenclatura’, ma cosa centra?”. Allora
io dico: “Cosa vuol dire questo termine?”. Non vado troppo sul pratico, come magari
qualcuno dice che bisognerebbe fare al CFP, cerco di essere un po’ più formale nella
spiegazione; ritengo che tutti e due gli aspetti siano importanti. Ridurre tutto all’operati-
vità, per me, è un po’ [...] banale, perché, se a loro tu dici: “Svolgi questo esercizio così,
così, così”, loro lo fanno, ma se vai fuori da questo schema, si fa un po’ più fatica; allora
cerco di mediare, ecco, do a loro degli strumenti matematici, perché possano poi arrivare
all’automatismo nell’affrontare gli esempi da soli (IntVr1/38) [...]. Per alcuni esempi che
ho scelto io, è più facile trovare l’aggancio con l’officina, per altri – ad esempio, mi
viene in mente il programma di seconda, [...] – è un po’ più difficile, perché [...] preve-
dono ad esempio gli strumenti dell’algebra, rispetto ai quali loro, lì per lì, non trovano
alcun aggancio pratico; sull’algebra è più difficile trovare un problema, anzi non c’è un
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problema; questa è la parte più “tosta” da fare [...] (IntVr1/42). In questa situazione dico:
“Non è necessario che, per ogni cosa che facciamo, ci sia un’applicazione immediata e
tecnica, perché i nostri saperi non si formano solo su quello che io immediatamente vedo
verificabile; se voi apprendete tutti questi concetti, questo vi apre ad affrontare problemi
che magari non sono legati a questo argomento. Questo sforzo vi dà però la possibilità di
risolvere altre cose”. Loro hanno un grosso problema: quando arrivano in terza, nelle
altre materie, utilizzano delle formule; allora ho detto: “Se è vero che abbiamo appreso
gli strumenti algebrici in seconda, non dovrebbero esserci grossi problemi”. Eppure il
problema c’è (IntVr1/44). [...] Vedono (le formule) di fisica o di tecnologia come entità
separate [...] (IntVr1/46). Eppure sono le operazioni che avevano appena visto! [...]
(IntVr1/48). [...] Non so se hanno acquisito qualche strumento matematico, però qual-
cuno mi dice: “Sì, quando siamo in officina, c’è il tale che fa i conti – e fa il nome –;
quando dobbiamo tagliare una lamiera, [...] io ci metto una vita, allora chiedo a lui e lui
me li fa”; ecco, per dire, questo è l’unico esempio concreto, o anche: “Il prof. riesce a
fare tutti questi passaggi, ma io non so neanche di che cosa stia parlando” e fanno, non
so, scale, misure, divisioni in centesimi (IntVr1/135) [...]; loro collegano – il fatto che me
lo abbiano raccontato (mi dice che) il collegamento c’è –, però non vedono questo di
fondamentale importanza. Quando glielo chiedo [...], (mi dice): “Tanto, sa prof, io con la
matematica...! Lei non si offenda”. “No, non devi dire così, perché non è vero, lo sai che
basta volere!”; ecco qualcuno che è più in difficoltà è così; si fa fatica ad agganciarlo;
probabilmente la motivazione viene meno perché da lunga data gli è stato detto che non è
capace e, in quel caso, non c’è niente da fare (IntVr1/139). [...] Io faccio fatica a trovare
sempre (gli agganci), ecco, forse perché sono più improntata al [...] curricolo, al pro-
gramma che si deve sviluppare, e di conseguenza [...] non ho mai trovato qualcuno che
mi dicesse: “Mi è capitato questo problema in officina, come si potrebbe fare?”. [...]
Loro sono molto meccanici nelle cose che fanno, lo fanno perché hanno detto loro che si
fa così. Ad esempio, [...] in officina, c’è tutto un ciclo di lavoro, all’interno del quale ci
sono delle formule, ma loro non si pongono neanche il perché, non vengono a chiedermi
niente, anche se sono in difficoltà; io lo so invece perché quando l’insegnante mi dice:
“Mi dai una mano con questa formula?” e poi quando la spiego loro, mi dicono: “Ecco, è
già venuto a dirglielo!”; di loro iniziativa, non ti chiedono l’aggancio o se dai loro una
mano a fare qualcosa (IntVr1/183).
F. (IntVr1) soffre del fatto che talvolta i ragazzi fatichino a passare dall’appli-
cazione della formula memorizzata al ragionamento che fa interrogare, chiedersi il
perché delle cose, azzardare ipotesi, ricercare regolarità e simmetrie, costruire col-
legamenti e deduzioni. Il rischio è che ci si limiti a memorizzare aride formule da
applicare e che questo avvenga nelle ore di matematica come in quelle di labora-
torio. Così, però, si inducono gli allievi ad essere più diligenti che creativi. Ecco al-
lora l’esigenza di accompagnare le esperienze e i problemi agganciati all’espe-
rienza anche con l’uso di un linguaggio specifico e formale. Affrontare un’espres-
sione algebrica consente di “toccare con mano” le potenzialità del lavoro di astra-
zione che, portando a generalizzare, permette di trattare problemi di diversa natura.
Proprio nell’astrazione consiste, del resto, anche buona parte dell’“utilità pratica”
della matematica. Ciò che sostengono i nostri formatori è ben espresso, ancora una
volta, da Walter Maraschini, quando di questa disciplina afferma che «...l’idea che
più le si avvicina è quella della mappa della rete della metropolitana di una grande
città. Essa non riproduce né gli effettivi percorsi né le distanze tra le stazioni, ma
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contiene le informazioni essenziali. È un sistema di simboli e non rappresenta in
modo fedele la città; piuttosto, mostra le relazioni tra le stazioni, la loro succes-
sione. È astratta, ma permette di ragionare sul percorso che interessa, stabilisce le
precedenze, induce dei calcoli sui tempi di percorrenza, fa risolvere il problema di
come raggiungere un certo luogo [...]. La mappa è un sistema simbolico, razionale
e astratto, utile a risolvere problemi: come la matematica» (Maraschini, 2008, pp.
34-35). Qualcosa di simile capita anche a M. (FGMat1/10-12; IntRoma1), che in
più occasioni20 interviene sulla questione e suggerisce di non fermarsi all’espe-
rienza pratica, ma di guidare verso percorsi di formalizzazione, che aiutino a dare
chiarezza e sistematicità a quanto intuito:
(si tratta di) non limitarsi alla sfera pratica, ma di cercare di fare il passettino in più, di-
cendo: “Bene, questo è il discorso pratico, come possiamo teorizzare, dando una forma
coerente e chiara a quello che abbiamo visto in maniera intuitiva?” (FGMat1/10). Sulla
questione delle equazioni, ad esempio, mi interessa riuscire a capire bene [...] che cosa sia
un’operazione inversa: “Se fai un passo in avanti e poi un passo indietro, dove sei arri-
vato?”. “Esattamente al punto di partenza”. “Quindi qual è l’operazione che ti permette di
fare un passettino avanti e quella che ti permette di ritornare al punto di partenza?”. Ecco
il concetto di operazione inversa; dopodiché si ottimizzano le applicazioni, perché non
tutte sono equazioni di primo grado. Anche in questo caso, vorrei riuscire a dare qualcosa
in più, senza fermarmi all’equazione più semplice, quella di primo grado, ma arrivando ai
livelli successivi, coinvolgendo le potenze e le operazioni inverse (FGMat1/12);
il concetto di operazione inversa resta un momento importante, perché è essenziale arri-
vare ad avere la descrizione di un percorso e riuscire a capire che i percorsi normalmente
si possono percorrere nei due sensi. Quindi riuscire a capire qual è la serie di operazioni,
di passaggi, che mi permette di tornare alle condizioni iniziali è una cosa fondamentale
in tantissimi campi; nel nostro caso, si tratta di applicare questo principio al campo mate-
matico. Parto sempre dall’esempio più semplice di tutti: “Allora, tu che ti sei spostato
fino all’angolo...”, parto sempre dall’esperienza... (IntRoma1/22), [...] dall’esempio: “Tu
che sei andato fino all’angolo, riesci a ritornare?”. “Certo, mi giro e faccio i passi al con-
trario”. Allora dico: [...]: “Un oggetto che cade lo posso tirare di nuovo su? Se mescolo
due sostanze, posso poi di nuovo separarle?”. E aggiungo: “L’esperienza pratica di tutti i
giorni ci pone un sacco di problematiche, in cui la cosa può essere vista in un senso o nel
senso inverso. Anche nel campo matematico esiste questa cosa; quindi impariamo a co-
noscere quali sono le cose che ci permettono di ritornare sui nostri passi, dopo un proce-
dimento matematico”. [...] Al di là di fare le singole operazioni, che non sono così diffi-
cili, perché, quando chiedo: “qual è l’operazione inversa del più?”, anche un ragazzo di
prima ci arriva in 30 secondi [...], dico: “ad esempio, adesso conosciamo – andiamo con
le nostre formule geometriche – il volume della nostra sfera; quali saranno le operazioni
che ci permettono di ritornare al dato iniziale? Proviamo un attimo a vederle”; si tratta di
fare un iter. Oppure: “Noi abbiamo calcolato l’interesse su un certo capitale, conosciamo
qual è stato l’interesse e conosciamo qual è stato il capitale finale; riusciamo a conoscere
il capitale iniziale che avevamo?”. Chiedo loro sempre di formalizzare, anche sotto forma
di scrittura, i vari passaggi, in un senso, e, a fianco, nel senso inverso (IntRoma1/24).
20 Abbiamo già incontrato, in apertura a questo paragrafo, un brano di M., tratto dal FGMat4.
I brani che seguono sono tratti sia dagli interventi di M. all’interno di un FG (FGMat1) e in occasione
di un successivo approfondimento in forma di intervista (IntRom1).
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Per esempio, partiamo dal caso del capitale di interesse ottenuto alla fine di un anno;
un ragazzo mi dirà: “Ho un capitale iniziale di x lire”; secondo passaggio: “Mi hanno
proposto di impiegarlo all’interesse del 4%”; terzo passaggio: “Mi ha fruttato x”; quarto
passaggio: “Alla fine dell’anno, ho x soldi”. Io dico: “Adesso scrivimi cosa devi fare per
riuscire di nuovo ad arrivare al capitale iniziale; quindi, di fianco ad ogni riga, dimmi
qual è il passo inverso, che mi permette di tornare indietro”. Questo mi consente di
avere, in qualsiasi formula, in qualsiasi conoscenza, la formalizzazione dei passaggi;
si tratta delle fasi risolutive del problema e delle fasi risolutive del problema inverso
(IntRoma1/26) [...]. La matematica d’uso è un insieme di intuizioni [...] e l’approccio al
problema è un aspetto molto personale dell’allievo. Io mi sono stupito [...] una volta in
cui ho fatto l’esperimento con una classe proponendo loro la trigonometria dal punto di
vista formale e dal punto di vista pratico; tengo presente che era una classe terza, quindi
da tre anni avevano me, che ho una mia logica di sviluppo; sono stato molto stupito,
quando, di fronte ad un approccio pratico alla trigonometria, gli allievi mi hanno detto:
“noi preferiamo l’approccio formale, passo dopo passo” (IntRoma1/50). Allora, normal-
mente, quando si parla di trigonometria, si parla della circonferenza trigonometrica e si
vanno a definire le funzioni trigonometriche, le loro proprietà; l’obiettivo finale è l’appli-
cazione delle proprietà trigonometriche e della funzione trigonometrica ai casi pratici;
praticamente, l’obiettivo finale è la soluzione del triangolo rettangolo. Molto spesso, [...]
i colleghi di laboratorio partono dal triangolo rettangolo che loro applicano nei calcoli
pratici, per andare a ritroso e andare a definire le funzioni trigonometriche (Int-
Roma1/52). Ad esempio, io ho [...] un bastone piantato per terra che crea una certa
ombra; questa ombra, in realtà, è funzione dell’angolo e si può definire come seno o
come coseno, a seconda di quello che vogliamo fare. In questo caso, noi definiamo il
seno come rapporto tra il valore del cateto e l’ipotenusa; questa è una definizione; mentre
noi, dal punto di vista trigonometrico, definiamo come seno la funzione che esprime la
proiezione dell’arco che forma ecc. ecc.; quindi si può fare il tutto in un modo molto più
teorico. [...] Se dici loro: “Andiamo a vedere questa proiezione”, in realtà costruiamo la
circonferenza trigonometrica su un triangolo rettangolo; io sono rimasto molto stupito,
quando i ragazzi mi hanno detto: “Noi preferiamo il passaggio dalla definizione della
funzione per vederne l’applicazione alla fine, invece che partire dal problema dell’ombra
e andare al contrario”. L’unica spiegazione che ho potuto darmi è che erano ragazzi che
erano stati con me due anni e mezzo, e quindi, purtroppo – posso dire purtroppo o per
fortuna – erano abituati a formalizzare sempre il problema e quindi a vedere la soluzione
non come un’intuizione, ma come un insieme di conoscenze acquisite che possono essere
applicate a quel problema. [...] La cosa mi ha fatto interrogare: “Sono forse io che li sto
condizionando? Oppure quello che si dice spesso, che, se non hanno il problema pratico
davanti, i ragazzi non riescono ad estrarre il concetto..., non funziona?”. E, in questo mo-
mento, ho ancora un dubbio che ogni tanto mi pongo: “Allora, quello che spesso viene
detto – che si ha una forte incapacità di astrazione da parte dei nostri ragazzi – sarà poi
vero? Oppure è semplicemente una mancanza di abitudine ad usare queste facoltà, queste
proprietà? (IntRoma1/54).
M. (IntRoma1) ha più volte sperimentato il valore dei procedimenti induttivi, a
partire dall’esperienza sensibile, dal caso, dall’oggetto concreto; ci ricorda che tal-
volta gli allievi stessi chiedono di procedere anche in un senso diverso, più dedut-
tivo. Probabilmente, si tratta di modulare entrambi questi percorsi, anzi di guidare a
percorrere, in un senso e nell’altro, strade differenti. Sono necessarie sia le espe-
rienze o gli esempi concreti (in questo caso il bastone piantato per terra, con la sua
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ombra), che possono generare intuizioni e scoperte, sia gli approcci più formali,
che aiutano ad impadronirsi dei concetti necessari a tradurre il fenomeno osservato
in uno specifico linguaggio, ad inserirlo in una teoria, ad offrirgli una spiegazione.
È di questo avviso anche Walter Maraschini: «Si diventa bravi in matematica attra-
verso la difficile pratica di una combinazione di due aspetti: la sollecitazione di
esperienze che aumentino la sensibilità e la predisposizione di rigorosi percorsi
istruttivi» (Maraschini, 2008, p. 68), che aiutino ad acquisire una certa familiarità
anche con i concetti. Tra queste due dimensioni si può anzi creare una circolarità
feconda: le esperienze conducono all’astrazione e la concettualizzazione delle
astrazioni (geometriche o algebriche che siano) consente di ritornare sui fenomeni
concreti e di reinterpretarli.
5.4.2. Il metodo delle approssimazioni successive
È sempre M. (FGMat1/8-10; 126; IntRoma1), nei due brani che seguono, ad
offrirci alcuni esempi di lezione dialogata che, per successive approssimazioni,
segue l’andamento evolutivo della classe e guida verso la messa in parola, la for-
malizzazione di concetti matematici:
Quando noi proponiamo, ad esempio, di trovare un volume, chiedo ai ragazzi: “Come lo
trovereste voi? Tu dimmi, non ti preoccupare se sbagli, dopo di che io faccio in confor-
mità a quello che tu mi dici, e vediamo se funziona o se non funziona”. Ecco che arriva
un: “Mah, io farei così...”. Io faccio il calcolo, in base a quello che il ragazzo mi dice e
osservo: “Ma così ottengo un risultato che è stranissimo”. Allora lui stesso dice: “C’è
qualcosa che non va!”. Interviene un altro: “Ma no, stupido, non ti sei accorto che dovevi
fare così e così...!”. A parte gli epiteti che si danno tra loro, in questa maniera, uno dice:
“Mah, io farei così” e un altro: “No, io farei cosà...”. Ci avviciniamo per successive ap-
prossimazioni, finché arriviamo a dire: “Adesso, questo procedimento sembrerebbe fun-
zionare in questo esempio; proviamo un po’ a cambiare i parametri e a vedere se fun-
ziona anche in altri casi...”. Quindi, per successive approssimazioni, proprio la classe tira
fuori quella che potrebbe essere la regola che funziona. È ovvio che ci sono delle volte in
cui ci si arriva subito, senza sforzo, e magari altre volte in cui devo intervenire io e dire:
“Siete bloccati, vi do un aiuto: perché non considerate anche questo elemento? Perché
non vi concentrate sull’altezza, invece di concentrarvi sempre e solo sulla base?”. [...]
Quindi, è fondamentale considerare il gruppo che si ha davanti e partire sempre, co-
munque, da un esempio pratico, tirato fuori dalla loro realtà professionale; può essere, ad
esempio, mi viene in mente, la parabola: “Se tu calci un pallone e sei a 20 m nel campo,
e supponiamo che il pallone faccia 50 m, che tipo di percorso fa il pallone?”. “Mah, io lo
tiro e va sempre dritto”. “Sì, allora immaginiamo un pallone che cade dal sistema solare;
ipotizziamo che debba cadere; allora, se arriva, qual è la traiettoria? Come potremo tra-
durre praticamente questa traiettoria in una figura geometrica?”. Si tratta di partire
sempre da esempi che suscitino il loro interesse e la loro curiosità [...] (FGMat1/8), di ri-
uscire a far lavorare il gruppo classe [...] valorizzando l’intervento di ogni allievo, che
può essere modesto, marginale, ma ha sempre il suo valore (FGMat1/10)21. [...] Per
esempio, sarebbe molto semplice dare ai ragazzi la definizione di assi cartesiani: la si dà,
21 Posso unire questo brano con quello che segue perché, pur appartenendo a due momenti
diversi dello stesso FG, sono dello stesso parlante e riguardano lo stesso tema.
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loro la scrivono, cercano di ricordarsela a memoria, molto spesso se la dimenticano. Se
invece si dice: “Ditemi, secondo voi, che cos’è una coppia di assi cartesiani [...] e io,
come al solito, disegnerò alla lavagna quello che voi mi dite”, uno allora comincia: “Due
rette che si incrociano”, e io le disegno formando un angolo di 140°; loro dicono: “No,
così non funziona!”. Allora alzerà la mano qualcun altro e dirà: “Sono perpendicolari”.
“Allora teniamo ben presente i vari passaggi: avete detto ‘due rette che s’incrociano’, mi
avete aggiunto che però devono formare degli angoli di 90°. Adesso vediamo un punto.
Mi date le coordinate?”. “7 e 8”. E io lo disegno lì, poi dico: “Per me invece il punto 7 e
8 è questo qua!”. “Ah già, perché non ci siamo messi d’accordo su come misurare”. “Ve-
dete che allora ci vuole un’unità di misura, che dobbiamo condividere”. Questo è quello
che impropriamente potrei chiamare “il metodo delle approssimazioni successive”, fino
ad arrivare ad un concetto, che è formalizzato: “Adesso, riuniamo tutte queste idee e ab-
biamo quello che ci serve, nel linguaggio matematico”. Stessa cosa, ad esempio, per il
cerchio: “Che cos’è una circonferenza?”. “L’insieme di punti che...”. E io: “Ma, il punto
è fermo o si muove? Se si muove, che figura salta fuori?”. Quindi normalmente cerco di
non dare la definizione all’inizio, ma di tirarla fuori dai suggerimenti che vengono da
loro. Ho notato che i ragazzi tendono a memorizzare questo molto più di quanto memo-
rizzino la definizione che viene loro data e che loro vedono come un elemento estraneo,
praticamente calato dall’alto; mentre qui loro dicono: “Ah sì, lo aveva detto lui che si do-
veva fare così, l’aveva detto l’altro!”, e rimane loro più impresso nella mente. Quindi
questo metodo aiuta a tirare fuori da loro quello che può essere l’elemento di formalizza-
zione di quello che hanno visto mettere in pratica (FGMat1/126);
[...] partiamo sempre da un problema pratico; dopo di che diamo la soluzione [...] ad una
serie di problemi simili; [...] il passo successivo è sempre lo stesso: “Allora, adesso siete
in grado di...”, oppure, meglio: “Bene, ora siamo in grado di...”, “Immaginiamo di dover
trovare qualche cosa che funzioni sempre, al di là di questi esempi che abbiamo visto.
Provate a dirmi che proposte avete...”, e ci sono tutti i ragazzi che provano; importante,
in questo caso, è coinvolgerli [...]. Qual è la problematica che può sorgere? Ogni tanto
devo “zittire”, tra virgolette, qualcuno, perché magari è un ragazzo che ha già fatto due
anni di scuola superiore e quindi queste cose..., la regola, lui le sa, perché se le ricorda, e
sarebbe quindi immediatamente pronto a dire la formula: “È questa la formula risolutiva
ecc.”; in questa maniera, è vero che lui mi risolve il problema, ma tutti gli altri, dopo due
o tre volte, non sono più coinvolti e dicono: “Tanto, risponde lui”. Per cui [...], proprio in
questo caso [...], tutti partecipano, escluso lui, che so già che lo sa; poi, al limite, lo ri-
prendo, alla fine, quando vedo che stiamo arrivando alla soluzione e dico: “Allora,
adesso dimmi tu qual è secondo te l’errore che ha fatto il tuo compagno, che cos’è che ha
sbagliato? L’errore che ha fatto, secondo te, da dove arriva?”; che ne so, [...] il primo
esempio che mi viene in mente: “Ha detto che la formula del volume, alla fine, mi dava
dei cm2”. “Dimmi qual è l’errore?” e lui mi fa vedere che non può esserci una misura di
volume espressa semplicemente con un quadrato (IntRoma1/14). Lo valorizzo come
“esperto” [...], altrimenti sarebbe veramente un escluderlo e dire: “Tu no, tu non parte-
cipi!” (IntRoma1/16). Allora, in questo caso, bisogna dire: “Allora, partiamo...”. Qual è
la figura che di sicuro loro conoscono? Il cubo. Se chiedo la formula per calcolare il vo-
lume del cubo, praticamente il 95% degli allievi è in grado di darmela: “Adesso andiamo
a vedere cosa la nostra figura ha di diverso dal cubo; vediamo se ha qualcosa di diverso”;
andiamo a focalizzare l’attenzione su cosa ha di diverso e vediamo come si potrebbe tra-
sformare la formula del cubo nella formula di una sfera. Quindi, anche in questo caso, ci
sarà quello che dice: “Allora, per la forma del volume del cubo, sono partito dall’area
della base, poi l’ho moltiplicata per l’altezza, ma era la stessa cosa e quindi è saltato
fuori che era l3. E se facessimo una cosa del genere per la sfera? Partiamo dall’area del
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cerchio, poi mettiamo una sfera in verticale e la moltiplichiamo per il suo diametro”, ma
dico: “se sei proprio sicuro...”, allora si vede un attimino come si può arrivare. In questo
caso, si tratta di partire da qualche cosa che i ragazzi già conoscono e di riuscire ad arri-
varci per analogie di concetti (IntRoma1/20).
Guidando sapientemente la discussione e il flusso degli interventi e delle do-
mande, M. permette ai propri allievi di formalizzare ciò che essi hanno visto in pra-
tica; in questo modo, offre loro la possibilità di scoprire e inventare la matematica,
non solo di ripeterne stancamente una parodia. In entrambi gli esempi, il discorso
non prende avvio dalla definizione; a questa si arriva, facendo in modo che essa sia
generata dal problema e così assuma senso. Altrimenti, la formula avrebbe la stessa
consistenza di una filastrocca vuota, astrusa e insensata. La formalizzazione si ot-
tiene per passaggi successivi, in cui si fanno prove e si commettono errori; si cerca
ciò che può “funzionare”; si va a guardare se ciò che funziona in un caso funziona
anche in altri casi simili; poi si cerca ciò che può funzionare sempre, al di là degli
esempi, cioè si guida alla costruzione di un modello, di una teoria. M. ha cura di
scegliere problemi agganciati, in qualche modo, all’esperienza dei suoi allievi, e
dunque interessanti per loro, ma anche significativi dal punto di vista matematico e
generativi di altri problemi (“se il punto si muove, che figura salta fuori?”). Inoltre,
vediamo come tutta l’azione didattica sia attentissima sul piano comunicativo e re-
lazionale e come questa attenzione non sia sganciata dal processo cognitivo in atto:
pensiamo alla considerazione della specificità del gruppo; all’attenzione a stimo-
lare tutti ad intervenire, valorizzando l’intervento di ciascuno, per quanto marginale
possa essere; all’azione volta a frenare dall’intervenire chi ne sa più degli altri, ma
anche a recuperarlo poi come “esperto” per tutto il gruppo; all’uso sapiente del
supporto, da offrire al momento opportuno (“siete bloccati, vi do un aiuto...”), per
suggerire la strada che gli allievi stessi sono chiamati a percorrere. Sì, il metodo per
approssimazioni progressive sembra proprio consentire la costruzione con gli
allievi di un pensiero matematico.
5.4.3. Tradurre l’esperienza pratica in “linguaggio matematico”
Come abbiamo ricordato più volte, collegarsi alle materie pratiche non signi-
fica limitare la matematica a ciò che si può applicare in pratica, ma utilizzare i con-
testi pratici per far nascere autentici problemi matematici e orientare alla ricerca di
soluzioni di cui cogliere non solo l’utilità ma anche l’eleganza e la bellezza:
[...] praticamente si tratta di dare (agli allievi) dei problemi, qualsiasi essi siano, il più vi-
cino possibile alla loro realtà, ai loro interessi, e chiedere loro delle proposte di soluzione;
dopo di che – questo è un passaggio estremamente difficile – chiedo: “Ora, proviamo a
tradurre in linguaggio matematico le parole che voi avete detto in italiano corrente, perché
la matematica ha un proprio linguaggio, che ci permette molto spesso di tradurre quelle
parole, quelle frasi che noi abbiamo detto, in una serie di segni convenzionali, che ci
fanno arrivare allo stesso risultato”; [...] facciamo l’esempio del triplo della somma ini-
ziale ecc. ecc.: [...] che cosa vuol dire il triplo di una somma? Intanto dico: “La somma la
conosciamo o no? Come indichiamo questa somma?”; ci sarà chi mi dirà x, chi mi dirà y;
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allora, il passaggio successivo è questo: “Mettiamoci d’accordo, quando non conosciamo
qualcosa, come la indicheremo d’ora in poi?”; allora salta fuori di nuovo x: “Non la cono-
sciamo; qual è la parola italiana che indica una cosa sconosciuta? In matematica, la parola
‘sconosciuto’ come viene tradotta?”, fino a che qualcuno arriva a dirmi: “incognita”; al-
lora dico: “Abbiamo deciso che, d’ora in poi, le cose che non conosciamo, le nostre inco-
gnite, le chiamiamo x. Adesso abbiamo detto il triplo della nostra somma; come lo pos-
siamo dire in linguaggio matematico?”. Ci sarà chi mi dirà x+x+x; fino a quando qual-
cuno arriverà a dire “3 per x”, a cui io ho aggiunto la quantità ecc., che magari conosco,
10; quindi come lo formalizziamo? Ecco che abbiamo ‘3x+...’; la parola aggiungo l’ab-
biamo tradotta nel linguaggio matematico con il +...”. Quindi si costruisce un poco per
volta [...] la nostra traduzione delle parole in una serie di simboli e segni; dopo di che:
“Bene, che cosa ne vogliamo fare di questa cosa? Vogliamo trovare la x, vogliamo sapere
quanto abbiamo in totale?”; quindi si va a vedere che cosa si voleva, si va a vedere, come
al solito, quella procedura con i vari passi che ci permettono di arrivare alla soluzione (Int-
Roma1/30). [...] Tutto questo permette intanto alla persona che lo dice di chiarirsi mental-
mente; seconda cosa, molto spesso non è un’unica metodologia, non è un’unica serie di
passaggi che ci permette di arrivare alla soluzione, per cui salta fuori il compagno che in-
vece dice: “No, ma io invece ho fatto così!”. A volte lo lascio dire tranquillamente e dico:
“Sei arrivato allo stesso risultato? Non sei arrivato allo stesso risultato?... Allora, ragazzi,
abbiamo di fronte due risultati diversi, vediamo un attimino di riuscire a capire quale dei
due è quello corretto. Tu spieghi che cosa hai fatto, e anche tu spieghi che cosa hai fatto.
Adesso voi intervenite e ditemi: secondo voi, chi dei due ha sbagliato e dove ha sba-
gliato?”. [...] Oppure faccio vedere come molto spesso ci siano metodologie e sequenze
alternative e quindi dico: “Ad esempio, avete visto qui che prima abbiamo moltiplicato e
poi abbiamo diviso; lui invece prima ha diviso e poi ha moltiplicato; siamo arrivati allo
stesso risultato, quindi cosa possiamo dire?”. Qual è il mio obiettivo, in questo caso? Che
gli allievi colgano il fatto che queste operazioni non hanno un ordine definito: [...]
“Mentre ad esempio lui prima ha sommato e poi ha moltiplicato, lui ha fatto il contrario;
avete visto che i risultati sono diversi? Questa volta si tratta di due operazioni che non
possono scambiarsi di posto tra loro” (IntRoma1/36). [...] Mi viene in mente l’esempio di
un pezzo meccanico di cui occorreva trovare il volume. A me inizialmente, era sembrato
ovvio e semplice, siccome era una parte composta da più figure geometriche che messe
insieme facevano quel pezzo complessivo, [...] trovare il volume delle singole parti e som-
marle tra loro, mentre un ragazzo mi ha detto: “No, io invece ho deciso di considerarlo un
cilindro uniforme, in cui ho scavato il pezzo centrale, quindi mi sono andato a calcolare la
parte che asportavo e, dal volume totale, mi sono trovato il volume, considerando il vo-
lume iniziale meno la parte asportata”. Questo è il primo esempio che mi viene in mente
[...], in cui c’erano dei ragionamenti molto più sottili, che coinvolgevano proprio delle
capacità superiori e io dicevo: “Ma guarda quello!”. [...] Questo mi è successo tempo fa, si
trattava di un ragazzo fortemente dotato; in quel caso, mi ha detto: “Lei ha proposto, nel
problema – era un problema di geometria analitica, e nemmeno tanto semplice [...] –,
questa soluzione; la condivido – perché, oltretutto, era molto formale –, la condivido, però
per me questa è più veloce” e me l’ha proposta; dopo di che l’ho analizzata e gli ho detto:
“Sì, hai ragione, questa è più veloce della mia”. È ovvio che soluzioni così fini si hanno in
pochi casi, ma a volte i ragazzi, che hanno un approccio molto più pratico e meno teorico
del mio, arrivano più velocemente alla soluzione proprio perché intanto, se è un problema
pratico, lo visualizzano molto meglio di me; poi perché, essendo abituati al punto di vista
pratico, spesso traducono nella pratica quello che c’è da fare, lo traducono in sequenza
logica; mentre io invece, parto dalla sequenza teorica e dai passaggi della teoria che mi
permettono di arrivare al risultato (IntRoma1/40).
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M. (IntRoma1), pur partendo da problemi pratici e reali, guida un percorso che
consente di tradurre il problema concreto in un linguaggio matematico, che ha carat-
teristiche sue peculiari, che lo rendono particolarmente preciso e conciso. Proporre ai
ragazzi del CFP problemi matematici subito nel linguaggio specifico della matemati-
ca, senza quest’opera di traduzione, significherebbe metterli a confronto con formule
ermetiche e spesso per loro incomprensibili. Attraverso la traduzione (secondo la qua-
le l’elemento sconosciuto, l’incognita, si può rendere con la lettera x, il termine “ag-
giungo” si può rendere con il segno + ecc.), i ragazzi riescono a vincere la diffidenza
nei confronti della “lingua matematica” ed anzi arrivano ad apprezzarne la capacità di
restituire in modo denso e sintetico una notevole quantità di informazioni. Acquisire
una certa familiarità con il linguaggio matematico consente poi di avviare un processo
– è ciò che cogliamo dall’interazione che il nostro formatore riporta (IntRoma1/36) –
in cui la matematica si fa concretamente (e il docente non si limita a mostrarla), inter-
rogandosi, confrontando le ipotesi di soluzione, esplicitando i procedimenti adottati,
ragionando sugli errori ecc. In alcuni casi, può poi capitare che il docente stesso
rimanga stupito dalla soluzione escogitata da un allievo, che magari utilizza un proce-
dimento di pensiero più pratico e meno formale e arriva a soluzioni inaspettate. Alcuni
studi di etnografia cognitiva (Lave, 1988), hanno infatti dimostrato che il conoscere
che avviene nelle situazioni quotidiane è molto diverso da quello astratto e deconte-
stualizzato che per lo più si realizza nei contesti scolastici e formativi. Bruni e Ghe-
rardi (2007, p.33) riprendono proprio dagli studi di Lave (Lave et al., 1984) il famoso
“aneddoto del cottage cheese”, che può essere utile riportare qui di seguito perché
utile ad illustrare anche l’esperienza del nostro formatore: «Siamo nell’ambiente dei
Weight Watcher e per ottemperare alle sue richieste dietetiche una persona deve ser-
virsi dei 3/4 di una mezza porzione di cottage cheese. Dopo una prima occhiata per-
plessa al formaggio e alle istruzioni, la persona non ha dubbi: rovescia il contenuto
della vaschetta in un piatto, con un coltello ne sistema la forma a cerchio ben compat-
to, traccia una croce sulla superficie, elimina una prima metà, risistema il cerchio e
poi ne toglie un quarto. Misurare i 3/8 di una vaschetta sarebbe stato non solo più
complicato, ma probabilmente non sarebbe neppure venuto in mente a quella perso-
na, anche perché le frazioni appartengono alle pratiche scolastiche, mentre nella vita
di tutti i giorni il ragionamento pratico per misurare, confrontare, soppesare e via
dicendo utilizza altre risorse che trova nell’ambiente» (Bruni, Gherardi 2007, p. 33).
M. e molti altri formatori intervistati operano in un modo analogo, proponendo ai
propri allievi situazioni ed esperienze che consentano loro di utilizzare processi pra-
tici di pensiero aritmetico o matematico. Ma non si fermano qui. Come ci dice M.
(IntRoma1), li aiutano innanzitutto a verbalizzare i processi di pensiero, a descriverli,
a “dire in italiano” i ragionamenti svolti e poi a tradurre il tutto “in linguaggio mate-
matico”, cioè a passare dalla manipolazione di oggetti e materiali concreti alla “mani-
polazione” di simboli e concetti astratti, da una matematica tutta legata ai sensi ad una
matematica legata anche alla ragione, da una matematica che ha a che fare con le
cose, ad una matematica che si occupa prevalentemente delle relazioni tra le cose.
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22 Una situazione analoga è quella raccontata da Walter Maraschini alle prese con una sua
alunna: «Risolvendo alla lavagna un esercizio assegnato come compito per casa, scrissi finalmente la
soluzione di un’equazione di incognita x e parametro w: “x = 2w”. E leggendo dissi: “Quindi ics
uguale a due vu doppio”. E lei commentò: “E quindi è quattro vu!”. Che dire di tale risposta, a suo
modo geniale nel mischiare i piani del discorso?» (Maraschini, 2008, p. 23).
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Diversi sono i docenti che utilizzano un procedimento di “traduzione” simile a
quello utilizzato da M. Vediamo qui di seguito un altro esempio:
la geometria analitica è la parte del piano cartesiano in cui si tracciano punti, si tracciano
rette, parabole, si fa un ragionamento su un caso concreto, un po’ semplificato, ovvia-
mente (IntPd1/72); analizziamo e trasformiamo in linguaggio matematico – ad esempio,
“y = x+5” – un qualsiasi fenomeno, che sia il salario, che sia lo stipendio, che sia il costo
di una qualsiasi cosa (IntPd1/74); ho fatto con loro un po’ di ragionamenti per cui loro
trasformano in formula matematica quello che è formulato in italiano comune [...];
l’esempio tipico che faccio io è: il salario è y, le ore lavorate sono le x, il salario di Marco
è di 8 euro all’ora, quindi loro sanno che devono scrivere y = 8 [...] (IntPd1/76); [...] la
parte di algebra è più difficile (IntPd1/78), più astratta della geometria analitica [...]
(IntPd1/80).
La lingua matematica ha delle caratteristiche sintattiche e semantiche ben pre-
cise, che vanno apprese, quasi come se si trattasse di una lingua straniera. Si tratta
allora, anche in riferimento alla matematica, di insegnare a “leggere e scrivere”,
considerando che la lingua matematica «...non è il “matematichese” di certi pro-
blemi ben noti a chi per anni ha sfogliato testi scolastici, ma un linguaggio conciso
e generalizzante con una sua non indifferente componente estetica, che può cattu-
rare come un disegno di Klee nella sua complessa semplicità» (Fabbrichesi Cecca-
relli 1994, p. 189). Vediamo alcuni esempi a questo riguardo:
faccio un esempio sui monomi: se io dico ai ragazzi: “Sommiamo 4 m2 e 6 m. Si può o
non si può?”, già cominciano a fare le loro ipotesi. “Benissimo, allora adesso proviamo a
scrivere questa somma alla lavagna: voi come indicate i metri quadrati? Allora 4m2+6m”.
Siamo arrivati alla conclusione che non potevamo metterli insieme. A questo punto ho
detto: “Benissimo, noi abbiamo appena eseguito una somma di monomi non simili”.
Ecco che, anche in questo caso, siamo partiti da un esempio pratico e abbiamo visto
che la matematica [...] ha un suo linguaggio. Dobbiamo cercare di capire, come a volte
cerchiamo di capire le lingue straniere, [...] qual sia il linguaggio della matematica.
Useremo delle parole completamente astruse, come ci sembrano le parole dell’inglese;
ci troveremo poi di fronte a delle parole che, nella realtà, corrispondono a cose che noi
abbiamo visto tutti i giorni [...] (FGMat1/17);
qualche volta, faccio loro dire, lì dal posto, i processi mentali che seguono e “li prendo in
giro” per quello che mi dicono; ad esempio, se devono dirmi x2, mi dicono “x due”; allora
io scrivo “x” e a fianco metto un “2”; allora il ragazzo si arrabbia e mi dice: “Non lì, ma
più in alto!”; allora io scrivo il 2 molto più in alto, e lui: “Ma no lì, prof”; allora cercano
di trovare la parola giusta che mi permetta di capire. Alla fine, un ragazzo, in fondo, dice
“x alla seconda!” e allora io scrivo il 2 al posto giusto22. Oppure, una situazione di questo
genere: io faccio quello che dicono, apro la parentesi a metà della lavagna senza senso, e
allora loro dicono: “No prof!”; questo per far capire loro che tutto quello che dicono ha
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un senso e devono fare in modo che io capisca quello che hanno in testa, sia in matema-
tica, sia in fisica – altra materia che si apre a tutta una serie di parole che loro non sanno
usare –. In questo modo, cerco di far sviluppare un certo interesse per le parole che loro
usano, perché spesso loro puntano solo al risultato: “Prof, io so il risultato, posso dir-
glielo?” e io rispondo: “A me il risultato interessa poco, mi interessa il processo che fai,
il processo non vale solo per questo esercizio, il processo può essere valido per tutti gli
esercizi simili a questo” (FGMat5/21).
È ancora M. (FGMat1/17-19), di Fossano, a fornirci un esempio di cosa signi-
fica apprendere la lingua matematica. M. (FGMat5/21), di Verona, riporta un fram-
mento di conversazione che evidenzia bene l’esigenza di insegnare ad esprimersi
correttamente in quella lingua. Non è solo una questione di vocaboli ma una com-
petenza più complessa, che implica processi di comprensione.
L’esigenza di rispettare le regole sintattiche di una lingua specifica si pone
anche nell’insegnamento delle scienze. Nell’esempio che riportiamo sotto, vediamo
la pratica di un docente per far cogliere la differenza tra linguaggio comune e lin-
guaggio scientifico:
classe prima meccanici, fisica; avevo spiegato il concetto di “piano inclinato” e dovevo
far passare il concetto di “pendenza” del piano inclinato. Dovevo far capire la differenza
tra i modi di dire comuni e il concetto scientifico di pendenza; ho fatto fare una ricerca
sul territorio, sul significato di “pendenza”, dando loro delle domande da fare a delle per-
sone attraverso un’intervista: “Che cos’è la pendenza? Quant’è inclinata una parete che
ha una pendenza del 100%? Che pendenza ha una parete verticale?...”. Nella lezione suc-
cessiva, ho raccolto i risultati delle interviste, compresa quella alla direttrice, natural-
mente; poi ho dato la definizione di “pendenza”, abbiamo ricavato le soluzioni alle do-
mande e abbiamo fatto una discussione in classe (FGMat4/11). Le interviste erano fatte
in ambiente extrascolastico; il risultato delle interviste veniva ripreso nell’ora successiva;
praticamente, in un oretta si fa tutto. L’importante è mettere in risalto la differenza tra il
linguaggio comune e il linguaggio scientifico; quello era il mio scopo in quel caso: arri-
vare ad un linguaggio scientifico, ben preciso (FGMat4/13). [...] Prima, alla fine [...]
della trattazione sul piano inclinato, ho dato la consegna sulla pendenza, da fare a casa;
due o tre giorni dopo, quando c’era di nuovo l’ora di fisica, ho ripreso la consegna, mi
sono fatto dare i risultati delle interviste, li abbiamo tabulati alla lavagna e li abbiamo
discussi. Lì è nata tutta la discussione che è durata circa un’ora (FGMat4/17).
L. (FGMat4/11-17), che insegna nel CFP di Bardolino (VR), racconta una sin-
golare esperienza didattica, che ha mobilitato gli allievi a condurre una sorta di in-
dagine, anche all’esterno del CFP, sulle concezioni e misconcezioni di “pendenza”.
Questo diventa il punto di partenza per problematizzare le opinioni comuni e per
giungere ad una nozione scientifica del fenomeno.
6. FAR GUADAGNARE SGUARDI DIVERSI SULLA MATEMATICA E LE SCIENZE
Come abbiamo già ricordato sopra, non è facile, per i nostri formatori, far gua-
dagnare, rispetto alla matematica, sguardi differenti da quelli consolidati nelle pre-
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cedenti esperienze scolastiche. Abbiamo anche visto che un notevole impegno
viene dedicato da parte loro a far comprendere che la matematica è utile per le cose
concrete della vita e del lavoro. Alcuni formatori cercano anche di farne cogliere i
collegamenti con altri ambiti del sapere e così di farla meglio apprezzare.
6.1. Introdurre alla storia della matematica e del sapere scientifico
Le convenzioni simboliche per rappresentare operazioni, relazioni e oggetti
matematici non sono quell’«...aggregato di segni statico, eterno e immutabile quale
appare oggi a chi lo studia, come se fosse stato creato una volta per tutte e tutto
insieme» (Maraschini, 2008, p. 17). Simboli, tecniche e procedure matematiche
si sono sviluppate nel corso dei millenni, in territori e culture diverse: civiltà meso-
potamiche, dell’antico Egitto, della Cina, dell’India, della Grecia, dei paesi arabi,
dell’Europa (cfr. ibid., pp. 17-19), ma anche civiltà precolombiane, come Maya e
Aztechi. È per questo che alcuni formatori che hanno partecipato alla ricerca ten-
tano di collocare il loro insegnamento anche in una prospettiva storica. In questo
sono facilitati dal fatto che le loro classi sono popolate di cittadini stranieri:
la maggior parte dei ragazzi nostri non sono italiani. L’80% sono stranieri. Stranieri sia
come linguaggio [...] sia come mentalità, come modo di fare (FGMat2/118).
Questo fatto rappresenta una risorsa, perché consente di evidenziare i processi
culturali e le contaminazioni reciproche che hanno consentito lo sviluppo della ma-
tematica e delle scienze fino ad oggi23.
6.1.1. Avvicinare i sistemi di misurazione di altre civiltà e la storia della matematica
Diversi formatori ci raccontano che trovano utile, nel loro lavoro, riferirsi
anche alla storia della disciplina:
trovano interessante il fatto di sapere i numeri romani, perché il 5 è una V e il 10 una X;
sono delle piccole curiosità [...], che però poi vedo che loro seguono con un interesse
diverso (IntMi3/27);
ogni tanto, faccio anche qualche cenno storico alla matematica: [...] l’idea dei numeri, da
dove vengono (IntVr8/22); ad esempio, abbiamo fatto i numeri naturali e ho detto loro:
“Siamo abituati ad usare 0, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9; poi si ripetono; è un sistema decimale,
ma, una volta o in altri paesi, non era così; i Romani avevano un sistema additivo
(IntVr8/24); lo zero l’hanno inventato gli arabi, o meglio i persiani e poi gli arabi [...].
Sono interessati [...], sono abituati ad avere a che fare con questi numeri, ma capire da
dove vengano è un’altra cosa [...] (IntVr8/26);
mi viene un esempio, avevo fatto in prima il “sistema di numerazione”. Allora avevamo
ideato, insieme ad altri colleghi, un’unità di apprendimento, facendo il paragone rispetto
a quali erano i sistemi di numerazione delle antiche civiltà. Qui si sono divertiti
23 Sulla storia della matematica, cfr. Beccastrini, Nannicini, 2008; sulla storia delle scienze, cfr.
AA.VV., 1993, citato in bibliografia.
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(IntVr1/10). Avevamo fatto questa unità, insieme ad un’altra collega [...], sul sistema di
numerazione dei Maya, ad esempio, che è tutto un altro tipo di scrittura, perché loro
capissero come funziona il nostro sistema di numerazione decimale. Uno dice: “Beh, fin
da quando sei piccolo, impari a contare”, “Perché il sistema ‘decimale’?” [...], “Perché
usi le mani!”, “Come mai le mani?”. “Che cosa usavano invece i Maya?”. Altri simboli,
altra scrittura [...]. Ho perso tanto tempo, perché, per fare paragoni e analogie su sistemi
diversi, devi lasciare loro ragionare su qual è il modello che sta alla base. Alla fine,
capendo il modello, si sono anche divertiti. Allora [...] il paragone con il contesto storico,
se qualcuno era interessato, lo andava a cercare: chi sono questi Maya? Quanto tempo
fa? E così via [...]; qualcuno portava l’esempio del sistema cinese, per arrivare poi al
nostro sistema. Non è stato male come introduzione (IntVr1/12) [...]. Col sistema di
numerazione Maya, siamo addirittura partiti con i codici cifrati; ci siamo inventati un
esercizio: senza spiegare niente, avevamo dato questo esercizio; a scoprirlo ci mettevano
pochissimo, perché poi il sistema lo avevano capito, e poi da lì ci agganciavamo: “Vedete
che allora si possono scegliere i sistemi anche per i numeri!” (IntVr1/18); facendo l’ana-
logia con i sistemi alfabetici, ci agganciamo ai sistemi numerici: “Quindi, con i numeri
funziona allo stesso modo, ci sono le regole per dare un significato...” (IntVr1/20).
Avvicinare la storia dei numeri nelle varie civiltà o collocare figure di matema-
tici, come quelle di Pitagora, Euclide o Cartesio, nel loro contesto storico non è
solo funzionale a stimolare curiosità; consente di comprendere che la matematica si
evolve nel tempo, che spesso i problemi da cui parte si ispirano al mondo reale e
hanno natura concreta, che ci sono esseri umani che l’hanno costruita e altri che
continuano a costruirla. Inoltre, consente di dare densità narrativa all’insegnamento
della matematica e di stimolare interesse avvicinando storie e personaggi curiosi e
spesso geniali.
6.1.2. Far conoscere la storia del pensiero matematico e scientifico
Anche nell’ambito delle scienze chimiche e fisiche diventa fecondo e stimo-
lante il ricorso alla prospettiva storica:
mano a mano che faccio un po’ di storia di qualche esperimento, di qualche teoria scien-
tifica, [...] faccio sempre riferimento al fatto che le affermazioni degli scienziati nascono
da un esperimento; quindi, per esempio, faccio l’esempio della penicillina, come esperi-
mento, cioè di come è stato condotto quell’esperimento e di come si è arrivati a scoprire
la penicillina. Oppure anche la legge di Lavoisier, sulla considerazione della massa: ri-
porto sempre l’esperimento condotto dallo scienziato e ritorno sempre al metodo scienti-
fico, che loro hanno visto, hanno studiato nelle varie fasi; [...] faccio sempre riferimento
al metodo scientifico (IntVr6/22).
Si possono anche guidare gli allievi ad immedesimarsi nelle vicende di uno
scienziato del passato, ripercorrendone l’esperienza, come fa ancora E. (IntVr6)
nell’esempio che segue:
con i grafici, quest’anno, per parlare ad esempio della tavola periodica, ho trovato [...]
un’esercitazione dove i ragazzi, forniti di alcune schedine, con indicato il tipo di ele-
mento, la caratteristica, alcuni dati fisici, le ordinavano in base ad un criterio che loro do-
vevano scegliere per formulare, diciamo, una sorta di tavola periodica, avendo come co-
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noscenze solo i dati forniti da quelle schedine; [...] in un’ora di tempo, facevano a gruppi
il lavoro di preparare una loro tavola periodica; dovevano indicare qual era il criterio che
li aveva guidati per ordinare i materiali in un certo modo – [...] altre volte portavo io del
materiale in classe e facevo fare a loro [...] la separazione dei materiali in base all’osser-
vazione, quindi porto della sabbia, del legno, dell’acqua distillata, dell’acqua e dell’olio
[...] (IntVr6/6) –. Poi, la volta successiva fornivo un testo dove c’erano le considerazioni
di alcuni chimici dell’ottocento e loro, sulla base di quel testo, se ritenevano opportuno
accoglierlo, cambiavano il loro criterio di classificazione; dopodiché davo loro di nuovo
le stesse schedine e ne aggiungevo una nuova dicendo: “Bene, questa dove la inserireste
nel vostro schema?”. Dopodiché, [...] siamo partiti dal lavoro di Mendeleev, che è colui
che poi ha elaborato la tavola periodica, e ho detto loro: “Voi avete fatto come questo
chimico russo, siete partiti da zero e dovevate ordinare gli elementi secondo un criterio
che avete cercato di tirar fuori, insomma! Cioè la fatica che avete fatto voi, l’ha fatta
anche lui. E lui è arrivato a [...] fare tutte queste considerazioni e ad elaborarle in una
tavola periodica, non avendo le conoscenze, così come non le avevate voi all’inizio.
Quindi abbiamo fatto questo lavoro di immedesimarci nell’esperienza del chimico russo
(IntVr6/66).
Far rivivere o raccontare storie che riguardino la matematica o le scienze – i
matematici e gli scienziati – consente di cogliere come la scoperta, anche in questi
campi del sapere, sia sempre stata accompagnata da forti emozioni e si sia spesso
configurata come vera e propria avventura umana.
Avvicinare la storia della matematica può indurre anche a fare piacevoli sco-
perte. Riporto qui di seguito in maniera sintetica alcune informazioni, che traggo da
Bruno D’Amore (2009, pp. 140-145), sul rapporto tra Leonardo Da Vinci (1452-
1519) e la matematica (per approfondimenti, cfr. Bagni, D’Amore, 2006), non tanto
perché facciano da eco alle parole dei nostri formatori (nel senso che nessuno di
loro ne fa cenno), ma perché questo riferimento alla storia può aprire prospettive
interessanti per comprendere anche alcuni aspetti dell’approccio alla matematica
prevalente nei CFP. D’Amore sottolinea il fatto che Leonardo non avesse una vera
e propria formazione matematica e, portando puntuali riferimenti ai codici, riferisce
che diversi sono gli errori matematici che si possono trovare nei suoi scritti. Tali
errori riguardano ad esempio le operazioni con frazioni, le proporzioni ed altri stru-
menti elementari dell’aritmetica, ma anche la geometria; inoltre, spesso Leonardo
non dà spiegazioni del perché delle sue procedure e si limita ad offrire semplici de-
scrizioni di come ha operato. Le sue costruzioni matematiche e geometriche rimar-
ranno approssimate anche dopo l’incontro con Luca Pacioli (1446-1517), un frate e
matematico toscano, autore di un’importante opera enciclopedica di matematica, al
quale resterà legato da solida amicizia. Il suo modo di affrontare le questioni mate-
matiche «...è più vicino ai processi empirici, da ingegnere, che non a quelli astratti,
da matematico» (D’Amore, 2009, p. 142), senza che questo tolga qualcosa alla
sua genialità. Ora, anche i ragazzi che frequentano i CFP sono generalmente più
propensi ad utilizzare processi di pensiero legati alle pratiche del vivere quotidiano.
E il fatto che manifestino difficoltà con la matematica “scolastica” – che general-
mente è una matematica più astratta – non autorizza a sminuire l’ingegno e le capa-
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cità che molti di loro potrebbero avere. Per questo, i formatori dei CFP sono molto
attenti a realizzare continui collegamenti tra il sapere matematico che è dentro alle
o è richiesto dalle cose che si fanno e il sapere proprio della disciplina matematica.
In tutto questo, può essere d’aiuto anche la storia!
6.2. Avvicinare la matematica raccontata dalla letteratura o rappresentata
nelle arti figurative
Alcuni formatori cercano di mostrare ai propri allievi che la matematica non è
sganciata da altri tipi di sapere e che molteplici sono, ad esempio, gli agganci tra
matematica e letteratura o tra geometria e arti figurative:
nei compiti delle vacanze estive, per esempio – qualcuno l’ha fatto, non tutti –, metto
anche un libro da leggere; non è un obbligo, naturalmente, ma un modo per stimolare
curiosità, per far loro vedere appunto che la matematica viene utilizzata anche in altri
campi; può essere Il mago dei numeri di Enzensberger o altri testi, anche romanzi molto
semplici, però in cui il tema sia la matematica; [...] prima di tutto rimangono spiazzati
e poi [...] sono andati anche a comprarlo e lo hanno letto; [...] almeno hanno un occhio
diverso (IntMi3/49);
per il capolavoro, hanno utilizzato un artista, un pittore contemporaneo, e [...] ho visto
che tanti di loro hanno studiato meglio in questa parte dell’anno che in tutto il resto del-
l’anno, proprio perché avevano la possibilità di cercare loro le immagini, [...] di dise-
gnare, di fare un lavoro più pratico. [...] Partendo da lì, siamo andati a vedere le defini-
zioni legate ai poligoni, agli angoli ecc., [...] e qualcuno ha fatto anche dei bei lavori; su
questo hanno costruito una dispensa [...]; hanno sicuramente lavorato di più, perché la
geometria è ancora più arida di tutto il resto [...] ed è quella dove loro hanno più pro-
blemi e più difficoltà, perché pensano che poi venga studiata solo attraverso teoremi,
assiomi, memorizzazioni di formule, definizioni, che loro fanno comunque fatica a stu-
diare (IntMi3/89); [...] non ho trovato nessuno che ha detto: “Ma cosa ci fa fare, ma no,
che brutto!”, no, anzi, sono stati tutti collaborativi, hanno lavorato tutti (IntMi3/93);
[...] qualcuno ha lavorato proprio bene, usando la carta millimetrata, utilizzando pro-
prio la strumentazione giusta, il goniometro, piuttosto che il compasso o un semplice
righello; [...] anche il fatto che siano andati a cercarsi dei libri con dei quadri o delle
immagini che richiamassero elementi di geometria [...] mi ha stupito positivamente!
(IntMi3/95).
Si tratta di offrire suggestioni che aiutino ad esplorare prospettive differenti da
quelle che vorrebbero isolare i saperi e “congelare” la matematica nella sua prover-
biale freddezza. C. (IntMi3) cita Il mago dei numeri (Enzensberger, 1997), ma di-
versi sono gli scrittori, narratori o poeti, che si sono lasciati affascinare dal mondo
della matematica (cfr., ad esempio, Bertocchi, 2006; D’Amore, 2009). Seguendo
una modalità analoga, C. (IntMi3) racconta la realizzazione di un percorso sulle
figure geometriche nell’arte figurativa. Si possono poi esplorare altri campi della
cultura (in particolare la musica e il cinema) e i loro rapporti con la matematica24.
24 Sulle commistioni tra matematica e arti figurative, cfr. D’Amore, 2009, pp. 79 sq.; sui legami
tra matematica, letteratura, arte e musica, cfr. Odifreddi, 2005; su matematica e cinema, Emmer, 2009.
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7. VALUTARE PER FAR APPRENDERE
La valutazione rappresenta una parte integrante della formazione, cioè dell’at-
tività dei formatori tesa a favorire l’apprendimento e la crescita degli allievi. Ab-
biamo già visto in precedenza come la valutazione sia spesso una dimensione
intrecciata con i processi di apprendimento (pensiamo ai racconti sulle unità di ap-
prendimento in situazione e sui criteri di valutazione dei capolavori). Nei paragrafi
che seguono, riportiamo alcuni brani in cui i formatori intervistati affrontano speci-
ficamente questo tema, sottolineando la rilevanza della valutazione come leva per
l’apprendimento della matematica e la scoperta dell’errore come evento utile ad
apprendere.
7.1. Proporre test di ingresso per capire la situazione di partenza
La valutazione non è solo un’azione volta ad attribuire voti. Assume una va-
lenza formativa e si estende su tutto l’arco dell’azione formativa. Per questo alcuni
formatori utilizzano strumenti di valutazione per operare una diagnosi iniziale (lo
abbiamo visto anche sopra, in relazione alle azioni volte al recupero delle compe-
tenze di base), che li aiuti ad identificare errori frequenti ed eventuali carenze e li
orienti ad impostare il percorso centrandolo sulle esigenze di apprendimento degli
allievi:
abbiamo fatto un test d’ingresso per valutare il livello di partenza; ho analizzato la situa-
zione, ho visto [...] a che punto erano e da lì sono partito; ho iniziato cercando più che
altro, non tanto di partire da nozioni teoriche particolarmente pesanti; ho detto: “Ragazzi,
facciamo degli esercizi, insomma, cerchiamo di capire [...] le lacune che abbiamo, cer-
chiamo di vedere quali errori facciamo, partendo dagli esercizi” (IntMe5/15) [...]. Ho
detto: “Il test d’ingresso, ragazzi, consideratelo come una cosa che serve a me, per capire
come siamo messi. A me non interessa che voi prima abbiate avuto un’insufficienza [...].
Io parto di nuovo e vorrò vedere come saremo messi alla fine del percorso, dopo che
vi avrò insegnato matematica. Quindi sentitevi, come se steste partendo di nuovo [...]”
(IntMe5/191);
[...] faccio un test d’ingresso per verificare la situazione; normalmente non ci sono suffi-
cienti; chiedo quanti avessero la sufficienza negli anni precedenti e vedo che si alzano
una o due mani su venti persone; mediamente [...], alla fine dell’anno, mi capita di avere
un 70-80% di persone con la sufficienza [...] (IntMi6/46).
A. (IntMi5) è molto attenta a chiarire ai suoi allievi il senso del test di ingresso
che propone loro, che offre innanzitutto informazioni utili all’insegnante per co-
struire il percorso, ma anche agli allievi, per capire che cosa hanno bisogno di im-
parare o migliorare durante il percorso formativo. Inoltre, infonde in loro fiducia,
offrendo la possibilità di una nuova partenza, che li aiuti a superare la profezia di
incapacità che, nelle precedenti esperienze scolastiche, era stata pronunciata su
di loro. Anche R. (IntMi6) somministra un test all’inizio dell’anno formativo e lo
ripropone al termine dell’anno, per verificare i progressi, con risultati incoraggianti.
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7.2. Monitorare attentamente l’andamento del percorso
Solo monitorando continuamente il percorso si riesce a capire se gli allievi
comprendono, come comprendono, che cosa eventualmente si inceppa, quali sono
i principali problemi che incontrano. Per questo la verifica serve innanzitutto al
formatore:
la verifica, più che per l’allievo, è per noi, per vedere nel mese cosa si è fatto e come i
ragazzi hanno traguardato quell’obiettivo con quei contenuti (FGMat1/4);
Uno dei modi per monitorare il percorso è il controllo periodico, sistematico o
a campione, dei quaderni a cui la maggior parte dei formatori dedica una certa
attenzione:
c’è da fare [...] un lavoro di continuo monitoraggio [...]; io ritiro ogni due mesi i qua-
derni... (IntVr1/161);
in matematica, si danno gli esercizi per casa, ma non so quanti di loro li facciano e quanti
li copino da quelli bravi (IntMe3/256); controlliamo i quaderni ogni volta; a volte a cam-
pione, quando magari si è un po’ oberati di lavoro [...]; a volte invece si raccolgono tutti
e venti i quaderni (IntMe3/258); per noi la raccolta periodica dei quaderni è fondamen-
tale (IntMe3/262); li avviso perché mettano in ordine – spesso hanno quaderni ad anelli e
quindi qualche foglio subisce una traslazione anomala –; generalmente loro mettono in
ordine il quaderno e poi me lo consegnano. È fondamentale che loro, sulle loro cose, sui
loro strumenti, siano sempre [...] ordinati (IntMe3/268), perché poi, quando saranno un
un’officina, piuttosto che in uno studio, avranno bisogno immediato dei loro strumenti...
(IntMe3/270) e dovranno sapere che cosa serve e che quello che serve è lì (IntMe3/272);
...viene valutata anche la gestione del quaderno (IntMe3/278); diventa l’occasione per
valutare un insieme di competenze che non necessariamente o non esclusivamente sono
legate alla materia (IntMe3/286). Il quaderno tenuto bene potrebbe anche non avere
niente a che fare con la matematica; ci sono geni della matematica che vivono in un caos
allucinante; a noi non interessa il genio della matematica, il genio avrà un voto positivo
in quel compito; ma tu avrai un voto positivo nella gestione del quaderno, che comunque
contribuirà a costruire il voto finale (IntMe3/288).
E. (IntMe3) riporta la pratica in uso nel suo CFP riguardo al controllo periodico
dei quaderni. È interessante la comunicazione di quando verrà fatto il controllo, in
modo da lasciare agli allievi del tempo per un’ultima sistemazione. Il controllo,
oltre a fornire ai docenti, indicazioni sull’andamento del percorso, stimola anche
allo sviluppo di abilità trasversali, come la capacità di dar conto in modo ordinato
del proprio lavoro.
7.3. Comunicare previamente e chiaramente i criteri di valutazione
Risulta utile che il voto non piova dall’alto, come una sentenza inappellabile, e
che dunque siano espressi previamente le aspettative del docente, i criteri di valuta-
zione e i relativi punteggi:
nei compiti, per ogni domanda, assegno un punteggio in base a certi criteri e poi ricavo
il voto finale; questo dà ai ragazzi una certa chiarezza; [...] i primi anni correggevo e
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segnavo gli errori e poi davo una valutazione generica; per loro diventava difficile capire
dove avevano sbagliato; adesso, il punteggio per domanda li aiuta a capire quali sono le
domande più importanti, perché spesso alcune domande hanno un punteggio maggiore di
altre, quindi loro sanno che devono giocarsi qualcosa in più su quella [...] (IntMe6/384);
che ne so, ti do 3 punti per la risposta a questa domanda; se la fai completamente giusta,
ti do 3 punti, altrimenti può essere uno 0 o un 1 o un 2, a seconda di quello che hai messo
dentro (IntMe6/386). In laboratorio [...], abbiamo delle schede che simulano una com-
messa che i ragazzi potrebbero incontrare fuori, sul lavoro, e ci sono dei criteri di valuta-
zione [...] e loro sanno che sono valutati su quelle cose e sanno se hanno fatto una cosa
bene o una male [...] e – cosa da non sottovalutare – alla fine effettivamente sanno se il
lavoro che hanno fatto può essere in qualche maniera vendibile oppure no (IntMe6/392).
Nel racconto di P. (IntMe6) cogliamo, ad esempio, come il formato della prova
espliciti i criteri e i punteggi attribuiti a ciascuna domanda, permettendo così all’al-
lievo di leggere la propria prova e di cogliere i punti critici. Inoltre, P. riferisce che
la prova strutturata non è l’unica forma di valutazione. In laboratorio si fa ricorso
ad altre forme di valutazione, basate sulla simulazione di una “commessa di la-
voro”, che intendono verificare il livello di competenza raggiunto dagli allievi e
non solo il possesso di determinate conoscenze. Anche qui, i criteri di valutazione
vengono formulati prima della prova e resi noti agli allievi.
7.4. Preparare bene il/al compito
Il “compito in classe” è una delle prove di valutazione a cui molti formatori di
area matematica e scientifico-tecnologica fanno frequentemente ricorso. La struttu-
razione e la realizzazione di questa prova richiedono un’attenta cura: si tratta di
scegliere il momento opportuno, di rendere la prova congruente con il percorso rea-
lizzato, di predisporla in un formato chiaro e comprensibile, di fornire esempi dei
quesiti che verranno inseriti nel compito, di preparare a superare la prova. Questa
cura nella predisposizione già comunica agli allievi che la prova è un momento im-
portante e che i formatori “tengono” all’apprendimento dei loro allievi.
7.4.1. Assegnare esercizi simili a quelli che si troveranno nel compito
Una prima attenzione, ricavabile dal racconto dei nostri formatori, è far sì che
gli allievi, in prossimità della prova, possano esercitarsi su tipologie di esercizi si-
mili a quelli che troveranno nella prova ufficiale, senza che questo esaurisca tutto
lo spettro delle attività:
appurato che il livello della classe su quel determinato argomento è buono, è sufficiente,
propongo loro, generalmente, degli esercizi per casa, che ricalchino le orme di quello che
poi sarà il compito in classe (IntMe3/248), in modo che loro, di fronte al compito, non
si trovino impreparati (IntMe3/250); [...] studiare quell’esercizio, perché nel compito ci
sarà una cosa analoga, è molto più stimolante per loro, perché, in qualche modo, si sen-
tono spronati a guardare che di che cosa si tratta, almeno a prenderlo in considerazione
(IntMe3/260);
ho dato una serie di problemi presi dal libro e ho detto che la verifica sarebbe stata sui
problemi svolti in classe, assieme (IntPd4/66); loro sono andati perciò a rivedersi i pro-
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blemi sul quaderno; non hanno dovuto fare esercizi in più, però ho detto: “Cercate di
rivedervi passo, passo, quello che abbiamo fatto in classe; dopo è questo che vi ritrovate
durante la verifica” (IntPd4/68).
Questa strategia riduce l’ansia che inevitabilmente accompagna un compito in
classe e consente di percepire che la prova non è pensata per mettere in difficoltà
ma si riferisce effettivamente al percorso svolto e consente di raccogliere indica-
zioni sui progressi compiuti.
7.4.2. Programmare i compiti
Programmare i compiti non significa solo stabilire insieme una data, ma predi-
sporre il percorso che avvicina alla prova e fornire indicazioni e strumenti per af-
frontarla con successo:
i compiti li programmiamo insieme. Quindi comunico almeno una settimana prima (che
faremo il compito), lo scrivo sul registro e loro lo sanno; poi, le lezioni, da quel momento
in poi, sono tutte orientate a far capire bene a loro cosa ci sarà nel compito, tanto che la
lezione prima del compito dico: “Guardate ragazzi, il compito l’ho preparato e strutturato
in questo modo, sappiate che c’è un esercizio in cui ci sarà un’espressione da risolvere,
un altro esercizio con una piccola domanda in cui dovete rispondere vero o falso, dan-
domi una motivazione...”. Cerco sempre di dar loro delle direttive, in modo tale che non
si trovino di fronte a un compito del quale non sapevano nulla (IntMe5/67) [...]; ho anche
dato loro delle schede in più tranche e ho detto: “Ragazzi, questi sono molti esercizi – ho
dato loro una sessantina di espressioni – non è che le dovete fare tutte”; ho detto però:
“Guardate, queste sono delle espressioni; sappiate che sono degli esercizi da compito,
sappiate che, per il compito, vado a pescare qua!” (IntMe5/313).
P. (IntMe5), oltre a comunicare in anticipo la data del compito, offre delle indi-
cazioni precise, che aiutano gli allievi a comprendere che tipo di esercizi e quesiti
sarà chiesto loro di affrontare durante la prova e come la prova stessa sarà struttu-
rata. Un altro dispositivo interessante è poi fornire un repertorio di esercizi – nel
caso descritto, delle espressioni – indicando che, proprio da quella raccolta, ver-
ranno scelti gli esercizi che saranno inseriti nella prova. Questo consente una pre-
parazione più mirata e meno carica di ansia. Inoltre, in questo modo, la prova
stessa diventa un’occasione per stimolare l’apprendimento anche di quelle abilità
strumentali che possono essere sviluppate solo attraverso un paziente esercizio.
7.4.3. Il ripasso “richiesto”
Il classico “ripasso”, che precede la prova e che spesso porta a ripercorrere o
a ricostruire il cammino fatto in un determinato periodo e a ritornare sui nuclei fon-
damentali degli argomenti affrontati, diventa una fase importante nella prepara-
zione al compito e un modo per dare indicazioni su come studiare:
in funzione della verifica cerco di fare una lezione di preparazione, che è quella più inte-
ressante perché c’è la tensione del compito, è quella in cui si lavora di più [...], perché si
dicono tante cose e perché c’è tanto interesse da parte loro; la loro domanda è sempre:
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“Nel compito ci mette questo?”; ma intanto mi fanno la domanda sulla materia e su come
prepararsi (IntMe2/150);
assegno delle domande, prima dei compiti, facoltative, e i ragazzi sanno che le domande
non saranno molto diverse da quelle del compito (IntMe6/274); però rispondere a quelle
domande è facoltativo; io non vado a correggerle e loro sanno che, se vogliono, le fanno,
altrimenti, no, e spesso e volentieri da queste domande si innescano una o due lezioni di
recupero; però è un recupero che viene da loro, perché [...] chi, a casa, tenta di rispondere
alle domande spesso ha bisogno di chiarimenti e li chiede alla lezione successiva; tu parti
da quello e poi fai quello che era il mio intento cioè una lezione di recupero o di ripasso
prima del compito, che però non è una lezione di ripasso che proviene da me, ma una
lezione che proviene da una richiesta loro, su argomenti che loro sentono il bisogno di
approfondire (IntMe6/276).
P. (IntMe6), che insegna Tecnologia a Mestre, ha escogitato una modalità inte-
ressante per far sì che il ripasso venga richiesto, se non da tutti almeno da alcuni. Il
nostro formatore è consapevole che, se l’esigenza di fare un ripasso “nasce da loro”
e la richiesta viene esplicitamente espressa, è più probabile che questo momento
non sia subito ma favorevolmente accolto. Analogamente a ciò che fa il suo collega
nel brano che abbiamo visto sopra, anche P. assegna ai suoi allievi un repertorio di
quesiti a cui tentare di rispondere. Non si tratta di una richiesta obbligatoria. Non
tutti lo fanno. P. sa però che è sufficiente che qualcuno tenti perché in aula, nelle
ore successive a tale consegna, qualcuno degli allievi riporti le domande a cui non
è riuscito a rispondere. Questo consente a P. di impostare una lezione dialogata che
porta tutti a riflettere su alcune delle domande che poi gli allievi ritroveranno nel
compito.
7.5. Incoraggiare
Se a scuola o nella formazione professionale non si fa altro che accumulare in-
successi, si forma inevitabilmente una sorta di vortice, un mulinello che si autoali-
menta e trascina verso il basso. Questa è l’esperienza che molti allievi dell’IFP ha
vissuto nelle precedenti esperienze scolastiche. Da qui l’esigenza di impostare la
valutazione all’insegna dell’incoraggiamento – la modalità prevalente a cui i forma-
tori dei CFP indagati ricorrono è infatti quella che potremmo definire una “valuta-
zione incoraggiante” –, il che non significa abbassare il tiro e “accontentarsi di
poco”, ma attrezzare gli allievi a fare esperienze di successo e a riconoscere i propri
progressi. È proprio questa intenzionalità che maggiormente rivela l’orientamento
formativo che la valutazione assume al CFP (cfr. Tacconi, 2007c).
7.5.1. Aiutare a superare l’“io non ci riesco!”
Ancora una volta, i racconti dei formatori ci presentano un contesto popolato
di allievi che hanno interiorizzato una sorta di “io non ci riesco”. La valutazione al-
lora può assumere un ruolo importante nel far superare questa profezia negativa,
che poi è la classica profezia che si autoavvera (Rosenthal, Jacobson, 1991):
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in alcune classi, ho notato ragazzi con ansia e difficoltà a controllare le proprie emo-
zioni, soprattutto in prima (IntVr3/5); ...in prima C, c’è per esempio c’è una ragazza,
Serafina, che, all’inizio dell’anno, piangeva ogni qual volta si trovava a svolgere degli
esercizi in classe; era la paura per la valutazione; se la chiamavo alla lavagna a svol-
gere delle espressioni, si bloccava paralizzata; sua mamma era disperata; questo pro-
blema se l’è portato dalle elementari fino a tutti e tre gli anni delle medie, ed è stato ri-
scontrato anche all’inizio delle superiori, a settembre; adesso è tranquillissima, serena;
nella sua presentazione lei lo aveva specificato: “Io ho un problema di controllo del-
l’ansia, delle emozioni”; è bastato il primo compito in classe (IntVr3/7); [...] il conte-
nuto (della sua autopresentazione) era proprio che era ansiosa, tanto che la mamma, a
settembre, mi aveva chiesto se potevo mandarla da uno psicologo, se poteva fare un
po’ di training autogeno; io ho detto: “No, aspettiamo un attimo, prima di fare un per-
corso di questo genere!”, perché era tutto il percorso scolastico così; lei ha passato le
verifiche con un fazzoletto da una parte e la penna dall’altra, cioè non era possibile una
cosa di questo genere; alla lavagna i primi mesi non l’ho mai chiamata, perché, dopo la
prima volta in cui è scoppiata in pianto, ho detto: “No, questa sarebbe una violenza!”.
In prima A, come in prima C, ho ragazzi [...] profondamente demotivati, con poca vo-
glia di studiare. Sempre in prima C, trovo un ragazzo – ti dico solo alcuni casi [...], per
dire le difficoltà più grosse – con una storia familiare terribile alle spalle; [...] ai primi
colloqui, i genitori cercano di raccontare la storia del ragazzo per permetterci anche di
capire il presente: questo ragazzo aveva rinunciato completamente a studiare, giustifi-
candosi così: “Io non ci riuscirò mai! In matematica non ci riuscirò mai a capire queste
cose! Lei può fare quello che vuole, non ci riuscirò mai!”. “Due” alla prima verifica,
“due” alla seconda; ha preso “nove più” nell’ultima. Durante una lezione, gli dissi:
“Guarda che anch’io alle medie e alle superiori non andavo molto bene in alcune ma-
terie! Mi ricordo il mio tre in tedesco. Che paura tornare a casa con un tre, mi ricordo!
Presi anche un quattro in ragioneria”. Questo, tornato a casa, ha raccontato tutto alla
mamma; la mamma, ai colloqui, mi fa: “Non pensavo che anche lei andasse male in al-
cune materie, alle superiori!”. “Guardi che sono umana anch’io, vero!”. Il ragazzo si è
un po’ sbloccato, ho capito che con lui bisognava ridurre un poco le distanze: “Guarda
che non sono l’insegnante che sa tutto e tu non sei l’alunno che va riempito di informa-
zioni – ho detto –; anch’io ho avuto un passato, anch’io ho avuto le mie difficoltà e le
ho superate. ‘Io non ci riesco!’ non lo voglio sentire più! Voglio sentire: ‘Io tento, ci
posso riuscire, come no!’. Io ci sono!”. Ieri ha preso “nove più”; [...] è un ragazzino
che è cambiato e anche sua mamma ha notato il cambiamento (IntVr3/9) [...]. (Un pro-
blema è proprio) la demotivazione, il fatto dell’“io non ci riesco!”; questa è una frase
(tipica): “Ormai è da anni che io non ci riesco. Non capisco. Lei non può insegnarmi
matematica, nessuno ci è mai riuscito!” (IntVr3/230); arrivano dalle medie che danno
per scontato che vanno male in matematica (IntVr3/254); sono rassegnati: “Perché lei
dovrebbe insegnarmi la matematica? Non c’è riuscita l’insegnante delle medie, figuria-
moci lei che adesso ha tutte queste idee!” (IntVr3/256) [...]. (È importante) ridurre le
distanze, ammettendo che anche noi (di aver avuto le nostre difficoltà); almeno io, sin-
ceramente [...], con ragazzi con eccessivi problemi, ho sempre dichiarato che alle supe-
riori avevo i miei brutti voti (IntVr3/262); “Sì, ragazzi, mio padre, adesso che mi vede
laureata in Economia e commercio, (quasi non ci crede). Vi assicuro che laurearsi in
Economia e commercio a Verona non è stata una cosa semplice. [...] Mio padre addirit-
tura, in prima superiore, voleva mandarmi a fare l’estetista, dicendo: ‘Tanto non ri-
uscirà mai!’...”. “Cos’è scattato in lei?”. “Mi è scattata la voglia di dimostrare ai miei
genitori che potevo farcela anch’io! È scattato un minimo di orgoglio personale; ho ti-
rato fuori quelle risorse, ragazzi, che avete anche voi!”. Allora [...] la mamma di quel
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ragazzo che nei colloqui individuali mi ha detto: “Questa cosa a mio figlio non gliela
aveva detta nessun insegnante!”, perché lui era abituato a vedere l’insegnante sul pie-
distallo, come colui che sta sempre in cattedra, che sa tutto; invece “Ragazzi, sono
umana anch’io, per carità, posso sbagliare anch’io!” (IntVr3/264) [...]. Fuori, questi ra-
gazzi vengono classificati come delle “teste vuote”, degli incapaci; [...] è questo che si
vede all’esterno [...]; in realtà, hanno delle potenzialità; bisogna soltanto che loro se ne
convincano; arrivano qui demotivati, ma tanto demotivati, li etichettano alla fine della
terza media: “Destinati al Centro di Formazione Professionale” (IntVr3/286). In realtà,
potrebbero fare il liceo, potrebbero anche andare tranquillamente al liceo. Bisogna tirar
via tutta quella demotivazione, quel “Non ci riuscirò mai!”. Io dico: “La matematica è
una bestia nera, effettivamente, insomma, è difficile, però bisogna, come dire, mettersi
lì, con tranquillità, e tutti ci riescono”. “Non è difficile; io ho fatto solo due anni di ma-
tematica alle superiori, sono riuscita a passare gli esami di matematica ad Economia e
commercio, vi assicuro che avevo dei professori che, se vedevano che c’era un piccolo
errorino, non ti facevano passare agli esami [...]”. Ecco, per questo ho detto: “Ce la po-
tete fare tutti tranquillamente!”. Alcuni sono arrivati al sette e mezzo, otto, e sono par-
titi da tre, quattro, perché hanno superato il blocco di quel “non ci riesco!” [...]; io sono
convinta che ce la possono fare anche loro (IntVr3/288);
il problema principale dei nostri ragazzi è che sono convinti che la matematica non si
possa imparare; quindi la frase che mi sento dire soprattutto dai ragazzi di prima è:
“Ah, ma io sono sempre andato male in matematica, io non ho la mentalità matema-
tica, io la matematica non la capirò mai!”. Lo scoglio principale, per me, è superare
questo tipo di convinzione e far capire ai ragazzi che magari non arrivano tutti al 100,
però che tutti riescono ad imparare la matematica (IntPd4/10); (cerco di fare questo)
dando loro fiducia e facendo vedere che almeno alcune cose semplici riescono a farle.
Quindi vado sempre per gradi; di solito, quando affronto un argomento, [...] prima
spiego, faccio degli esempi alla lavagna – non solo in un’ora, in più ore – [...], chiamo
qualche ragazzo alla lavagna a fare degli esercizi, e dopo lascio delle ore perché
ognuno faccia gli esercizi in autonomia, magari chiedendo aiuto; naturalmente, io sono
sempre presente con loro [...]; se non lascio un po’ di tempo ad ognuno per riflettere,
loro copiano solo alla lavagna e non imparano [...]; dopo, cerco di avvicinarmi molto a
loro, nel senso che sono un tipo abbastanza severo, però, [...] quando si capisce che la
tensione aumenta, che sono stanchi, cerco di fare anch’io una battuta (IntPd4/12),
perché altrimenti è veramente pesante per loro fare matematica, primo perché non
piace e poi perché non sono abituati a fare tanto esercizio (IntPd4/14); [...] spesso mi
dicono: “Sa che l’ho capito!” [...]. Tante volte si stupiscono di quello che riescono a
fare (IntPd4/18), anche perché più di qualcuno è cresciuto, sia frequentando le elemen-
tari che le medie, con l’idea di non riuscire a fare, perché qualcuno glielo ha detto;
ricevo dei genitori che mi dicono che alcuni insegnanti delle medie dicevano loro: “Ah,
ma suo figlio non imparerà mai la matematica. Gli faccia fare qualcos’altro, perché suo
figlio non è portato per la matematica!”. Secondo me, ad un ragazzo di 10, 12, 15 anni,
non puoi dire: “Non sei portato per la matematica!”, perché già così [...] gli tarpi le ali
(IntPd4/20). [...] Cerco di non fare gli errori che alcuni insegnanti hanno fatto con me.
Io non ero un gran genio di italiano, per esempio, arrivavo al 6 tiratissimo, però ho
sempre subito parecchie umiliazioni dalla mia professoressa di italiano, quindi, sic-
come ne ho sofferto veramente tanto, cerco di non fare gli stessi errori con i ragazzi.
Quindi anche chi non capisce la matematica cerco sempre di non farlo sentire inferiore
agli altri: “Va beh, non ci riesci, non importa, ce la faremo in qualche altro modo!”
[...]; cerco sempre di dare fiducia a loro, insomma, proprio perché hanno fatto soffrire
tanto me (IntPd4/88).
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Sia MR. (IntVr3) che S. (IntPd4) ricavano l’opportunità di incoraggiare, anche
a partire da una riflessione sulla propria personale esperienza di formazione. Si
tratta di aiutare a ridurre l’ansia, agendo con tatto ed aiutando l’allievo ad essere a
suo agio, e di far gradualmente passare dall’atteggiamento dell’“Io non ci riesco!”
a quello dell’“Io tento! Ci posso riuscire, come no!” (IntVr3/9). In questo, decisivo
è l’“Io ci sono!”, pronunciato e fattivamente testimoniato dall’insegnante, e la sua
fiducia nelle potenzialità degli allievi. L’effetto Pigmalione (Rosenthal, Jacobson,
1991) insegna quanto può pesare la profezia negativa, ma anche quanto possa inci-
dere la convinzione che questi ragazzi possano riuscire, alimentata innanzitutto
dagli insegnanti e poi dai ragazzi stessi. Per infondere fiducia in loro stessi, è op-
portuno procedere con gradualità, curando che le prime prove siano relativamente
semplici, e offrire occasioni perché essi stessi possano dimostrare ciò che riescono
a fare, magari stupendosi dei risultati.
7.5.2. Calibrare le prove per far fare esperienze di successo
La verifica viene vista dai nostri formatori come momento in cui far fare espe-
rienza di successo. Per questo è necessario calibrare attentamente le prove e proce-
dere con gradualità:
uno dei trucchetti sarebbe dar loro coraggio: dai un esercizio facile, che sai a priori che
ce la farà; lui riesce a farlo e prende il coraggio di fronte a quella matematica che vede
come una bestia nera (FGMat1/22);
alcuni di loro si sono proprio meravigliati di una sufficienza arrivata [...] (IntMe5/207);
vedevo che per qualcuno anche prendere un 6, un 6+, era proprio una felicità, e da questo
magari si avviava un percorso (IntMe5/209); [...] se non prendono mai la sufficienza in
matematica, dicono: “Tanto, io non ho mai capito niente!”. È capitato che, avendo preso
una sufficienza, perché magari il compito era più semplice o era su un argomento su cui
avevano fatto qualche cosina in più, essendo riusciti ad arrivare ad una sufficienza pulita,
da lì sia partito qualcosa. Magari qualcuno dice: “Va beh, se facendo gli esercizi riesco a
prendere la sufficienza, allora li faccio”. Allora hanno cominciato anche a portare gli
esercizi per casa, che magari prima non mi portavano e il fatto di portarli vuol dire che li
facevano e il fatto di farli ha innescato un processo positivo, per cui sono arrivati anche
ad avere dei risultati soddisfacenti [...] (IntMe5/215);
ho capito che i ragazzi che sono demotivati, [...] perlomeno per lo studio della matema-
tica, vengono anche da insuccessi in questa materia, quindi sono prevenuti. Però, per la
stragrande maggioranza, è molto importante il voto, allora ho provato a giocare questa
carta. Come faccio i compiti in classe qualche volta? Li allungo, diventano delle eserci-
tazioni mirate. In quelle occasioni, limito al minimo la spiegazione alla lavagna – per-
ché l’attenzione non regge più di 5-10 minuti –, però poi do dei compiti con almeno
quattro difficoltà diverse, a seconda della preparazione dei ragazzi [...]; durante il com-
pito, io spiego, perché loro sono stimolati a chiedere, perché devono risolvere il pro-
blema del compito, quindi passo tra i banchi... È dispendioso come metodo, perché devi
essere per tutti contemporaneamente, però così riesco a stimolare in tutti il desiderio di
risolvere il problema per poter superare il compito (FGMat2/151). E poi, sono compiti
di varia difficoltà, quindi anche il voto è proporzionato, perché per un ragazzo vedere
qualcosa che non sa fare è più frustrante, e poi incomincia a non fare, a non impegnarsi,
invece, se il compito è più adeguato alla sue capacità..., questo qui gli dà coraggio
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(FGMat2/155). Partendo dall’osservazione che la lezione frontale non riusciva a tenere
l’attenzione più di 5 minuti, per quanto mi sforzavo di fare disegni pratici, con varie
classi, ho trovato efficace [...] qualche volta partire con il compito, con la verifica.
Naturalmente non mi aspettavo che sapessero fare il compito da soli [...]. È un metodo
dispendioso, perché poi bisogna correggere i compiti e aiutare i ragazzi durante la
spiegazione, però ha il vantaggio di stimolare (FGMat2/157) ...l’attenzione, il desiderio
di imparare quello che serve per risolvere il problema [...]. Passando per i banchi, mi
metto a disposizione di chiunque chieda spiegazioni e aiuto a risolvere quel problema
(FGMat2/159). [...] Quando incominciano a fare gli esercizi i problemi sorgono, no?
Perché fin quando guardano alla lavagna, tutto bene, però quando si comincia a fare gli
esercizi nascono le domande. Perché molte volte anche a far fare delle esercitazioni non
erano (motivati); se invece sono proprio dei compiti, allora si prendono d’impegno.
Compiti graduati, non pretendo che.., perché ormai dopo il primo mese, due mesi, ca-
pisci un po’ chi è bravo, chi è portato, quindi, a seconda la preparazione do un compito
di difficoltà diversa. Qualcuno all’inizio si lamenta, (FGMat2/161) ma compiti di diffi-
coltà differenti, pur sempre sullo stesso argomento, sono utili (FGMat2/165);
J. (FGMat1/22) ritorna sull’esigenza di ricorrere ad una certa gradualità,
dando, all’inizio, prove semplici per far guadagnare fiducia in se stessi. Anche P.
(IntMe5) scopre il valore attivante di una sufficienza, con ragazzi abituati a mietere
insuccessi fino a lasciarsene paralizzare. A. (FGMat2/151-165), basandosi su una
certa focalizzazione dei suoi allievi sul voto, ha provato a trasformare qualche volta
i “compiti in classe” in occasioni di apprendimento, passando tra i banchi a dispen-
sare spiegazioni, indicazioni di lavoro o risposte alle domande che nascevano alle
prese con gli esercizi, e curando la correzione. Inoltre, adatta le prove a differenti
livelli di difficoltà e le assegna in modo differenziato, per consentire a tutti di fare
esperienza di successo.
7.5.3. Strutturare la prova
M. (IntPd1) cura il format della prova, proponendo un particolare livello di
strutturazione, che aiuti nello svolgimento del compito:
preparo la verifica – facciamo finta che siano tre esercizi [...] (IntPd1/82) lo svolgimento
di tre problemi –; a sinistra chiedo di inserire la figura geometrica, a destra, accanto alla
figura, voglio i dati, e, sotto, lo svolgimento. Quest’anno gliel’ho preparato in modo tale
che loro avessero già lo scheletro davanti (IntPd1/84), perché ad esempio uno mi dice:
“Prof, io non so neanche da dove iniziare!”; allora io gli ho detto: “Va beh, allora te lo
inizio io: la figura va qua, i dati vanno qua e lo svolgimento qua; te lo inizio io, tu non
dirmi che non sai fare la figura, perché non è vero, il quadrato lo sai disegnare!”
(IntPd1/88).
Stampare il compito su un foglio, che aiuti ad organizzare con ordine la figura,
i dati e lo svolgimento di un problema, può servire a far procedere gli allievi con
maggiore sicurezza. Fornire questo tipo di struttura, infatti, significa mettere a dis-
posizione degli allievi una sorta di impalcatura, che potrà essere – anzi, che dovrà
essere – rimossa una volta che gli allievi siano cresciuti nella capacità autonoma di
affrontare il compito.
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7.5.4. Articolare le dimensioni da valutare, fornendo diversi ambiti in cui mostrare
il meglio di sé
Per i formatori è essenziale stabilire cosa valutare e comprendere che la pro-
pria valutazione è parte di una valutazione più ampia, alla quale concorrono tutti
i formatori, che dovrebbe offrire a ciascun allievo diverse opportunità per “dare
il meglio di sé”:
per matematica e italiano, abbiamo la possibilità di dare tre valutazioni: partecipazione,
espressione scritta e rendimento (IntMe5/119);
al CFP spesso arrivano da esperienze un po’deludenti (IntMe3/290); spesso e volentieri sono
persone che si sono sentite sottovalutate, fino a credere di essere l’ultimo (IntMe3/292). Co-
me fare per aiutarli nella costruzione dell’autostima con una materia come la matematica?
(IntMe3/294). Li si aiuta [...] dando loro diversi canali di applicazione del meglio di sé (Int-
Me3/298); [...] noi abbiamo tre voci in pagella, oltre al rendimento nelle singole materie [...]
(IntMe3/300): comportamento, maturità e socializzazione; “comportamento” come rispetto
delle norme che regolano la convivenza a scuola; “maturità” come crescita nella presenza
in classe e nella gestione dei propri strumenti, nel portare a termine i compiti assegnati;
la “socialità” richiama la collaborazione [...], come il ragazzo si confronta con gli altri, come
si rapporta (IntMe3/304), ognuno con la peculiarità della propria personalità (IntMe3/306).
I due esempi riportati si riferiscono alla realtà del CFP di Mestre. “Partecipa-
zione”, “espressione” e “rendimento” sono tre dimensioni che vengono valutate
nell’ambito delle discipline di carattere culturale; “comportamento”, “maturità”,
“socializzazione” sono altre tre dimensioni, presentate con i relativi indicatori, che,
accanto al rendimento, contribuiscono alla valutazione del percorso dei singoli al-
lievi. In questo modo, si riduce il rischio di limitare la valutazione al solo rendi-
mento scolastico e si valorizzano come facenti pienamente parte del curricolo
anche abilità personali e sociali, particolarmente importanti per lo sviluppo com-
plessivo della persona dell’allievo.
7.5.5. Assegnare “insufficienze reversibili”
Un’altra strategia che utilizza P. (IntMe5) è di assegnare, diciamo così, “insuf-
ficienze reversibili”, cioè recuperabili:
ho detto ai ragazzi: “Se voi non mi portate gli esercizi, io vi do automaticamente un’in-
sufficienza. Sappiate però che è un’insufficienza reversibile, recuperabile, nel momento
in cui voi mi riportate tutti gli esercizi svolti [...]” (IntMe5/125).
Ciò che interessa al formatore non è la sanzione, ma l’apprendimento. Perciò
non ha senso che l’insufficienza sia irreversibile e inappellabile ed è utile offrire
sempre una seconda chance. L’importante è che agli allievi sia chiaro che cosa fare
per recuperare un’insufficienza.
7.5.6. La valutazione attivante
È incoraggiante una valutazione che attiva, mette in moto, alimenta energie nei
soggetti. Ce ne parla W. (FGMat5/13):
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l’esperienza che vi racconto l’ho vissuta la scorsa settimana; [...] non riguarda lo speci-
fico della materia, ma come attivare una classe nel fare una cosa. Ci siamo trovati a svol-
gere un esercizio che, in realtà, non avevo preparato prima, ma avevo dettato lì per lì; lo
avevo preso da un testo ed è venuta fuori un’equazione di terzo grado. Era un semplice
problema, dove si dovevano cercare dei numeri in successione; chiedeva tre numeri con-
secutivi, quindi abbiamo chiamato x un numero, x+1 l’altro, x+2 il terzo; si parlava del
loro prodotto e, alla fine, è venuto fuori un calcolo algebrico. Erano ragazzi di terza [...],
che quindi conoscono un po’ l’algebra; mi hanno fatto questo calcolo e, alla fine, è ve-
nuta fuori un’equazione di terzo grado. Nessuno ovviamente aveva in mente come si po-
teva affrontare una cosa di questo genere; tra l’altro, era una classe che ho trovato que-
st’anno, non conoscevo da prima e quindi non sapevo il loro vissuto precedente. Sono
venti allievi; è la classe meno numerosa che abbiamo [...]; una decina di allievi sono par-
ticolarmente brillanti. Questa terza arriva da un percorso integrato25 e raccoglie un po’ di
tutto: gente che arriva da un corso per periti, gente che arriva da quello per geometri ecc.
[...], quindi con vissuti veramente diversi. Allora qualcuno dice: “Qui bisogna applicare
la regola di Ruffini, per abbassarla di grado”. Aveva dato la risposta giusta. Chiedo:
“Quanti ragazzi conoscono la regola di Ruffini?”. In due. Allora dico: “Questa la faremo
una prossima volta, però vi dico che, per applicare la regola di Ruffini, bisogna andare a
cercare il valore che dobbiamo utilizzare per dividere lo zero del polinomio”. Peccato
che il termine noto di quella equazione fosse 74. Allora alcuni hanno detto: “No, no, la
mia professoressa l’anno scorso ci faceva fare le prove, partiamo da 1!”. E io: “Perfetto,
per arrivare a 74, ci mettiamo tre mesi!”. Allora, ho detto: “Vi do un’idea di massima,
proviamo con un 4, se va bene”. Non andava bene. “Proviamo allora con 5”. Non andava
ancora bene, perché il valore che veniva fuori era maggiore di 74. Allora ho detto: “Il nu-
mero deve stare lì in mezzo, tra il 4 e il 5”. Fortunatamente, stava finendo l’ora [...]; ho
provato un paio di volte, ma non mi veniva lo 0, e allora mi è venuto un lampo di genio.
Era un venerdì e dico: “Io metto in palio un 100 – che è il massimo voto che si può pren-
dere – per chi lunedì mi porta la soluzione!”. Bene, devo dire che sono rimasto allibito: il
lunedì, sono venuti in dieci; uno è arrivato che aveva dieci fogli di calcoli che aveva fatto
con 4,1, 4,15, 4,2. Poi è arrivato il tipo che proveniva dalla quarta ITI e dice: “Ma io ho
un programma a casa”, ed io “Complimenti! Hai risolto il quiz”. Lo ha risolto perché a
casa ha un programma informatico che gli ha risolto il calcolo in maniera molto veloce.
La cosa che sta a monte e che davvero mi ha sorpreso è che metto in palio un 100, che
non è un motorino [...] ma un voto, che poi conta per quanto può contare. Beh, la metà
classe che non si era attivata era la metà classe che già mi aveva detto che non aveva
neppure un’idea di perché fosse venuta fuori un’equazione di terzo grado, figurarsi che
cosa interessava loro di andare a cercare lo zero del polinomio. Invece gli altri devo dire
che mi hanno veramente stupito, perché comunque hanno dedicato parte del loro wee-
kend a cercare la soluzione di un problema, che magari poi non hanno trovato. Uno mi
ha detto: “Guardi che sono arrivato a 73,98!”, qualcosa di questo genere, e poi aggiunge
che si è stufato, mentre l’altro dice che lo ha fatto con il computer e lo ha risolto. Questa
è una cosa carina, quindi ho pensato che possa essere una modalità da adottare anche in
altre occasioni perché in qualche modo li attira; è stata un’esperienza simpatica
(FGMat5/13).
W. ci racconta un normale episodio didattico che ha portato lui e la classe a
contatto con uno scoglio, una difficoltà che il tempo non consentiva di risolvere in
25 Con l’espressione “percorso integrato” si intendono percorsi gestiti in cooperazione tra Istituto
scolastico ed Ente di Formazione Professionale.
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aula. Da qui l’idea di “mettere in palio” un voto, o meglio di offrire l’opportunità di
acquisire un punteggio ulteriore, svolgendo un lavoro aggiuntivo. L’effetto, in
quella circostanza, è stata l’attivazione insperata da parte di un consistente gruppo
di allievi, che arrivano in aula con raccolte di fogli pieni di calcoli.
7.6. Stimolare all’autovalutazione
La valutazione non è solo una fase del processo formativo ma anche una dimen-
sione da formare nei soggetti (Plessi, 2004). I soggetti che imparano ad autovalutarsi
sono soggetti che imparano meglio. Di questo sono convinti anche i nostri forma-
tori, che spesso invitano i propri allievi ad autovalutare la propria prestazione:
queste sono verifiche con l’autovalutazione [...]; in questo caso avevamo trattato gli ar-
gomenti di revisioni tra polinomi con il metodo tradizionale o con la regola di Ruffini, in
classe; dopo aver affrontato l’argomento, consegno delle schede di questo tipo (ne mo-
stra una), con tutti i criteri di valutazione; loro devono compilare questa scheda o a casa
o in classe, senza l’utilizzo del libro o del quaderno, come se fosse una verifica o un
compito in classe; dopo di che, la verifica viene corretta in classe o do io i risultati e sot-
tolineo i criteri per l’autovalutazione di ogni esercizio; poi ci confrontiamo in classe; [...]
dopo di che, si danno loro il punteggio e vanno a cercare gli errori; nella correzione alla
lavagna, devono trovare l’errore: l’errore di segno, ad esempio, è “zero punti” a tutto l’e-
sercizio, perché è un errore fondamentale; l’errore di calcolo, viste le loro difficoltà, [...]
“mezzo punto” ad esercizio; gli errori di trascrizione, “zero punti” a tutto l’esercizio –
siccome io ho insegnato loro il procedimento logico, tra cui anche stare attenti a trascri-
vere le cose in modo corretto, non accetto errori di trascrizione, perché sono errori stu-
pidi, di distrazione [...] –; l’errore di regola è “zero punti” a tutto l’esercizio. Per cui loro,
sulla base di questi criteri di valutazione e di questo punteggio massimo, si danno il voto
e sotto scrivono in che cosa devono migliorare: segni, calcolo, la regola di Ruffini che
non hanno capito..., in modo tale che, quando arriva la verifica ufficiale, [...] loro sono
già preparati perché hanno fatto tutto un percorso prima, non arrivano con l’ansia di tro-
varsi di fronte una verifica dal contenuto [...] sconosciuto. [...] Attraverso questa metodo-
logia, anche Serafina [...] è riuscita a controllare le proprie emozioni e ad affrontare la
verifica ufficiale con serenità d’animo – perché è uguale alle precedenti, cambiano solo
gli esercizi, però è impostata con lo stesso criterio di valutazione, come le altre – e, poi, a
valutare come ha fatto il compito. Loro consegnano e dicono: “Ho preso sette e mezzo,
prof”. Rispondo: “Mi fa piacere che tu ti sia dato sette e mezzo, così vai a casa tran-
quillo” (IntVr3/19); ...all’inizio dell’anno, c’era gente che sbagliava a fare i calcoli del
punteggio, perché, non sapendo svolgere le operazioni di somma, soprattutto quelle deci-
mali, si valutavano in modo errato: [...] “Facciamo che metto il tuo voto? – cioè di meno
– o ricontrolli la tua valutazione?”. Queste schede di valutazione io le faccio poi attac-
care sul quadernone (IntVr3/25); (il voto) se lo danno loro e se lo firmano con la loro
firma, non con la mia; [...] fare autovalutazione, scrivere il voto in rosso e la firma
diventa un gioco per loro, una cosa divertente (IntVr3/27); [...] in questo caso ho dato
la verifica che avevo [...] dato in un’altra classe: sono diverse le verifiche, ho fatto più
fotocopie e le ho date loro come scheda di autovalutazione (IntVr3/33) ...e ho detto:
“Ragazzi, è una scheda di autovalutazione, attaccatela sul quaderno e svolgetela!”. È
una verifica fatta in un’altra [...] prima; dopo si danno il voto (prende il quaderno di
un’allieva): “Cosa devo migliorare? In niente, perché ho preso dieci”; va beh, ho preso il
quaderno di una delle più brave (IntVr3/37);
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quando fanno un compito in classe, chiedo loro di autovalutarsi, per capire se effettiva-
mente [...] si rendono conto, in linea di massima, di quello che fanno giusto e di quello
che non sanno (IntVr8/26); do una verifica con una serie di esercizi – facciamo finta che
siano cinque esercizi – e, in fondo, metto una tabella dove c’è scritto “primo esercizio” e
c’è [...] lo spazio perché mi descrivano se l’hanno fatto giusto o sbagliato; il punteggio
può essere, che so, da zero a venti o da zero a due [...], dipende da come è strutturata la
verifica; poi, a fianco, c’è l’autovalutazione, possono indicare il voto che pensano di
prendere, hanno lo spazio per scrivere il voto; in genere [...] ho lasciato anche lo spazio
per delle considerazioni, ad esempio: “verifica troppo lunga”, “troppo poco tempo per
fare gli esercizi”..., [...] per capire il livello e per capire come potevo muovermi all’in-
terno della classe, perché poi ogni classe ha una storia a sé e un determinato livello da
gestire (IntVr8/28);
cerco di dare sempre a loro un criterio di [...] “autovalutazione”, nel senso che, vicino ad
ogni esercizio, metto nel compito il punteggio (IntMe5/69), cioè: “Questo esercizio [...],
se fatto giusto, vale quattro punti [...]” (IntMe5/71); “La somma totale dei punti è questa;
sappiate che, per raggiungere la sufficienza, bisogna almeno avere questo punteggio”
(IntMe5/73); “Però state attenti, perché questa è un’arma a doppio taglio [...]: voi, magari
puntate alla sufficienza e dite: ‘va beh, faccio questo, questo e questo, che mi portano alla
sufficienza!’. Poi immancabilmente qualche errore lo fate e quindi la sufficienza non la
raggiungete!” (IntMe5/75); “Dovete cercare di fare il possibile per fare il più possibile!”.
Poi invece la domanda che ritorna sempre è: “Ma prof, quanti punti bisogna fare per avere
la sufficienza?” [...] (IntMe5/77); quello, secondo me, è utile nel momento in cui uno dice:
“Va beh, mi guardo il compito, vedo da cosa riesco a partire”; [...] ho cercato anche di dire
a loro: “Non è obbligatorio che voi partiate dall’esercizio che vale più punti, perché poi vi
perdete, perché forse vale più punti per qualche motivo; magari è anche un po’ più com-
plesso; provate a partire dalle cose un po’ più semplici, che vi danno poi quella sorta di
coraggio, di motivazione che serve per il compito” (IntMe5/81). “Partite da quello che sa-
pete! Non c’è un ordine da seguire, siete liberi nella gestione del compito, partite da
quello in cui siete sicuri!”, anche perché ci sono diverse tipologie di esercizio, non è che ci
siano solo espressioni da risolvere e tutte della stessa difficoltà; il compito è diversificato
insomma, in modo che tutti abbiano la possibilità di fare comunque qualcosa. Infatti, ho
avuto pochissime persone che hanno consegnato compiti in bianco (IntMe5/83);
alcune volte [...], per vedere quale tipo di consapevolezza loro abbiano di quello che
stanno facendo e di come hanno studiato, finito il compito in classe, dico di segnare a
matita quello che è il voto che loro pensano di meritare in quel compito. Devo dire che
[...] l’80-90% delle persone ci prende; chiaramente non alla prima lezione, ma dopo un
po’ di volte, quando sanno qual è il metro che io uso per valutare, cosa che fra l’altro
spiego nelle prime lezioni, in modo tale che abbiano la capacità di prepararsi [...]; hanno
una capacità di valutarsi superiore a quella che noi attribuiamo loro (IntMi6/84). Anche
nelle interrogazioni orali, a volte, chiedo: “Secondo te, che cosa meriti?”. Chiaramente a
volte loro ci giocano [...] ma il più delle volte ragionano seriamente e devo dire che ci az-
zeccano. A volte è l’intera classe a dire: “Ma diglielo che avresti preso 6!”; quelle sono
cose che creano magari 2 o 3 minuti di confusione, da cui però uno vede che la classe è
partecipe; quello che pretendo è che siano attenti all’interrogazione degli altri che poi
potrebbe essere simile alla loro; in questo modo, ripassano anche gli argomenti fatti. Su
questo ci sono dei riscontri positivi, perché anche questo, secondo me, poi serve un
domani a loro: non tanto il fatto che abbiano preso un 6 o un 4 o un 7 in matematica, ma
che sappiano che ciò che stanno facendo o hanno fatto può ritenersi positivo o meno,
perché sviluppare un po’ di capacità critica mi sembra più importante di sapere la mate-
matica; questa è una cosa che io ripeto loro in continuazione: “Si vive anche senza sapere
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la matematica, fortunatamente; ma non si vive quando non si è in grado di seguire delle
regole o di avere un minimo di capacità critica nei confronti di quello che ci capita
intorno!” [...] e su questo, devo dire, comunque loro ci sono; che loro siano in grado di
sapersi gestire una volta fuori di qui mi sembra molto più importante del risultato che
ottengono nella mia disciplina [...] (IntMi6/88);
In preparazione di una verifica ufficiale, MR (IntVr3) propone una simula-
zione di prova su schede che esplicitano i criteri di valutazione. Gli allievi possono
svolgere le prove qualche volta in classe, qualche volta come compito per casa. In
classe, poi, alla lavagna, la docente mostra il procedimento corretto ed evidenzia
ulteriormente i criteri di valutazione. Dopo questa fase, i singoli allievi sono invi-
tati a tornare sul proprio compito, ad analizzarne gli errori, ad attribuirsi – e a sotto-
scrivere – il voto e a scrivere un paragrafo su ciò che dovrebbero migliorare nelle
prove successive. La formatrice sottolinea come questa attività aiuti a ridurre note-
volmente l’ansia durante le prove ufficiali. M. (IntVr8) utilizza una metodologia
simile proponendo il compito in un formato che prevede il testo e lo spazio per lo
svolgimento dei singoli esercizi, l’indicazione del punteggio, esercizio per eser-
cizio, e una tabella che consente di auto-attribuirsi un punteggio per ciascun eser-
cizio svolto e dunque un voto finale. Oltre a questo, il formato della prova prevede
anche uno spazio per l’auto-valutazione della prova stessa. Nell’esperienza di P.
(IntMe5), l’esplicitazione dei criteri di valutazione e dei punteggi attribuiti a cia-
scun esercizio che compone una prova diventa occasione per fornire indicazioni
sullo svolgimento e su come scegliere gli esercizi da cui partire. Anche R. (IntMi6)
propone ai suoi allievi di autovalutarsi alla fine di una prova scritta o orale e sotto-
linea il valore educativo di questa attività in ordine allo sviluppo della capacità di
tornare con uno sguardo critico su ciò che si fa.
Anche l’esperienza di E. (IntMe3), che riportiamo qui di seguito, riguarda
l’autovalutazione, in questo caso nella gestione di un colloquio orale a coppie:
prediligo [...] le verifiche orali, proprio per questo senso più o meno sviluppato della pra-
ticità, della concretezza che ciascuno di loro ha; io vorrei capire ciascuno di loro, com-
prendere come e quanto è arrivato alla comprensione di quel dato o di quella informa-
zione. Quindi, prima di fare una verifica scritta, lascio un lungo periodo di interrogazioni
alla lavagna; non li chiamo soli però, ne chiamo sempre almeno due, perché sono con-
vinta che il loro lavoro sia un lavoro di équipe e che, anche attraverso il confronto che
avviene durante la verifica, loro possano sviluppare questo senso di collaborazione che è
fondamentale per lavorare in laboratorio in maniera serena, per completare un progetto.
Generalmente, [...] nelle interrogazioni, chiedo praticamente di ricostruire quello che ab-
biamo imparato o di risolvere quel determinato problema o quella determinata opera-
zione matematica, proponendo un’interrogazione a coppie, in cui condividono il voto:
sono in due: “Provate a dirmi come si fa?”; generalmente si confrontano, oppure cia-
scuno dei due, a seconda dell’indole, del carattere, parte costruendo una propria solu-
zione; noi abbiamo delle lavagne doppie, [...] quindi ciascuno ha il suo spazio (Int-
Me3/242), ha una sua autonomia; dopo di che, approfondisco, facendo domande sempre
più dettagliate su quello che hanno scritto, chiedendo anche il parere dell’uno e del-
l’altro: “Che cosa ti sembra di quello che ha risposto il tuo compagno? Che cosa è de-
bole, che cosa è vincente di quello che il tuo compagno ha detto? E tu come avresti
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fatto?”. Questo permette loro anche di autoverificarsi immediatamente; è difficile l’auto-
valutazione, perché loro, dopo i compiti in classe, prendono il voto e generalmente non
guardano neanche (IntMe3/244) gli errori che hai segnato sul foglio (IntMe3/246); in
questo modo, invece, sono stimolati a capire perché la loro soluzione sia stata o no tanto
efficace quanto quella del compagno (IntMe3/248).
E. (IntMe3), pur ricorrendo anche a prove scritte, predilige le verifiche orali
perché, secondo la sua esperienza, consentono meglio di cogliere in profondità i
processi di pensiero che portano gli allievi alla comprensione. La nostra formatrice
propone ai suoi allievi delle verifiche orali a coppie, con la condivisione del voto. Il
procedimento è vario: alla consegna (un problema da risolvere, un esercizio da ese-
guire...) segue un momento di confronto; oppure ciascuno dei due esegue la con-
segna su un settore della lavagna e poi osserva e valuta la soluzione sviluppata dal
compagno, indicandone punti di forza e punti di debolezza ed eventualmente propo-
nendo soluzioni alternative. In questo modo, l’interrogazione a coppie si trasforma
in un lavoro di revisione reciproca e nella costruzione di un ragionamento condiviso.
7.7. Far preparare agli allievi i quesiti di una prova di matematica (lasciando
spazio alla creatività)
Al termine di un’unità di lavoro, può essere utile chiedere agli allievi di co-
struire a gruppi una prova strutturata sul percorso svolto. È la strategia di cui ci
parla MR. (IntVr3) nel brano che segue:
c’è un attività che [...] ho fatto un po’ tutti gli anni [...]: ho fatto preparare un test struttu-
rato di matematica; oggi, ho raccolto i primi risultati e già è una decina di giorni che
penso a questa cosa (IntVr3/119); (si tratta di) test a risposta multipla (IntVr3/121). La
questione è così: [...] siccome ho terminato il programma dell’anno, su tutto il pro-
gramma dell’anno, loro devono preparare o un test a risposta multipla, o un vero e falso,
[...] un esercizio di completamento, uno di collegamento e poi [...] finirei con un gioco
matematico sulle competenze dell’anno, ma inventato da loro. Io lo raccolgo, lo guardo,
valuto quello che hanno fatto con dei più, poi recupero tutto questo materiale nelle tre
classi, lo elaboro, lo sistemo, lo correggo e preparo loro una verifica (IntVr3/125); ...ho
fatto io i gruppi da tre o quattro (IntVr3/137). Il “sudoku” me lo hanno spiegato loro [...];
poi hanno scritto anche col computer [...]; ho visto che, con questa attività, anche i de-
motivati hanno lavorato in un modo che non pensavo neanche, con un tale impegno che
mi sono detta che devo fare più cose di questo genere. La consegna che hanno formulato
qui (mostra un test elaborato dai suoi allievi) è questa: “Fai le operazioni e alla fine
completa la tabella con i numeri convertiti in lettere”; viene fuori una parola; [...] l’ho ri-
tirato oggi e non sono stati aiutati; voglio verificare (IntVr3/127); ...convertendo i numeri
in lettere (IntVr3/129), da quella scheda dovrebbe venire fuori una parola: “Abbina il
risultato corretto” (IntVr3/131); più tardi devo verificare queste cose (IntVr3/133); quelli
di collegamento glieli avevo proposti io; questi (mostra ancora il lavoro dei ragazzi)
sono una cosa che si sono inventati loro: [...] c’è gente che si inventa cose, codici com-
plicati..., perché allora non ne capiscono altre! (IntVr3/139) [...]. Mancano i “crucin-
tarsi”, non mi hanno consegnato i crucintarsi (IntVr3/149). Oggi mi ha fermato uno che
mi ha detto: “Trovo qualche difficoltà al computer a fare i crucintarsi”; ho detto: “Io non
ti ho detto di fare al computer i crocintarsi; metti al computer le definizioni verticali e
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orizzontali, quelle cose lì; e poi il crucintarsio, tu che sei un grafico, non lo puoi fare a
mano?”; lui al computer tentava di fare questa cosa (IntVr3/152) e poveretto è di prima e
fa ancora fatica (IntVr3/154). Ad esempio, questo (mostra il lavoro di un gruppo) è un
altro esercizio che io non ho detto loro di fare: “Trova l’errore e spiega perché è sba-
gliata...”; allora loro hanno fatto l’esercizio e dopo mi hanno messo la soluzione, ma ad
esempio questa ha un errore, allora devono dire anche il perché è sbagliata (IntVr3/156).
Il “sudoku” tenterò di farlo a casa, ma il “sudoku” non lo do nelle classi perché c’è gente
che non lo sa fare; [...] poi c’è il “gioco dell’oca”: [...] questo è il gruppo più numeroso
[...], comunque ha funzionato bene lo stesso; questo è il gioco dell’oca, oggi mi hanno
spiegato: “Questa è la partenza, poi c’è tutto un percorso con le scritte in rosso: sono i
risultati, cioè le risposte corrette, e si deve arrivare fino alla fine del percorso, avendo
svolto tutti gli esercizi”. Tirano i dadi, vanno su una casella e lì devono risolvere un pro-
blema con dei tempi, se no tornano indietro, si fermano un giro (IntVr3/159). [...] In
questa prima – cambio un po’ le situazioni in funzione di come recepiscono – sono par-
tita con il voler preparare il classico test strutturato di matematica; allora metto alla la-
vagna come devono essere i quesiti a risposta multipla o a completamento, poi è venuto
fuori un ragazzo e mi ha detto: “Non possiamo inventarcene uno?”. “Sì”, ho detto, poco
convinta; poi, tornando a casa, ho pensato che [...] poteva essere interessante e allora ho
detto: “Facciamo così: una parte (dei quesiti che inventerete voi) li utilizzo per la veri-
fica, poi tutta una serie di altri giochi, per esempio il gioco dell’oca, il “sudoku”, li
teniamo da parte per gli ultimi giorni di scuola, con quel caldo terribile, facciamo un bel
pacchetto e allora sperimentiamo!”. Questo (lo mostra) è il gioco che ha preparato Ennio
con il suo gruppo: “Bene, allora vediamo un pochino a gruppetti, vedete di giocarci e
vedete se funziona” (IntVr3/168). [...] Adesso sta a me utilizzare questi materiali ed è una
cosa attuale, nel senso che sto ancora meditando su come dare a tutto questo una concre-
tizzazione, su come svilupparlo, per cui adesso è un punto di domanda, io voglio co-
munque usare questi materiali (IntVr3/172); [...] l’ho appena ritirato, non so cosa abbiano
fatto; mi hanno detto che funziona; se hanno detto che funziona, mi fido; ieri li ho visti
lavorare: erano tutti intenti; vedi qui alla fine [...] hanno messo le caselle, in realtà do-
vrebbe venir fuori questa parola, cioè è un crucintarsio; praticamente, rispondi a tutte le
domande e poi ti viene fuori la parola (IntVr3/176); ...tutto deve riguardare la matematica
(IntVr3/180), esercizi che abbiamo fatto durante l’anno, oppure domande di teoria
(IntVr3/182) [...]. Sono molto creativi [...] (IntVr3/192). Per esempio, questo (mostra uno
dei lavori) è un altro tipo; [...] dall’insieme di queste lettere che parola caveresti?
(IntVr3/194). R-u-f-f-i-n-i (IntVr3/196). È il teorema di Ruffini; io ho detto: “Ragazzi,
però è un po’ difficile...”. “Beh, lo abbiamo studiato durante l’anno, non dovrebbe essere
difficile!”. “È difficile per chi non ha studiato durante l’anno!” (ride) (IntVr3/198);
l’anno scorso ci siamo confrontati anche con gli altri professori del Centro e alcune idee
molto interessanti sono venute fuori, ad esempio, [...] proponevano di fare inventare loro
non un esercizio, ma proprio delle domande da compito in classe, cioè ognuno pensa una
domanda che sarà presente nel compito in classe; su venti domande che vengono fuori,
che ne so, ne scelgo dieci (IntVr8/48); possono essere esercizi, quindi espressioni, o un
problema pratico sulle percentuali, [...] oppure domande di teoria: stiamo facendo le po-
tenze..., non so, il primo principio di equivalenza [...] (IntVr8/50).
MR. (IntVr3), che insegna a Verona, specifica il formato secondo cui costruire la
prova strutturata, indicando la tipologia di domande (domande a risposta multipla,
domande del tipo vero-falso, domande di completamento, domande di corrispon-
denza o collegamento ecc., ma anche domande aperte che chiedono di spiegare le ra-
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gioni delle scelte, come nel caso della domanda che chiede di individuare un errore e
di spiegare il perché si tratti di un errore). I prodotti che nascono da questa consegna
hanno molteplici valenze: da una parte, consentono alla formatrice di raccogliere in-
dicazioni su quanto i suoi allievi hanno appreso (come abbiamo visto, costruire dei
quesiti comporta un esercizio cognitivo stimolante e significativo); dall’altra forni-
scono alla formatrice idee e spunti per la costruzione di una prova di verifica da pro-
porre ai suoi allievi. MR ottiene un’attivazione che la sorprende e nota che i ragazzi
mettono in campo una notevole creatività e diverse abilità per elaborare prove e
giochi basati sulla matematica. Per quanto riguarda i giochi, qualche volta si tratta di
veri e propri giochi matematici (come il sudoku), che potrebbero essere inseriti in
una prova di verifica, altre volte si tratta di giochi tradizionali (i giochi enigmistici o
il gioco dell’oca, con tanto di premi e penalità), per affrontare i quali è però neces-
sario svolgere correttamente esercizi matematici, in tempi dati, e che possono essere
utilizzati in classe, nell’ultima parte dell’anno. La formatrice ci racconta anche come
è nata l’idea di far fare questa attività: mentre, in prossimità di una prova, stava spie-
gando le tipologie di domande che gli allievi avrebbero trovato, un allievo le chiede:
“Possiamo inventarcene uno?”. Dal suo ascolto di questa richiesta e dal suo dare
fiducia ai propri allievi, anche vincendo le iniziali titubanze, nasce tutto il processo.
Il secondo brano riportato sopra, quello di M. (IntVr8), anch’egli formatore a Verona,
ci fa intuire che la metodologia di MR è stata accolta anche da altri docenti di quel
CFP. L’idea è di far elaborare direttamente agli allievi delle domande per il compito
in classe, di raccoglierle, analizzarle, eventualmente correggerle, e di annunciare che
per il compito il docente avrebbe scelto proprio alcuni di quei quesiti.
7.8. Proporre la verifica in laboratorio
Talvolta, può essere utile agire sul setting della prova e proporre di fare la veri-
fica non in aula ma nel laboratorio che, nei CFP, è prevalentemente quello profes-
sionale. Le ragioni di questa scelta sono chiare, se consideriamo il valore simbolico
che questo luogo assume agli occhi dei ragazzi:
i compiti in classe [...] non li faccio in classe ma in laboratorio (FGMat2/333), anche
quelli di matematica, per una questione di concentrazione (FGMat2/335); ...per esempio,
nel nostro settore elettrico, ogni ragazzo ha il suo banco; poi [...], quando va in labora-
torio, va a posizionare il suo quadro e lavora lì, seguito dall’insegnante di laboratorio;
[...] per fortuna gli spazi sono abbastanza grandi, quindi si riesce a trovare un’area
che posso dedicare solamente ad un’esercitazione o al compito di un’oretta; [...] là, ov-
viamente [...], il silenzio è assoluto, la concentrazione è massima; si sente solo la voce
dell’insegnante, i ragazzi non fiatano, c’è molto controllo. In classe è un po’ più difficile,
in laboratorio questo si riesce ad ottenere (FGMat2/337) ...senza nessuna difficoltà; i
ragazzi sono anche più distanti l’uno dall’altro, perché i banchi sono chiaramente un po’
più distanziati rispetto ai classici banchi a due che si hanno nelle aule [...] (FGMat2/339).
Una volta al mese faccio queste verifiche di matematica [...] (FGMat2/346) in laboratorio
(FGMat2/348); la disposizione fisica è importante, però è soprattutto una questione
di concentrazione: loro, in laboratorio, non so perché, sono più concentrati rispetto a
quando siamo in classe (FGMat2/350).
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La collocazione della verifica negli spazi del laboratorio di elettrotecnica con-
sente a F. (FGMat2/333-350) di controllare meglio la situazione ma anche di favo-
rire una migliore concentrazione da parte degli allievi, che forse legano quel luogo
ad attività pratiche alle quali diventa più spontaneo, per loro, dedicare quell’atten-
zione e concentrazione che non sono sempre disposti a regalare invece alle attività
più teoriche.
7.9. Organizzare prove autentiche centrate su compiti reali
Generalmente, le unità di apprendimento centrate sulla realizzazione di capola-
vori o gli esami di qualifica prevedono prove che richiedono di dimostrare di aver
sviluppato specifiche competenze, si basano su situazioni autentiche, reali o simu-
late, e coinvolgono simultaneamente varie aree disciplinari. La valutazione di
questo genere di prove risulta essere particolarmente complessa e sicuramente ha
poco a che fare con fredde misurazioni. Vediamo alcuni esempi:
nella prova di fine ciclo, ad esempio, del settore meccanico, c’è un lavoro interdiscipli-
nare, nel senso che i ragazzi dovranno produrre in officina quello che hanno disegnato e
progettato; ma non solo, c’è tutta una parte – in questo caso, soprattutto volumi, peso
specifico e proporzioni – che dovranno calcolare, per quanto riguarda la matematica; in
più, dovranno scrivere una relazione che descrive la progettazione e l’esecuzione del
pezzo e ideare un depliant che lo pubblicizza; in questo caso, intervengono dunque anche
l’informatica e l’italiano; inoltre si immagina, in questa fase, di inviare la proposta di
vendita ad una ditta straniera e quindi c’è la traduzione in inglese delle caratteristiche
operative del pezzo [...] (FGMat1/69). [...] Poi abbiamo l’impianto civile con gli elettrici;
anche in quel caso, ci sono costi, sezioni di fili, volumi, pesi, consumi da calcolare, [...]
in collaborazione con il referente del settore, che sa che poi questa parte sarà costruita
effettivamente su pannello dagli allievi, in laboratorio, e con gli altri insegnanti, quello di
matematica, che verificherà i calcoli relativi a questa parte, e quello di fisica, che andrà a
vedere le resistenze e così via (FGMat1/75). Noi abbiamo un momento tutte le settimane
in cui gli insegnanti del settore hanno un tempo in cui si possono trovare, perché le atti-
vità sono sospese. Allora ecco che il referente del corso raduna gli insegnanti del corso e
propone quello che secondo lui dovrebbe essere, in base alle capacità della classe, il
capolavoro, l’opera da costruire, alla fine del ciclo (FGMat1/77). Tutte le settimane, il
venerdì pomeriggio non c’è lezione, per cui [...] c’è la riunione dei diversi settori, e, in
questo caso, il settore della classe si riunisce per decidere cosa costruire. In quell’occa-
sione, il referente illustra quali sono, a suo giudizio, le possibilità di interfacciamento con
le varie discipline, oppure, i vari insegnanti, ad esempio, dicono: “Io vedo anche bene la
possibilità di sfruttare le conoscenze del percorso che sto facendo, in questa fase”; quindi
prende forma il progetto. L’obiettivo è arrivare entro quella data, con gli argomenti già
sviluppati, le consegne cartacee; l’allievo sa che deve costruire questo, calcolare quello,
eseguire quello e così via (FGMat1/79) [...]. Ci sono classi che lavorano a gruppi [...]; c’è
chi tutta la parte di progettazione la fa a gruppo, altri invece, per lavori più semplici, si
dividono i particolari, altri invece dicono: “No, ognuno fa il suo”, perché è particolar-
mente importante che ognuno dimostri queste competenze. Quindi, a seconda dei casi,
ecco che si sviluppa il progetto. Dopo di che ci si riunisce; supponiamo che tutti debbano
calcolare il volume di un particolare, la classe si riunisce in una tal data, tutti sapevano
che avevano già disegnato il pezzo, calcolato queste parti; si fa il confronto dei risultati
ottenuti all’interno della classe e si va a vedere: a) intanto il procedimento logico che si è
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seguito, ad esempio un cilindro [...] con un cono con un diametro maggiore, chi avrà cal-
colato l’intero cilindro con il diametro maggiore, tolte le due parti minori, chi invece
avrà calcolato le due parti minori più la parte maggiore, si seguono i vari procedimenti,
tanto per vedere le modalità diverse con cui si è arrivati al risultato (FGMat1/81). Allora,
ci si riunisce e si dice: “Allora, siamo pervenuti al risultato? Spiega ai tuoi compagni
come sei pervenuto a questo risultato” (FGMat1/85). Lo fanno oralmente o al limite pos-
sono farlo sulla lavagna, dicendo che funzione assume questo elemento o quest’altro ecc.
Quindi si vanno a vedere delle soluzioni che neanche io avevo pensato, correttissime ma-
gari; [...] dopo di che si vanno a confrontare i risultati e i procedimenti [...] teoricamente
corretti, che hanno alcuni errori di calcolo, errori materiali, proprio di attenzione; [...]
b) si vanno a vedere gli errori di forma e non di sostanza. Questo [...] è un lavoro abba-
stanza complesso, quindi non possiamo, o almeno non siamo ancora riusciti a dire: “Ope-
riamo solo con unità di questo tipo”, perché, proprio in questo caso, c’è dietro un grosso
lavoro di preparazione e di compartecipazione (FGMat1/87). In un anno, ne dobbiamo
fare come minimo tre (FGMat1/89). Si fanno in prima, in seconda, in terza, con difficoltà
diverse. Ad esempio, per matematica, in un primo anno, l’allievo mi potrà calcolare i vo-
lumi; in un secondo anno, arriva a calcolarmi alcuni elementi incogniti [...]; in un terzo
anno avrà magari dei punti da calcolare o avrà, ad esempio, da programmare il controllo
numerico; i punti si possono trovare magari con il disegno di una retta, andando a sco-
prire qual è l’equazione di una retta che mi permette di [...] trovare quel determinato
punto (FGMat1/93).
M. (FGMat1/69-93) descrive accuratamente un esempio di prova di questo
tipo, centrata sulla realizzazione di un prodotto in officina. Può essere utile riper-
correre l’esempio, indicando le azioni che gli allievi sono chiamati a compiere nel
periodo di svolgimento della prova, che può durare anche alcuni giorni, a seconda
della complessità del pezzo da realizzare, e le aree disciplinari di riferimento:
– disegnare e progettare il prodotto (Tecnologia),
– calcolare volumi, peso specifico e proporzioni (Matematica),
– realizzare il prodotto in officina (Laboratorio meccanico),
– scrivere una relazione tecnica con la descrizione delle fasi di progettazione e
realizzazione del pezzo (Italiano),
– ideare un depliant per pubblicizzare il pezzo (Informatica),
– simulare l’invio di una proposta di vendita ad una ditta straniera con la descri-
zione delle caratteristiche operative del pezzo (Inglese).
I compiti possono essere diversi ma generalmente sono legati alla realizza-
zione della consegna di lavoro. Va notato inoltre che questo genere di prova si
presta a valutare competenze e dunque saperi integrati, il cui possesso facilmente
sfuggirebbe a prove parcellizzate e standardizzate.
La progettazione di questo genere di prove, sempre secondo il racconto di M.,
richiede un’intensa interazione tra i formatori. Nel CFP di Fossano, questo con-
fronto generativo avviene nell’ambito di un incontro settimanale dei formatori di
un determinato settore (meccanico, elettromeccanico, grafico ecc.). È dal confronto
tra i docenti che prende forma il progetto. La prova, le varie consegne che la costi-
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tuiscono e i criteri di valutazione vengono formalizzati per iscritto. Le prove pos-
sono essere individuali o di gruppo.
Il nostro docente poi ci riferisce, nell’ambito dello stesso racconto, alcuni ele-
menti del processo che prende vita quando questo tipo di prove viene fatto oggetto
di valutazione condivisa in classe. Attraverso una conversazione, M. stimola i suoi
allievi ad esplicitare il procedimento logico seguito, a confrontare le diverse moda-
lità che sono state utilizzate per arrivare ad un determinato risultato, ad analizzare
gli errori e le possibilità di miglioramento.
In questo processo, il docente valorizza le diverse forme di ragionamento che i
ragazzi hanno messo in atto, anche se diversi da quelli canonici o da quello indi-
cato in precedenza dal docente su casi analoghi. Del resto, il senso della valuta-
zione è che l’allievo apprenda e non che si abitui semplicemente a rispondere ciò
che immagina l’insegnante si aspetti. Una valutazione del genere non valuterebbe
l’apprendimento, ma solo la capacità del soggetto di adattarsi passivamente, anche
senza capire, alle richieste del docente, indipendentemente dalla loro sensatezza.
Questo tipo di verifiche richiede tempi lunghi, ma i docenti di Fossano, sempre
stando al racconto di M., riescono a proporne almeno tre all’anno.
Il ricorso a questo tipo di prove è abbastanza diffuso (l’abbiamo visto sopra,
nel paragrafo dedicato alla progettazione di unità di lavoro nelle quali tutte le disci-
pline convergono verso la realizzazione di un prodotto significativo). Non sempre
però si tratta di prove complesse. Qualche volta la cooperazione tra docenti di area
pratica e docenti di area teorica produce forme di valutazione più semplici ma
ugualmente basate su elementi di autenticità riferibili a situazioni che gli allievi
affrontano normalmente in laboratorio:
abbiamo fatto un’interrogazione sugli angoli con l’insegnante pratico [...], collegata al la-
boratorio di saldatura: “Mi devi fare una saldatura ad angolo retto, a 90°, oppure a 45°”;
[...] anche queste interrogazioni con i pratici aiutano molto a far memorizzare ai ragazzi,
perché poi a casa non studiano, perché lavorano, e quindi [...], facendo diversi esercizi,
non a casa, ma in laboratorio, forse poi riescono ad apprendere praticamente, andranno
ad acquisire quei concetti che poi eseguiranno meccanicamente ma non senza un ragio-
namento, perché dice: “a 45° vuol dire che devono essere messi in questo modo per la
saldatura” [...] (FGMat1/49);
avevamo fatto il calcolo delle percentuali, lo sconto ecc. (IntMe5/321); facevano un po’
fatica a capire; allora ho fatto vedere il compito al prof. M (l’insegnante di laboratorio) e
ho detto: “Guarda, qua c’è un problema, non hanno capito questa cosa” e lui, guardan-
dola, mi fa: “È impossibile, perché in laboratorio stiamo facendo il calcolo dei preventivi
e loro devono calcolarsi sconto, ricarico e tutto [...]”. (IntMe5/325); insomma, in labora-
torio stavano vedendo la preventivazione, con il calcolo delle percentuali, in particolare,
anche se in laboratorio loro hanno il foglio elettronico e magari devono solo impostare la
formula (IntMe5/331). Impostano i valori, però poi devono controllarli con la formula
per il calcolo della percentuale, quindi, in teoria, loro lo sanno fare; [...] quando ho detto:
“Non hanno saputo fare questo esercizio, perché mi hanno detto che loro non sanno che
cosa sia”, (l’insegnante di laboratorio) mi ha detto: “Impossibile che non lo sappiano,
perché stiamo vedendo proprio queste cose!”; allora ho detto: “Cosa facciamo?”. “Il
prossimo compito lo facciamo insieme”. Allora io ho elaborato tutta una parte di un com-
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pito in cui loro dovevano sostanzialmente arrivare alla stesura di una sorta di preventivo
finale, facendo i calcoli sulle percentuali ecc. Abbiamo detto che questa parte del com-
pito [...] andava valutata in concomitanza tra me e l’insegnante di laboratorio e che il
voto sarebbe stato valido anche come voto di laboratorio. È stato il compito migliore che
hanno fatto (IntMe5/333); [...] l’hanno fatto praticamente tutti molto bene (IntMe5/335)
perché era una cosa che andava a portare una valutazione anche [...] nella “loro” materia
[...], il laboratorio elettro (IntMe5/337). [...] Ha inciso il fatto di sapere che questa cosa
[...] sarebbe andata a segnare anche il loro percorso di laboratorio, perché inevitabil-
mente loro sono molto [...] orientati all’attività pratica. Nel libro d’inglese, c’erano poi
delle semplici espressioni matematiche da risolvere, però era sostanzialmente un eser-
cizio di lettura: dovevano leggere la matematica in inglese e quindi avevano fatto delle
espressioni molto semplici (IntMe5/359); si trattava quindi di chiamare le parentesi con
il nome che hanno in inglese, le operazioni con il nome che hanno in inglese [...]
(IntMe5/361). L’insegnante di inglese ha fatto una spiegazione in cui ha chiamato qual-
cuno qui alla lavagna, ha detto come si dicono certi termini e ha detto: “Risolvimi questa
espressione, tenendo però conto che siamo durante l’ora d’inglese” (IntMe5/365)
“...quindi facendomela in inglese!” (IntMe5/367).
Il caso raccontato da P. (IntMe5) ci mostra un altro episodio di cooperazione
tra un docente di area teorica, P. stesso, e un docente di area pratica. I formatori,
dialogando tra loro, si accorgono che, mentre i ragazzi, in laboratorio, dimostra-
vano di comprendere e di saper operare con un determinato contenuto (il calcolo
delle percentuali), in aula, durante l’ora di matematica, sembrava faticassero al-
quanto a comprendere. Il fatto che i formatori notano ha probabilmente a che fare
con quanto rilevavamo sopra, riguardo alle differenze tra i processi di apprendi-
mento che si attivano nelle situazioni concrete e quelli astratti e decontestualizzati
che avvengono nelle situazioni dell’apprendimento formale. La scelta dei formatori
di proporre una verifica congiunta sembra aiutare gli allievi a cogliere la relazione
fra i diversi contesti di apprendimento e l’identità di certi oggetti di apprendimento
che avevano avvicinato nei diversi ambienti.
7.10. Curare la restituzione
Per aiutare gli allievi a cogliere la valutazione come parte del processo di ap-
prendimento, i formatori curano con attenzione la fase di restituzione dei risultati
conseguiti nella prova. Vediamo alcuni esempi a questo riguardo:
cerco di [...] riconsegnare sistematicamente il compito la lezione successiva [...], perché
il fatto di vedere subito quali sono gli errori che fanno, secondo me, aiuta; darglielo quin-
dici giorni, un mese dopo non serve a niente, perché uno non si ricorda più neanche
quello che ha fatto, figuriamoci se capisce dove ha sbagliato [...] (IntMi6/66);
la verifica [...] solitamente è un compito tradizionale, con sei o sette esercizi. La parte su
cui devono essere educati molto, oltre allo studio, è quella di analisi della loro verifica; la
lezione successiva al compito, faccio la correzione alla lavagna del compito, quindi ri-
prendo tutti gli esercizi e li svolgiamo insieme, uno ad uno (IntMe2/150); ...successiva-
mente consegno il compito senza il voto perché [...] il compito con il voto scritto tradi-
zionalmente, in alto a destra, in rosso, porta i ragazzi a un approccio assolutamente orien-
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tato alla media matematica (IntMe2/152): “Io ho preso 5” oppure “Io ho preso 6 e vuol
dire che ho sufficiente in tutte le materie!”; quello che succede nel compito non interessa
più; se invece io consegno i compiti con le correzioni in rosso (IntMe2/154), ma senza il
voto, allora posso lavorare sui contenuti (IntMe2/156); ...e quindi faccio venire [...] i ra-
gazzi uno alla volta alla cattedra e guardo con loro il compito; abbastanza velocemente
gli faccio notare gli errori più grossi e poi gli metto il voto nel libretto [...]; e loro, in at-
tesa di essere chiamati alla cattedra, hanno un momento in cui guardano cosa hanno sba-
gliato e cercano di capire gli errori; quando vengono alla cattedra, chiedo quali, secondo
loro, sono gli errori più importanti, per verificare se, al posto, hanno lavorato sul loro
compito e poi posso anche motivare il voto. Non è semplice, perché quando si lavora alla
cattedra con una persona, la classe è sempre un po’ difficile da gestire, però è interessante
perché c’è una critica a quello che è stato il lavoro, si comprende che è importante non
ripetere l’errore (IntMe2/158); ...rifacciamo insieme gli esercizi del compito e faccio no-
tare loro le difficoltà degli esercizi; la lezione successiva loro hanno la correzione del
compito scritta sul quaderno, perché loro ricopiano tutto; ci abbiamo ragionato insieme
quindi confrontano il loro compito con quella che è la correzione ragionata insieme; in
alcuni casi, come per i compiti per casa, lascio poi il testo del compito e lo faccio svol-
gere di nuovo a casa; poi è chiaro che là è sempre un problema il controllo, perché si sa
che tanti magari non lo rifanno ma lo ricopiano nel quaderno; però, dopo il compito e la
correzione, c’è l’occasione di fare qualche interrogazione; non riesco ad interrogare tutti
i ragazzi, perché non abbiamo il tempo [...], però approfittando magari di qualche voto
negativo, [...] li chiamo alla lavagna e spesso li richiamo sull’esercizio del compito, per
vedere se hanno lavorato bene, a casa o nella correzione (IntMe2/168).
La riflessione che segue la verifica (che prevede una pronta restituzione, possi-
bilmente già alla lezione successiva) diventa un momento importante per aiutare gli
allievi a sviluppare consapevolezza rispetto alla loro prestazione e ai possibili mi-
glioramenti. Per diminuire la focalizzazione spesso eccessiva che i ragazzi hanno
sul voto, A. consegna la verifica corretta ma senza l’indicazione del voto. Mentre
invita tutti a soffermarsi sulla propria verifica e in particolare sugli errori, cura una
restituzione individuale che consente di approfondire alcuni nodi, di motivare il
voto e di assegnare consegne specifiche di lavoro per migliorare eventualmente il
risultato.
8. COSTRUIRE UNA RELAZIONE SIGNIFICATIVA
La valenza cruciale della dimensione affettiva e relazionale è già più volte
emersa sopra – ed è naturale, dato che si tratta di una dimensione che pervade tutte
le azioni di insegnamento-apprendimento –, ma assume una rilevanza tale che ad
essa è bene dedicare un approfondimento specifico. È come se i nostri formatori
non si stancassero mai di ripetere che, per formare, c’è bisogno anche – e forse so-
prattutto – di affetto e comprensione, che si traducono anche nell’educazione alle
regole. E del resto l’esperienza ci insegna che la matematica, come le altre disci-
pline, assume agli occhi degli allievi il viso – amichevole o arcigno – del docente
che la insegna. Nei racconti dei formatori, cogliamo inoltre che l’attenzione alla
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leva della relazione, in aula ma anche in cortile, nella mensa e negli altri spazi
informali, è davvero diffusa. Possiamo forse dire che si tratta di una attenzione lar-
gamente trasversale, che appartiene alla cultura organizzativa dei CFP indagati, che
attingono alla tradizione salesiana in cui l’“amorevolezza” è un tratto davvero cen-
trale (Braido, 2006). La cura della relazione è parte dell’aria che gli allievi respi-
rano nei CFP salesiani e l’ambiente stesso sembra costruito in modo tale da ispirare
a comportarsi in un certo modo.
8.1. Valorizzare la leva della relazione
La leva della relazione rappresenta, secondo le parole dei nostri formatori,
“una marcia in più” per poter insegnare. Nel brano che segue, J. (FGMat1/22), un
formatore di origine albanese che insegna in un CFP di Torino, ci racconta le stra-
tegie che mette in atto per coltivare una relazione di qualità:
mano a mano che li conosci e loro ti conoscono – almeno a me è successo così –, se
riesci ad essere rispettato e voluto bene, rendono di più, perché ti vogliono bene e sanno
che tutto ciò che fai, lo fai per loro. Anche i piccoli gesti sono utili. Per esempio, [...]
ogni tanto, quando finisco di mangiare, la banana non la mangio e la porto ad un ragazzo
marocchino che abbiamo al CFP. La cosa fa molto effetto. Un marocchino che all’inizio
era una peste, dopo è diventato un agnello. Con quello ha funzionato, non funzionerà con
un altro, [...] come una classe non è un’altra [...]; una volta entrato in relazione con il ra-
gazzo, in modo che lui sia convinto che tu gli vuoi bene – questo vale specialmente con
gli stranieri [...] –, tu hai una marcia in più, per poter trasmettere loro qualcosa. Un ra-
gazzo marocchino – che è un ragazzo intelligente, ma è proprio una peste – mi ha con-
fessato: [...] “Professore, sinceramente io non capisco, te lo giuro!”. “Josef, dammi
retta”. “Ti do retta, professore, se vuoi, ma io non capisco!”, Siccome non capiva, si met-
teva a fare altre cose ed era un vero casino! Per poter trasmettere qualcosa, la mia diffi-
coltà maggiore è tenerli buoni, perché, avendo tante energie, loro si disperdono [...]. Un
ragazzo, che si chiama Pietro ogni tanto faceva delle cose che a me non quadravano e io
dicevo: “Pietro, tu non sei scemo e io non ti posso lasciar correre certi atteggiamenti!”.
“Ma prof, io mi annoio, queste cose le so già!”. “A maggior ragione, puoi dare una mano
a me o aiutare l’amico che ti sta vicino”. Ci sono tutte queste situazioni che rendono dif-
ficoltosa la resa dell’ora (FGMat1/22).
Una buona relazione nasce da un atteggiamento di fondo, fatto di rispetto e at-
tenzione che si traducono in considerazione delle differenze e concreta presa in ca-
rico dei problemi dei propri allievi. Il docente sa esprimere interesse autentico per i
suoi allievi, e non solo per la materia che insegna, sa esplorare vie diverse, consa-
pevole che non per tutti funziona la stessa modalità, sa avviare, nel dialogo educa-
tivo, processi di interpretazione dei comportamenti (“...siccome non capiva, si met-
teva a fare altre cose...”), che aiutino a comprendere quale sia l’esigenza profonda
che attraverso comportamenti magari disfunzionali il ragazzo esprime, sa indicare
possibilità di miglioramento, valorizzando le specificità, soprattutto non si arrende
di fronte alle difficoltà.
L’attenzione relazionale, come dicevamo, è diffusa e permea ogni momento
della relazione didattica:
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mi rendo conto che tutti i risultati che si ottengono [...] con i nostri ragazzi – che non
hanno scelto un percorso liceale, ma arrivano con determinati problemi di motivazione,
di approccio allo studio – [...] si ottengono perché c’è un aggancio alla persona e quindi
la parte più interessante dell’insegnamento, della didattica della matematica, ma penso
anche di tutte le altre materie, è l’approccio con la classe e, nello stesso tempo, l’ap-
proccio con il singolo ragazzo (IntMe2/14) [...]. Una cosa importante, ad esempio,
quando riesco, è ricordarmi quale difficoltà avevano avuto rispondendo ad una domanda
dell’interrogazione e tornare, nella lezione successiva, sulla persona che aveva manife-
stato quella difficoltà, facendogli notare che mi ricordo di che cosa gli avevo chiesto, che
mi ricordo che aveva sbagliato risposta; gli faccio di nuovo la stessa domanda, affinché
loro capiscano che c’è un atteggiamento di attenzione (IntMe2/142);
penso che la cosa fondamentale, più ancora del metodo, sia il tipo di rapporto che si
riesce ad avere con i ragazzi; [...] è difficile avere per tutti uguale attenzione, a volte
perché ci sono carenze nostre, a volte perché non è detto che il ragazzo si apra così facil-
mente; però quello che ho notato è che i riscontri maggiori [...] li ho avuti con persone
con le quali magari ero anche in conflitto, inizialmente; poi abbiamo trovato un tipo di
rapporto di fiducia ed è stato possibile fare capire loro che l’importante non è arrivare
semplicemente alla fine dell’anno, “...così non studio più, me ne frego, vado a lavorare e
guadagno” [...] (IntMi6/38).
A. (IntMe2) coglie la relazione stretta che si crea tra apprendimento e qualità
della relazione, tanto da affermare che la questione centrale della didattica di-
sciplinare è la capacità di agganciare relazionalmente sia il gruppo che i singoli.
L’esempio che A. riporta riguarda l’attenzione che è possibile esprimere ad un
allievo tornando su una difficoltà che l’allievo stesso aveva manifestato durante
un’interrogazione. La qualità della relazione è fatta anche di queste piccole cose.
R. (IntMi6) nota l’importanza di costruire un rapporto di fiducia reciproca, che
qualche volta passa anche da un conflitto ben gestito, per ottenere un coinvolgi-
mento più vivo nel percorso di formazione che, altrimenti, rischia di essere solo
subito.
Diversi formatori hanno imparato che, valorizzando i momenti informali, pos-
sono migliorare la qualità della relazione:
ci sono dinamiche che nascono se, in cortile, con loro fai una partita a calcetto, se fai una
partita a basket, se fai la battuta o chiedi loro come è andata; viene fuori tutta una parte
della loro vita che in altri momenti non emerge (IntMe6/200); poi i ragazzi, secondo me,
hanno un grosso vantaggio – e questo loro lo vedono alla fine – [...]: si sentono in
qualche maniera seguiti, partecipi, sentono che tu vuoi loro bene, a prescindere da quello
che stanno combinando (IntMe6/202);
il mio modo di essere mi porta spesso ad essere in mezzo a loro anche in ricreazione:
“Vieni prof, che diamo due calci al pallone”; il “vieni” è un “tu”, però il “prof” che lo
segue indica che c’è un rispetto e, in ricreazione, il “vieni prof” ci sta tranquillamente
[...] (FGMat4/92).
Negli spazi informali, come suggerisce la tradizione salesiana, si attivano
dinamiche che non fanno venir meno l’asimmetria e il rispetto, ma che contribui-
scono alla costruzione di una relazione più calda. Insomma, i nostri formatori sem-
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brano sperimentare che l’affetto – più di ogni regola o costrizione – ha il potere di
liberare le potenzialità positive degli allievi. La costrizione rischia di distruggere
ciò che solo la pazienza e l’affetto riescono ad ottenere. Del resto, nemmeno
l’erba, tirandola, cresce più in fretta!
8.2. Il buongiorno
Spesso la cura relazionale dell’avvio è “istituzionalizzata”, dato che, nelle
realtà scolastiche salesiane, è diffusa la pratica del “buongiorno”. Questo momento
di saluto iniziale in certi casi avviene in una numerosa assemblea, in altri a livello
di singolo gruppo classe e viene gestito dal docente che ha la prima ora. In questo
caso, il “buongiorno” svolge la funzione di preparare il clima che consente di lavo-
rare bene insieme:
tutti i giorni, a scuola facciamo il buongiorno e regolarmente, ogni venerdì, [...] io ho il
mio buongiorno da animare [...]. Sono abbastanza attento – per lo meno, questo è quello
che i ragazzi mi riportano – alle loro richieste [...]; anche alcuni colleghi hanno notato
che i miei buongiorno sono apprezzati in modo particolare, forse perché uso spesso il
videoproiettore con la presentazione in power point, con musica ed immagini che più o
meno attirano un po’ di più l’attenzione [...]. (FGMat4/90). [...] Abbiamo quattro classi di
venti ragazzi circa ciascuna e un’aula grande, dove c’è lo spazio per radunarli tutti; in
quest’aula, la mattina li raduniamo, chi è di turno fa il buongiorno, dopo di che i ragazzi
attraversano il corridoio e ciascuno si reca nella propria classe [...] (FGMat4/92);
[...] ogni mattina ho un incontro con i ragazzi che dura un quarto d’ora, dieci minuti, che
tiene anche in considerazione interventi esterni, che vanno da quelli con aziende a quelli
con le forze dell’ordine o con altre strutture esterne al Centro, tipo l’“Informa giovani” o
il “Centro per l’impiego”. Questo lavoro che porto avanti tutto l’anno la mattina, prima
di iniziare le lezioni, [...] dà una certa autorevolezza a quello che uno dice e fa [...]; loro
si rendono conto che non è una cosa teorica ma è anche una cosa pratica. [...] Se un
ragazzo si comporta male, cerchi di correggerlo; ma, se ci sono delle situazioni che non
vanno, la coerenza tra quello che dici e quello che fai trasmette più delle parole, e, se
questo non passa la prima volta e non passa la seconda, la terza volta viene percepito;
nella maggior parte dei casi [...], questo modo di interagire con i ragazzi crea un’affetti-
vità positiva che ti dà la possibilità di comunicare con loro e questa è una cosa che io
sento molto all’interno del mio lavoro (FGMat4/79).
Il “buongiorno” è un momento di avvio (i primi 10 minuti della giornata), in
cui salutarsi, scambiarsi comunicazioni e informazioni o affrontare qualche tema-
tica trasversale, che ha a che fare con problemi di vita degli allievi. Generalmente, i
formatori che animano questa introduzione alla giornata formativa si sentono solle-
citati, anche a livello personale, a dare carica testimoniale a ciò che dicono. Anche
attraverso questo spazio, è possibile creare un certo tipo di relazione.
8.3. Costruire un patto
Alcuni formatori trovano utile dedicare del tempo, soprattutto all’inizio del
primo anno, per dare al gruppo classe delle linee guida per comprendere che tipo di
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comportamento sia accettabile o meno in quell’ambiente. Si tratta di costruire una
sorta di patto, che non necessariamente deve essere scritto:
io baso il rapporto all’interno dell’aula su [...] due precisazioni che per me sono veramente
imprescindibili: la fiducia reciproca e la condivisone delle regole e degli obiettivi. Se, per
i ragazzi del secondo e terzo anno, normalmente la fiducia reciproca esiste, perché dietro
c’è il lavoro di almeno un anno, per gli allievi del primo anno, la fiducia diventa una cosa
che si deve conquistare [...] tramite l’esempio. Cioè nel momento che si stabiliscono delle
regole comuni, queste devono valere per tutti, in maniera veramente indistinta, cioè l’al-
lievo deve sapere che lui le osserva come le osserva l’insegnante, che non esistono allievi
preferiti o allievi che vengano dispensati. Invece la credibilità si ottiene solo parlando con
gli allievi e dando testimonianza di quello che si dice loro. Una cosa può essere gradevole
o sgradevole, ma è motivata e i motivi vengono spiegati loro. Quindi ci possono essere
delle regole che possono sembrare impopolari, non condivise, ma si deve portare l’allievo,
se non a condividerle, a considerarle un male minore, almeno per il fatto che si è in un
gruppo, in cui la libertà personale è limitata dal vincolo di non limitare la libertà degli
altri. Quindi, creare un ambiente armonico, all’interno della classe, è un presupposto per
poter lavorare bene insieme. La seconda cosa è fare il possibile perché non ci siano degli
esclusi in classe; ognuno si deve sentire bene, nel momento in cui fa lezione; la lezione
non deve essere un momento d’ansia, [...] di tensione o, cosa peggiore, [...] un’occasione
affinché qualcuno possa prendere “in giro” [...] uno degli allievi. Queste sono le basi per
riuscire a creare un clima costruttivo. Queste cose bisogna poi mantenerle nel tempo,
perché questo rapporto può essere molto solido ma anche molto fragile; [...] una sola in-
terruzione o una rottura di questo patto – nel mio caso non scritto – [...], può far perdere
tutto il lavoro che si era costruito con fatica in un anno (FGMat4/129).
M. (FGMat4/129) assegna particolare importanza alla costruzione di un clima
di mutua fiducia e di reciproco rispetto, che vengono alimentati dal dialogo e da
una testimonianza credibile. Il fatto di essere in gruppo determina la necessità di
darsi delle regole. Le regole però, che siano individuate insieme agli allievi o of-
ferte e motivate dal docente, vanno rispettate e fatte rispettare nel tempo. La qualità
del clima è infatti un elemento essenziale, ma fragile, che può essere compromesso
soprattutto da un comportamento poco credibile o poco autorevole da parte del
docente. E il comportamento del docente (ad esempio, l’accuratezza con cui si
prepara, la sua puntualità, la sensibilità con la quale interagisce con tutti gli allievi,
la sua integrità personale, la sua disponibilità ad aiutare e a venire incontro agli
allievi) è, a questo riguardo, molto più eloquente di qualsiasi parola.
8.4. Far toccare con mano le regole (non solo quelle matematiche)
Le regole, che non si possono solo enunciare, ma vanno fatte “toccare con
mano”, risultano particolarmente importanti nella creazione di un clima positivo
nel gruppo e in generale nell’ambiente del CFP:
[...] i ragazzi non sono abituati alle regole, i nostri ragazzi soprattutto (IntMe2/28) e far-
gliele toccare con mano è una cosa molto bella; fargliele toccare con mano significa essere
precisi in quelle tre o quattro regole, nello svolgere gli esercizi, nel portare il materiale,
nell’essere corretti in classe, nell’attenzione, nell’alzare la mano [...]; la cosa interessante
non è tanto spiegare e motivare le tue scelte, nelle prime lezioni, quanto fargliele vivere
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[...], cioè far loro toccare con mano che sono regole familiari; io loro faccio capire che, nel
momento in cui tu disturbi o non fai l’esercizio, io mi arrabbio o ti riprendo in maniera
ferma, perché dobbiamo raggiungere insieme un obiettivo e quello che tu stai facendo non
aiuta a raggiungere l’obiettivo. Penso che qua si inneschi molto un modo di fare di
ognuno di noi insegnanti, ognuno con le proprie peculiarità, per far toccare con mano a
questi ragazzi che anche la sfuriata, la nota ecc. non pregiudicano il rapporto personale,
anzi lo possono rafforzare! (IntMe2/30). In cortile, ritorno sul tema, magari con un sor-
riso, spiegando che le cose sono serene lo stesso, però il giorno dopo controllo, per vedere
se la cosa l’ha capita; quando si innesca un circolo virtuoso tale che i ragazzi stessi ve-
dono che, anche se la persona ha giocato a pallacanestro con te in cortile, poi in classe ti
controlla il quaderno e ti sgrida, se non hai fatto il tuo dovere, ecco allora i ragazzi toc-
cano con mano le regole (IntMe2/32). [...]. Si parte dal cercare di assodare le regole; [...]
per me significa essere molto preciso nell’affermare le regole e nel controllo; poi è anche
bello riuscire ad avere una certa flessibilità. [...] Ad esempio, all’inizio diamo dai tre ai
cinque esercizi per casa; loro sanno che devono farli una prima volta; se il risultato è sba-
gliato, devono ripetere un’altra volta l’esercizio e io devo vedere l’esercizio ripetuto; dopo
la seconda volta, possono chiedere una spiegazione nella correzione, durante la lezione
successiva; io però, per dieci minuti [...], devo passare in mezzo ai banchi, controllare i
quaderni, verificare che tutti abbiano fatto il lavoro (IntMe2/82). All’inizio della lezione,
sanno che devono farsi trovare con il quaderno aperto; io passo per i banchi e segno le
persone che non hanno fatto bene il lavoro; la seconda volta che succede, do una comuni-
cazione a casa, la classica nota, e questo, ad esempio, è per affermare bene all’inizio del-
l’anno, una regola, per dire: “Io ti ho dato una regola...” (IntMe2/84). Anche per quanto ri-
guarda la parte di teoria [...], quando all’inizio facciamo il ripasso, avviso che, a salti, farò
delle domande, per verificare se conoscono quelle poche cose che facciamo e [...] loro
sanno che, se si fanno trovare impreparati, qualche piccolo provvedimento lo prendo,
anche semplicemente far loro riscrivere la regola sul quaderno, cose queste che sono asso-
lutamente inutili per acquisire i contenuti in sé, ma che servono per dire: “Guarda che c’è
un metodo e, se noi osserviamo quelle [...] quattro regole ben precise – fare i compiti, stu-
diare bene quelle due righe, alzare la mano in classe per parlare ecc. –, allora le cose fun-
zionano bene”. Devo dire che in questa maniera il clima della classe è più sereno
(IntMe2/88), più ordinato, più simpatico anche; c’è la possibilità di fare anche una battuta;
anzi, mi diverto con loro in classe e loro lo capiscono (IntMe2/90);
il primo anno, proprio per cercare di dare un’impostazione alla classe, [...] tendo ad avere
un atteggiamento un po’ frontale, cioè più “scolastico”, proprio perché [...], secondo me,
[...] i ragazzi hanno bisogno di imparare un certo modo di stare in classe, che passa dalla
disciplina, dall’atteggiamento di rispetto [...] nei confronti del formatore ma anche dei loro
compagni, perché si devono conoscere, devono anche capire [...] che magari ci sono delle
differenze di apprendimento, di ascolto, che uno magari capisce un argomento in una le-
zione, quell’altro la lezione dopo me lo richiede e me lo chiede di nuovo dopo un mese
(IntMi3/43) [...]. Un po’ per dare forza alla materia, un po’ per dare a loro [...] delle sicu-
rezze maggiori, è bene che loro abbiano [...] uno schema preciso, una didattica che passi
attraverso dei punti fermi [...] (IntMi3/55). [...] Uno dei primi discorsi che deve passare è
quello del rispetto, perché comunque, anche al CFP, tu stai facendo scuola e sei a scuola.
Quindi, se stai in classe nelle mie ore, sai che non usi il cellulare, [...] non hai la “cicca” in
bocca, [...] non stai seduto come se fossi allo stadio o al pub, stai attento. Non è così scon-
tato che abbiano il materiale, anche solo la penna, il quaderno [...]. In prima, ad esempio,
una cosa che faccio – che è molto da elementari o da medie – è il controllo periodico del
quaderno, non tanto per vedere che ci sia l’esercizio, quello sì, ma anche perché ci sia un
certo ordine in quello che fanno, nel susseguirsi degli argomenti [...] (IntMi3/59);
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quando entro in classe, il primo giorno di lezione, “perdo”, tra virgolette, un’ora per dare
delle regole. A quelle mi attengo rigorosamente io e pretendo che lo facciano anche loro.
Sono regole sulla puntualità, sul rispetto, sul fatto di fare i compiti, sul fatto di portare le
firme [...], sulle cicche – [...] alcuni consentono di masticare una cicca in classe, io no;
anch’io mastico cicche, però quando entro in classe la butto immediatamente – [...]. Nel
momento in cui vedono che hai dato delle regole e sei il primo a rispettarle, poi lo fanno
anche loro (IntMi6/66); [...] se uno fa lezione nel caos, non riesce a seguire nessuno e
non riesce a dare nulla né a quelli bravi, né a quelli in difficoltà. Io pretendo che durante
la lezione ci sia silenzio e che, quando si parla, si parli uno alla volta; se parlano loro, io
per primo sto zitto e li ascolto; loro devono fare lo stesso [...] (IntMi6/70);
a livello disciplinare, per ottenere l’attenzione della classe, secondo me, sono fondamen-
tali le prime ore di lezione [...]. Io le strutturo in questo modo: prima di tutto una breve
presentazione mia e dei ragazzi e poi, prima di iniziare qualsiasi attività legata alla mate-
matica, stipuliamo dieci regole, che io ho comunque già scritto, ma che possiamo cam-
biare, parlando insieme ai ragazzi. Ogni regola la scriviamo, [...] la negoziamo, la cam-
biamo. Io spiego perché deve essere così e perché non deve essere cosà, e spiego che
queste regole devono valere sia per me, sia per loro. Ad esempio: “Non si usa il cellulare
in classe”: spiego che anche il mio [...] cellulare è spento o è silenzioso in tasca. Un’altra
regola – sono tutte regole di buon senso – è “Per parlare, si alza la mano”, semplice-
mente perché, essendo classi da trenta, diversamente ci sarebbe un macello spaventoso.
Quando un po’ tutti hanno accettato queste regole, io le faccio loro firmare: è come un
contratto che firmano loro e poi firmo anch’io. A questo sono dedicate le prime due ore
di lezione. Ho visto che, se uno riesce a stabilire all’inizio delle regole [...], che valgono
per loro, ma anche per me insegnante, si instaura subito o si inizia a creare da subito un
clima di fiducia (FGMat4/128).
A. (IntMe2), riguardo alle regole, sottolinea alcuni aspetti che, nella sua espe-
rienza, si sono rivelati importanti: innanzitutto, regole e relative sanzioni non vanno
inflazionate; si tratta di stabilire quelle poche regole che si ritengono essenziali – e
che si riesce a far mantenere –; nel caso citato queste riguardano la tenuta dei mate-
riali, lo svolgimento delle consegne, le modalità di interazione in classe (il rispetto
dei compagni, l’alzata di mano ecc.). In secondo luogo, il nostro formatore cerca di
far cogliere ai suoi allievi l’effetto che la loro azione potrebbe avere sugli altri e
interviene in modo fermo ma motivato ogni qual volta una regola viene infranta. In
terzo luogo, A. è consapevole che, per quanto non esistano “regole” generali per
trattare con le regole e che la sensibilità di ciascun insegnante giochi un ruolo im-
portante, un eventuale intervento correttivo – sia questo il rimprovero o la nota a
casa – non va a pregiudicare la qualità del rapporto e anzi può rafforzarlo; è come
dire che la cura educativa passa anche per il mantenimento delle regole. In quarto
luogo, all’inizio, è opportuna una certa fermezza, più avanti ci si può concedere una
certa flessibilità. Gli esempi che A. riporta sono particolarmente indicativi. Il fatto
che nei momenti informali, in cortile e nel gioco, si crei un certo tipo di rapporto tra
insegnanti e allievi non significa che poi, in classe, il docente smetta di esigere il ri-
spetto delle regole. Il controllo dei compiti assegnati per casa (verificando che l’e-
sercizio, nel caso in cui non si sia arrivati alla soluzione corretta, sia svolto almeno
due volte) o la verifica dell’acquisizione di semplici contenuti teorici sono pratiche
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costanti; l’eventuale provvedimento punitivo che il docente assume non serve a far
apprendere meglio un determinato contenuto – il docente lo sa – ma ad apprendere
l’importanza di attenersi al metodo e alle regole indicate. Il mantenimento dell’e-
quilibrio è delicato, ma le regole danno – a ragazzi generalmente poco scolarizzati –
quella struttura o impostazione che consente di lavorare con serenità. Anche C.
(IntMi3) e R. (IntMi6) ritengono che sia importante assumere, almeno all’inizio
dell’anno, con una nuova classe, un atteggiamento po’ più fermo e direttivo. Spesso,
i ragazzi scelgono il CFP perché, secondo loro, non sarebbe una “scuola”; qui com-
prendono che, perché possa avvenire formazione, anche al CFP, sono necessari certi
atteggiamenti che generalmente sono richiesti in un ambiente formativo: il rispetto
di sé e degli altri, un certo decoro (per questo non si usa il cellulare in classe, non si
masticano le gomme, si rispetta il proprio turno per parlare ecc.), un certo impegno
(nella tenuta ordinata dei materiali e del quaderno ecc.). Il controllo e l’intervento
correttivo non sono certamente le uniche strategie a cui i nostri formatori ricorrono,
ma sono strategie importanti, specie all’inizio del percorso formativo, perché sia
possibile lavorare bene insieme. Se il tempo che si passa in aula non è produttivo,
nessuno può sentirsi davvero contento. A. (FGMat4/128), del CFP di Fossano, ha
trovato utile stabilire con i suoi allievi delle regole – anche qui, essenziali –, proprio
nelle primissime ore di lezione, dopo una breve reciproca presentazione; si tratta di
una sorta di decalogo che il formatore ha già in mente ma che è disponibile a nego-
ziare con i propri allievi e che poi fa loro sottoscrivere. Decisivo, come nei casi pre-
cedenti, è che le regole valgano per tutti, formatore compreso.
8.5. Definire il proprio ruolo
I formatori giovani, alle prime esperienze di insegnamento, sono tentati di as-
sumere in classe un atteggiamento amicale, di farsi “ben volere” dai propri alunni e
di distinguersi dagli insegnanti “di vecchio stampo”. Ben presto si accorgono di
avere grosse difficoltà nel gestire la classe e che, a quel punto, tentare di imporre
uno stile differente diventa alquanto arduo. Da questo punto di vista, è esemplare
l’esperienza di MS (FGMat4/28-77):
[...] l’anno scorso, quando sono entrata, ho dovuto ricostruire il ruolo, nel senso che l’in-
segnante che era uscita era davvero dittatoriale: “Si fa così e chiuso!”. Sono arrivata io e
loro già mi conoscevano e quindi ho dovuto ricostruire il ruolo [...] (FGMat4/28). [...]
Sono arrivata come insegnante in questa classe dopo essere stata tutor dello stage. Mi
sono ritrovata con ragazzotti di diciotto, vent’anni, dal linguaggio molto schietto. Ho par-
lato con la mia direttrice sulle posizioni del corpo da tenere, dato che io ero molto ami-
chevole, forse troppo amichevole, mentre bisogna tenere una certa distanza; è una cosa
che in teoria sapevo già, solo che poi farlo in pratica è un’altra faccenda. Tenevo un rap-
porto amichevole ma alle volte drastico. Dovevo trovare un equilibrio tra questi due
modi [...]. Si trattava di lavorare sulla posizione del corpo, sul modo di fare, insomma, su
come si entra in aula, sul fatto che non mi chiamassero più per nome, che tornassero al
“lei” [...] e poi di fare tutto un lavoro su di me, riguardo al fatto di essere un’insegnante,
con un ruolo diverso (FGMat4/30). Ho chiesto indicazioni alla mia direttrice, perché mi
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sono trovata in difficoltà in quella classe. Era nato con gli allievi un rapporto molto ami-
cale, che va benissimo in cortile; invece, quando entri in aula, soprattutto con i maschi, il
ruolo deve essere ben distinto, perché altrimenti loro non hanno freni [...] Hanno fiducia.
Mi dicono: “Lei spiega bene!”, però dicono anche: “Ma dai, un voto in più, dai, su, lo so
che ti sono simpatico. Sei la più brava di tutte!”. Cercano un po’ di raggirarti. Allora
serve, in alcuni momenti, un atteggiamento più distaccato. In aula sei l’insegnante. La
battuta che in certe classi puoi fare, perché sai che poi finisce lì, in altre classi non puoi
farla. [...] In prima, posso fare tutte le battute che voglio, mi riprendo, si riparte, anzi la
battuta serve proprio a rompere un po’ la tensione. Però, in quella classe, non potevo per-
mettermi battute, dovevo essere un po’ più..., come dire, “contro la mia natura” ed en-
trare nel ruolo di docente [...] (FGMat4/66); [...] posso girare per l’aula, però il meno
possibile, per tenere proprio un certo distacco fisico. Devo tenere la posizione alla cat-
tedra, almeno per un periodo. Adesso [...], dopo aver riconquistato il ruolo di insegnante
a tutti gli effetti, posso andare davanti, sedermi sulla cattedra, fare battute: mi siedo al
posto dell’allievo, scrivo i compiti, adesso posso farlo; ma in quel periodo sono stata,
come dire, costretta ad essere un po’ statica, ad aspettare in silenzio [...], a stare seduta,
ferma, ad essere molto “insegnante vecchio stile”! Come quelle che si mettono lì: “Io vi
spiego, voi seguite” (FGMat4/68). [...] Loro partivano sempre dal discorso amicale: “Ma
prof, è arrabbiata? Cosa è successo?”, [...] dopo di che [...] il rapporto si è recuperato
(FGMat4/70). Tenevo la distanza, non rispondevo a certe battute; spesso ho notato che
fare certe battute con loro serve a tagliare l’aria! (FGMat4/72). Veramente a volte c’è
ancora il “tu”, ma è un “tu” rispettoso, che tiene conto della persona, non un “tu” che va
oltre i limiti. Molti ragazzi danno del “lei” e ci sono alcuni che addirittura danno del
“voi”, soprattutto quelli che vengono da Napoli [...]. Ci sono anche, ma questa non è la
regola, [...] quelli che nonostante il “noi, voi, lei, tu, loro”, vanno oltre i limiti [...], però,
nella media, il “tu”, quando c’è, è molto rispettoso (FGMat4/77).
La nostra formatrice ha imparato sulla propria pelle che, all’inizio, è meglio
mantenere una certa distanza, marcare l’asimmetria, per poter poi in seguito assu-
mere un atteggiamento più cordiale e rilassato. Del resto, con i ragazzi di una delle
classi nelle quali incomincia ad insegnare, MS. aveva avuto già un’esperienza
come tutor. Si trattava ora di riconquistare il proprio ruolo di insegnante. Il rac-
conto è molto indicativo e spiega bene alcune tipiche dinamiche: il fatto che certe
cose si sanno in teoria ma si apprendono veramente solo passandoci dentro e fa-
cendo esperienza; la difficoltà di trovare un equilibrio tra stile amicale e stile auto-
ritario; il lavoro che è necessario fare innanzitutto su di sé ecc. A MS è andata bene.
La nostra formatrice, confrontandosi con la direttrice del Centro e lavorando poi
sulla sua postura e sui suoi atteggiamenti in classe, è riuscita a recuperare una si-
tuazione che rischiava altrimenti di sfuggirle di mano.
Il ruolo del formatore è definito anche da come i ragazzi si rivolgono a lui. Le
esperienze sono diverse, a seconda dei contesti:
mi faccio dare del “lei”, per il discorso della distanza; [...] è un po’ la scelta di tutto
l’Ente: al professore, in aula, si dà del “lei”. Dopo, quando si va a giocare a pallavolo in-
sieme, si scherza, si gioca, si fa di tutto, però si sta sul “lei”. In classe, [...] a loro scappa
il dialetto, scappa il “tu”, scappa tutto; si cerca comunque di mantenere il “lei” al profes-
sore. All’inizio anch’io do del “lei”, poi però sembra che li prenda in giro e allora passo
al “tu” (FGMat4/87);
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noi come Centro abbiamo dato l’indicazione che gli allievi dovrebbero usare il “lei” e
generalmente viene usato. A volte, soprattutto con gli insegnanti di laboratorio, dove c’è
un rapporto molto continuativo e soprattutto di affiancamento proprio nel lavoro pratico,
ci può essere anche il “tu” [...]. In aula succede a volte a me che l’allievo mi dia del “tu”,
io normalmente non faccio rilevare la cosa, a volte l’allievo stesso inizia la frase con il
“tu” poi mi dice “mi scusi!” e riparte dandomi del “lei” [...]. Normalmente, l’insegnante
non pone il problema del “tu” o del “lei”, ma del tono e delle parole che vengono usate.
C’è poi da dire che all’interno del mio Centro copro un ruolo che normalmente invita
molto gli allievi a dare il “lei”, proprio perché, quando ci sono dei problemi disciplinari,
vengono da me. Nei loro confronti, io uso normalmente il “tu” e – non so il perché –
chiamo i ragazzi per cognome e le ragazze per nome [...] (FGMat4/97);
con i primi anni, cerchiamo di essere un po’ più “inquadrati”: il “lei”, il rigore... Con i
secondi e i terzi anni, invece, [...] cerco di essere più amichevole, intanto facendo l’ap-
pello per nome e cognome, dicendo prima il nome e poi il cognome, per evitare pro-
blemi di omonimia [...]. Cerco di chiamarli sempre per nome, tranne quando li devo rim-
proverare. Allora li chiamo per cognome, e loro capiscono che lì sono serio. [...] Durante
la ricreazione o una partita a calcio o anche quando ci incontriamo fuori, per strada, loro
mi chiamano “professore”, mi danno del “lei”; è inutile, è più forte di loro! A qualcuno
del terzo anno che ormai sta per uscire, ho proprio detto esplicitamente: “Quando ci in-
contriamo fuori, io sono G. (pronuncia il suo nome)!”. Mi rispondono: “No, professò...”.
C’è questa forma di rispetto radicata, in cui il “lei” è quasi obbligatorio e non sgarrano
(FGMat4/105).
Al di là del pronome che utilizzano i docenti o i ragazzi, l’importante per tutti
è che si crei un rapporto di rispetto reciproco e che venga riconosciuto il ruolo del
formatore. È interessante notare che talvolta con il docente di laboratorio i ragazzi
costruiscono un rapporto di maggiore familiarità che magari si esprime nell’uso del
“tu”, ma che non fa per questo venir meno il rispetto.
8.6. Costruire situazioni di incontro a tu per tu: la talking-card
Nel CFP di Mestre, i formatori hanno escogitato la “talking card”, che consente
di usufruire di uno spazio di colloquio a tu per tu, anche durante l’orario scolastico:
noi abbiamo [...] quella che chiamiamo “talking card” (IntMe6/204): [...] l’insegnante
può chiamarti perché vuole parlare con te della situazione scolastica [...] – tutti i nostri
ragazzi hanno un trascorso alle spalle che è incredibile –, oppure può essere il ragazzo
che vuol venire a parlare con te, o perché ti deve dire il momento che sta vivendo o
perché ha casini e non riesce a venire fuori da alcune materie [...] (IntMe6/208); è come
una scheda dove c’è scritto – adesso non mi ricordo perfettamente – [...] il nome dell’al-
lievo, il nome dell’insegnante con cui l’allievo vuole fare il colloquio e quello dell’inse-
gnante dell’ora in corso; l’insegnante dell’ora in corso firma, il ragazzo, ad esempio,
viene su da me, fa il colloquio e io metto l’ora di fine colloquio e la firma; poi il ra-
gazzo torna in aula (IntMe6/212) [...]. Immagina di [...] andare a parlare con qualche
insegnante da cui ti aspetti di essere accolto; ad un certo momento, l’insegnante comin-
cia a guardare l’orologio e dice: “Dovrei andare” (IntMe6/224). Io non l’ho mai fatto
perché, se una persona ti viene a parlare, devi un po’ mollare quello che stai facendo
(IntMe6/226); già con gli adulti sbagliamo un sacco di volte, figurati con i ragazzi
(IntMe6/228);
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qui, in realtà, abbiamo tante occasioni per incontrarci (IntMe5/25), anche al di fuori della
lezione, [...] in momenti di intervallo, di ricreazione, nella pausa pranzo ecc.; [...] i ragazzi
hanno delle occasioni da sfruttare, le “talking-card”, per parlare con un insegnante [...]
(IntMe5/27), [...] anche durante le ore di lezione; non tutti hanno ben capito in prima che
possono utilizzare questi strumenti anche per [...] farsi spiegare meglio un argomento,
chiedere una delucidazione, magari prima del compito. Io ho sempre caldeggiato questa
possibilità (IntMe5/29) [...] perché immagino che, per loro, soprattutto in prima, sia diffi-
cile dire:“Mi espongo e dico di fronte alla classe che non ho capito una cosa” (IntMe5/35);
lo spirito della talking card non sarebbe di venire a chiedere all’insegnante delucidazioni
sulla materia; si tratta più che altro di un modo che l’allievo ha per contattare un inse-
gnante [...], per avvicinarlo, per parlargli di vari problemi, perché magari in questo
periodo non è particolarmente concentrato sulla materia [...] (FGMat4/108); [...] si può
utilizzare la talking card per approcciare un insegnante di cui magari ti fidi in maniera
particolare, per poter parlare di diverse problematiche, anche esterne alla scuola, e co-
munque per poter fare una chiacchierata informale (FGMat4/110). [...] Mi è capitato che
qualcuno della classe che coordino [...] sia venuto a chiedermi qualcosa che non aveva
capito ed io ne ho approfittato per chiedergli anche un attimo come andava a casa, perché
sapevo che aveva dei problemi e lo vedevo un po’ distratto [...] (FGMat4/114). [...] Credo
sia utile per loro avere anche questa possibilità di confronto con una persona adulta. Se-
condo me, è una cosa che si nota quando poi vanno fuori, allo stage, perché le aziende
che accolgono i nostri ragazzi mediamente sono molto soddisfatte dei contatti che hanno
con loro, perché proprio sanno interagire con le persone; rapportarsi con gli insegnanti,
sia durante le ore, sia durante l’intervallo, nelle pause pranzo, è una cosa che li aiuta a
crescere in questo (FGMat4/116). Vedo che i ragazzi, dopo un po’ di difficoltà iniziale,
riescono a capire che questo è uno strumento che possono utilizzare anche loro; non deve
essere solo l’insegnante a chiamarli perché vuole parlare dell’andamento [...]. Il nostro
ruolo deve essere soprattutto quello di ascoltarli (FGMat4/118).
Concentrare il dialogo solo nei momenti informali può essere limitante.
Qualche volta è opportuno parlare con un allievo a tu per tu, in uno spazio neutrale,
con un tempo disteso. La richiesta può riguardare l’andamento generale o uno spe-
cifico problema, posto dall’allievo stesso o dal docente. Nel colloquio, è possibile
che avvenga un ascolto delle reciproche prospettive e che si possano individuare
piste di miglioramento. Potersi confrontare con adulti significativi aiuta gli allievi a
sviluppare competenze relazionali utili anche in contesto lavorativo.
8.7. Aiutare i propri allievi a dar corpo alle loro idee
Fa parte della cura relazionale anche l’aiuto concreto a dar corpo alle idee e ai
progetti che nascono direttamente dagli allievi:
il bello è stare insieme con i ragazzi, cioè fare qualcosa con loro, che sia sport, che sia
un’attività, preparare un cartellone per una manifestazione o [...] preparare volantini ecc.;
il bello è lavorare con loro, cioè far emergere da loro la parte più creativa, fare da stimolo
ma anche da braccio; cioè, loro hanno delle idee ma, in genere, i ragazzi fanno fatica a
concretizzarle. Allora fare emergere da loro le idee e dire: “Ok, ti do le braccia, la por-
tiamo avanti insieme!”; cioè non è che tu hai un’idea e io la realizzo; ti do una mano con-
cretamente a farlo, insomma (IntVr6/82); e [...] ogni idea è una responsabilità, per cui poi
facciamo una verifica se l’idea è stata portata avanti bene, realizzata ecc... (IntVr6/84).
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Nell’esempio riportato sopra, il docente offre agli allievi un supporto concreto
orientato a far sì che essi stessi si assumano la responsabilità di portare avanti le
loro idee e i loro progetti.
8.8. Coltivare e comunicare passione
Sulla qualità della relazione incide fortemente anche la capacità del docente di
comunicare – e dunque di coltivare e alimentare continuamente – passione per
quello che fa, per la disciplina che insegna e per il proprio lavoro:
una cosa secondo me è fondamentale: loro percepiscono se tu fai questo lavoro solo
perché devi prendere il tuo stipendio a fine mese [...], oppure se lo fai perché hai la pas-
sione di farlo; loro ti studiano; [...] una mi aveva detto: “Ma lei a casa non ha altro a cui
pensare?”; le ho risposto: “No, veramente me le sogno di notte!” (ride), perché mi piace;
in realtà, loro vedono se un insegnante è lì, spiega e non vede che finisca l’ora, oppure se
è lì perché ha voglia di comunicare questi quattro concetti di matematica, che poi alla
fine non sono questa gran cosa. Loro ti seguono perché sentono che si sentono valorizzati
come persone e perché hai passione per quello che fai (IntVr3/260);
per me è sempre appassionante – non so se si coglie dal trasporto con cui parlo
(IntMe3/446) – raccontare quello che succede qui dentro, come noi ci scervelliamo a
volte per far comprendere una materia, un argomento. Credo che, parlando del nostro
lavoro, le sensazioni che si provano siano quelle di chi è fiero di fare il percorso che sta
facendo, di non essersi adattato ad uno stato di cose, ad un sistema nel quale si ci inse-
risce e poi si viene trasportati, ma di chi fa fatica, personalmente, per aiutare i ragazzi a
farne di meno, ma non, come dire, semplificandogli la vita (IntMe3/448); meno fatica nel
senso di essere motivati a venire in classe, ad accettare la materia – le materie scienti-
fiche, si sa, sono tra le meno amate [...] –; sono fiera di poter fare questo tipo di lavoro,
all’interno di questa realtà (IntMe3/450); [...] a me piace molto pensare che, se Don
Bosco fosse qui oggi, insegnerebbe anche lui in un CFP (IntMe3/506).
I ragazzi guardano attentamente i comportamenti degli adulti, il loro modo
di relazionarsi, l’energia e la passione che mettono nel loro lavoro e tutto questo
lascia tracce indelebili. Nelle parole dei formatori, nello stesso modo in cui raccon-
tano la loro esperienza, traspare tanto di quella passione educativa che Don Bosco
stesso aveva a suo tempo espresso e, attraverso di loro, continua ad esprimere
ancora oggi.
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4. CONCLUSIONE
Il percorso di ricerca presentato sopra ha consentito di mettere in parola la
ricca pratica di tanti formatori di area matematica o scientifico-tecnologica dei CFP
della Federazione CNOS-FAP. Se ne è proposta una lettura pedagogico-didattica,
attenta a mettere a fuoco la complessità del vivo dell’azione di insegnamento, che
tiene assieme tutte le varie dimensioni (l’attenzione ai soggetti e agli oggetti di ap-
prendimento, la cura relazionale, l’impegno etico che ogni educazione comporta
ecc.), che, nello studio, si possono anche distinguere ma che, nella pratica, si pre-
sentano simultaneamente intrecciate.
Il sapere pratico che – dando voce ai formatori – abbiamo tentato di rappresen-
tare riguarda specifici dispositivi che i formatori, nella loro esperienza, hanno tro-
vato utile mettere in atto per stimolare apprendimento. Si va dalla cura del senso di
ciò che si fa, alla strutturazione efficace di una lezione, in tutte le sue fasi, alla ge-
stione degli esercizi per lo sviluppo di abilità strumentali, alle attività per aggan-
ciare la matematica e le scienze a problemi reali e lavorativi, alle azioni che con-
sentono di guadagnare sguardi diversi sulla matematica e sulle scienze, ai modi di
impostare le pratiche valutative e di gestire le relazioni con i singoli e i gruppi. Non
si tratta solo di dispositivi articolati e complessi (come, ad esempio, quelle che
molti di loro chiamano “unità di apprendimento in situazione”), ma anche di espe-
dienti e tecniche molto semplici (come, ad esempio, il far uscire alla lavagna, il
controllo dei compiti, il suggerimento di piccoli stratagemmi...) che pure, nel rac-
conto dei docenti, si configurano come modalità spesso raffinate di intervento
didattico, tanto da autorizzarci a parlare della “ricchezza” delle “pratiche povere”.
I racconti offrono spaccati su come l’azione didattica nasca da un pensiero del
docente, gettato in avanti ad esplorare l’azione possibile, ma sempre in movimento
anche durante l’attività, in conversazione con la concreta situazione e con le dina-
miche che avvengono nell’aula1. Spesso infatti i racconti dei docenti intrecciano il
riferimento ai contenuti e alle attività che essi intendevano proporre, e alle convin-
zioni che stanno all’origine di tali scelte, con il riferimento al verificarsi di impre-
visti o di interventi degli allievi che fanno curvare l’azione didattica in un senso
che non era quello prefigurato all’inizio e che pure ha prodotto effetti positivi in or-
dine all’apprendimento.
In particolare, nei racconti dei docenti, possiamo riconoscere i tratti di una di-
dattica ricca e stimolante della matematica e delle scienze, che si alimenta di pro-
1 In questo senso, i nostri formatori possono ben essere definiti professionisti riflessivi (Schön,
1983).
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blemi reali, spesso legati alla pratica lavorativa, ma che non per questo rinuncia ad
aprirsi a quelle dimensioni astratte e concettuali che sono maggiormente proprie
della matematica. Punto focale della didattica dei formatori del CNOS-FAP risulta
essere la centratura sull’esperienza lavorativa, ma non per venire incontro ad una
presunta “debolezza” degli allievi e all’esigenza di un loro recupero sociale, attra-
verso un precoce inserimento nel mondo del lavoro. L’esperienza lavorativa, al con-
trario, è intesa come luogo ricco e sorgivo, in cui si impara a gestire relazioni e a
rispettare regole, si scoprono e costruiscono conoscenze, si esercita responsabilità,
si costruisce con soddisfazione – legata a impegno e sforzo – qualcosa di concreto,
sia questo un oggetto o un servizio ben fatto, e, facendo tutto questo, si impara e si
cresce come persone2.
Alcuni elementi della didattica dei nostri formatori potrebbero apparire, agli
esperti della disciplina (i cosiddetti “disciplinaristi”), come naive, ingenui o super-
ficiali. Alcuni di loro potrebbero obiettare che la matematica dei sensi, la matema-
tica professionale, utile ed amichevole che i nostri formatori si sforzano di presen-
tare non è vera matematica. Ritengo che su questo si debba continuare a riflettere e
che il parere degli esperti della disciplina sia comunque importante da ascoltare3,
perché mantiene vivo l’interrogativo. È vero che, ad esempio, l’apprendimento
della matematica è anche faticoso, richiede impegno, studio, applicazione, sistema-
ticità, e soprattutto è vero che la matematica non può fare a meno del suo carattere
astratto, che inevitabilmente la “disincarna” e la allontana dai problemi reali. Mi
sembra però di poter dire che i racconti dei nostri formatori restituiscano efficace-
mente e concretamente almeno tre aspetti:
– lo sforzo di operare su alcuni presupposti indispensabili dell’apprendimento
(ad esempio, un atteggiamento non ostile nei confronti delle discipline) e di
stimolare l’interesse e il gusto di sapere, senza per questo banalizzare i conte-
nuti disciplinari;
– il tentativo di creare situazioni stimolanti, che consentano agli allievi di assu-
mere su di sé lo sforzo e l’impegno, legati sempre anche alla frustrazione pro-
pria di tutti i percorsi che transitano per prove ed errori, perché se ne intravede
un senso e si arriva a dirsi che ne vale la pena (e del resto, per le cose che piac-
ciono loro, i ragazzi del CFP sono disposti a sopportare una notevole dose di
fatica, e talvolta non la mettono neppure in conto come tale, perché su tutto
prevale un senso di profonda soddisfazione), uscendo così dalla condizione di
2 All’interrogativo che correttamente due studiosi tedeschi si ponevano diversi anni fa se l’inse-
gnamento della matematica nella formazione professionale fosse solo addestramento professionale
(Professional Training) o contribuisse in qualche modo anche alla formazione generale del cittadino
(General Education) (Blum, Strässer 1992), ci sentiamo dunque di rispondere che, almeno nei CFP in
cui si è svolta la ricerca, la risposta pare essere la seconda.
3 Uno dei miei auspici è che, anche a partire da questo lavoro, possa alimentarsi un dialogo pro-
ficuo tra cultori di didattica generale ed esperti di didattica disciplinare, nelle aree esplorate.
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fruitori passivi di conoscenze e ricollocandosi – proprio per l’esigenza di af-
frontare problemi concreti, in specifiche situazioni – nella condizione di esplo-
ratori della conoscenza;
– il tentativo di guidare percorsi che, da una parte, permettano di mettere in pa-
role, di liberare, di formalizzare i saperi che sono impliciti nel fare, incorporati
nella pratica lavorativa ma anche in tante esperienze di vita quotidiana, e che,
dall’altra, consentano di accedere anche a regioni più astratte del sapere mate-
matico e scientifico, là dove, ad esempio, l’astrazione consente di applicare
una regola a tante diverse circostanze o di apportare chiarezza rispetto a situa-
zioni che potrebbero sembrare confuse o di andare al di là di quel che si vede e
si tocca, verso ciò che è universale.
Si tratta di tre elementi che, a mio parere, rendono la loro una didattica di va-
lore, capace di costruire le condizioni perché avvenga effettivamente apprendi-
mento. È utile, a questo riguardo, riportare, alcune riflessioni di Dario Missaglia,
egli stesso insegnante, che, in un libro recente (Missaglia, 2010), racconta anche
della sua esperienza come giudice onorario del Tribunale per i minorenni di Roma.
In questo contesto, presenta il caso di Marco, un ragazzo napoletano minorenne,
sveglio e intelligente ma “cliente abituale” del Tribunale, per via di furti e altri pic-
coli reati, con il quale l’autore aveva avuto modo di entrare in contatto. Ai fini del
nostro discorso, va riportata integralmente la conversazione che l’autore intrattiene
con il minore, proprio sul tema della scuola, e la sua successiva riflessione: «Ri-
cordo un giorno, dopo aver letto il fascicolo denso di relazioni dei servizi sociali,
chiesi a Marco perché avesse abbandonato la scuola. “Perché non ci capivo niente,
giudice”, mi rispose Marco. “Ma tu andavi a scuola, facevi un po’ di sforzo per
stare attento, ascoltare il professore?”, soggiunsi, e lui: “Certo, giudice, io a scuola
ci andavo e all’inizio cercavo pure di ascoltare ma non capivo quello che diceva il
prof. e anche quello che c’era sui libri, non mi diceva nulla”. Lo ascoltavo e cer-
cavo di pensare Marco in una delle tante classi che avevo conosciuto. Certo, che
cosa avrebbe potuto dire un libro di testo a Marco? Che senso avrebbero potuto
avere per lui quelle parole stampate, fatte per i bravi ragazzi con un buon retroterra
culturale? Che cosa avrebbe potuto capire da un docente che fosse andato a scuola
per fare la lezione senza rendersi conto di chi avesse di fronte, della sua storia, di
ciò che aveva imparato dalla vita? Nulla. E infatti Marco si era convinto di non es-
sere fatto per la scuola. Il gioco ancora una volta era riuscito. In realtà era la scuola
a non essere fatta per Marco, a non aver capito che i linguaggi possono essere di-
versi, che si può apprendere in tanti modi, che la vita già trascorsa ha prodotto ap-
prendimenti e valori che vanno scoperti e valorizzati prima di essere lavorati per
obiettivi più alti; che devi partire da quella vita e non da una pagina di libro di testo
per cercare la leva su cui attivare una motivazione ad apprendere. E invece no: se
stai negli schemi della scuola sei promosso, diversamente la scuola non è per te e tu
ti convincerai di non essere fatto per la scuola» (Missaglia, 2010, pp. 88-89).
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Ora, molti dei ragazzi che popolano i CFP in cui abbiamo svolto la ricerca
sono (stati) convinti di non essere fatti per la scuola4. Ci sentiamo di dire che, nei
docenti che abbiamo intervistato, questi ragazzi incontrano il volto di una scuola
che cerca di adattarsi a loro, alle loro esigenze, alle loro storie, alle loro varie intel-
ligenze e, in particolare, alla loro sensibilità orientata verso il concreto; incontrano i
tratti di un contesto formativo in cui si sa che si può imparare molto anche dalla
vita, che anche la messa in atto del pensiero può dare da pensare e che c’è una via
di accesso al pensiero che passa prevalentemente attraverso l’esperienza e in parti-
colare attraverso il lavoro.
Gli elementi che emergono come caratterizzanti l’agire di questi docenti dav-
vero capaci non sono ovviamente da vedere come “ricette” immediatamente appli-
cabili ad altri contesti, ma come indicazioni e suggerimenti che costruiscono il
repertorio di una comunità di pratica, dal quale ciascuno può attingere ciò che è
utile e fattibile nel proprio contesto.
Un’ultima considerazione può essere fatta sul processo stesso della ricerca. In
questo percorso, i formatori sono stati guidati ed aiutati a mettere in parola il loro
sapere pratico che, proprio perché tale, non è sempre facilmente esprimibile in
forma verbale e dunque comunicabile5. Nel far questo, hanno potuto cogliere l’ana-
logia che esiste tra questo processo e ciò che essi stessi sono chiamati ad operare
con i propri allievi: accompagnarli a mettere in parola i saperi e i valori che sono
implicati in ciò che fanno, nel momento in cui si confrontano con situazioni sfi-
danti e tentano di rispondere ad esse in modo congruente e flessibile (cfr. Pellerey,
2010). Da questo punto di vista, per coloro che hanno partecipato, ma forse anche
per alcuni dei lettori, la riflessione sul processo stesso della ricerca, e in genere su
quanto vissuto nella propria esperienza di formatori, può indicare una via didattica-
mente feconda e percorribile con i ragazzi che frequentano i CFP, e non solamente
con loro.
4 Non voglio qui indulgere ad un’immagine che lega la formazione professionale iniziale alle
zone del disagio e la ammette solamente come misura per contrastare la dispersione. L’esperienza
di altri paesi europei (cfr., da esempio, Gay, Nicoli, 2008) dimostra che ci possono essere percorsi di
formazione professionale che giungono a traguardi molto elevati in termini di apprendimento.
5 Sulla dimensione tacita e personale del sapere pratico, il riferimento obbligato è a Polany,
1990, ma ancora una volta anche a Schön, 1983.
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INDICE
1. SOMMARIO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3
1. LA RICERCA VA A SCUOLA (L. Mortari) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5
1. Principio di utilità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5
2. Il principio di realtà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7
3. Il principio dell’ascolto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9
4. Il principio del rispetto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 10
5. Riferimenti bibliografici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11
2. IL PERCORSO DELLA RICERCA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13
1. I partecipanti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14
2. Il gruppo di ricerca . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15
3. Le fasi della ricerca . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15
3.1. L’osservazione etnografica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 16
3.2. Le interviste . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17
3.3. La raccolta di materiali elaborati dai docenti e dai CFP . . . . . . . . . . . . . 19
3.4. I Focus group realizzati nell’estate 2008 (FGMat1, 2 e 3) . . . . . . . . . . . . 19
3.5. La raccolta di dati integrativi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 20
3.6. La stesura e la consegna di un primo Report provvisorio . . . . . . . . . . . . . 21
3.7. Il FG realizzato nell’estate del 2009 (FGMat4) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21
3.8. Il ritorno sull’analisi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23
3.9. Il FG realizzato nell’autunno del 2009 (FGMat5) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23
3.10. L’analisi dell’intero corpus dei dati raccolti e la scrittura del Report finale 24
3. I RISULTATI DELLA RICERCA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27
1. Esplorare il vissuto dei ragazzi nei confronti della matematica . . . . . . . . . . 29
1.1. “Mi presento...”, “Io e la matematica” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 30
1.2. Far diventare la “matematica” “calcolo professionale” . . . . . . . . . . . . . . 32
2. Fornire ragioni per impegnarsi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 34
2.1. Rispondere alla domanda: “A cosa serve?” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 34
2.2. Far sperimentare che la matematica allarga il pensiero . . . . . . . . . . . . . . 38
2.3. Far incontrare testimoni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 40
2.4. Far recuperare le conoscenze di base . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 41
2.5. Quando ciò che muove è l’affetto che lega all’insegnante . . . . . . . . . . . . . 43
3. Organizzare la lezione in modo efficace e flessibile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 45
3.1. Curare l’avvio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 46
3.1.1. Creare il clima e l’aggancio relazionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 46
3.1.2. Inquadrare l’argomento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 47
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3.1.3. Riprendere il filo rosso del percorso, facendo fare il “riassunto della
puntata precedente” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 48
3.1.4. Agganciare conoscenze pregresse . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49
3.1.5. Inserire qualche elemento spiazzante . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49
3.1.6. Curare lo spazio all’interno dell’aula . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51
3.2. Prestare attenzione alla qualità della comunicazione . . . . . . . . . . . . . . . . 52
3.2.1. Curare la chiarezza espositiva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 52
3.2.2. Valorizzare il contatto visivo e variare il tono di voce durante la spie-
gazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 54
3.2.3. Utilizzare supporti diversi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 55
a. Video e immagini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 55
b. Software e rete . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 56
3.2.4. Schematizzare alla lavagna e far schematizzare sul quaderno i conte-
nuti essenziali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 58
3.3. Variare le attività . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 61
3.3.1. Adattarsi alla specificità del gruppo e della situazione didattica . . . . 61
3.3.2. Dosare bene i tempi, alternando momenti di spiegazione a momenti
di attività . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 62
3.3.3. Inserire qualche stacco durante la lezione: le attività “per prendere
fiato” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 63
3.3.4. Utilizare la leva del gioco . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 64
a. Gare e concorsi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 65
b. Le olimpiadi matematiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 68
c. Sudoku e dintorni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 69
d. Il gioco del monopoli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 69
3.4. Coinvolgere il corpo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 70
3.4.1. Farli muovere e provare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 70
3.4.2. “Traffico di mani”: studiare le molecole lavorando con il pongo . . . 71
3.4.3. Rendere “visibili” e “manipolabili” i concetti . . . . . . . . . . . . . . . . . 71
3.5. Differenziare il lavoro all’interno del gruppo classe . . . . . . . . . . . . . . . . . 74
3.5.1. Cogliere le differenze . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 75
3.5.2. Potenziare l’autostima curando la relazione e fornendo un supporto in-
dividuale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 76
3.5.3. Differenziare le consegne di lavoro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 81
3.5.4. Organizzare momenti di apprendimento libero ed autonomo: la tesina 82
3.5.5. Far fare l’esperienza di insegnare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 83
3.6. Far apprendere in/il gruppo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 84
3.6.1. Proporre lavori di gruppo con distribuzione di ruoli . . . . . . . . . . . . . 84
3.6.2. Proporre forme di tutoraggio tra pari, prevalentemente a coppie . . . 88
3.7. Concludere la lezione in modo colloquiale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 90
4. Far fare esercizi intelligentemente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 90
4.1. Far lavorare alla lavagna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 91
4.1.1. Far “venir fuori” alla lavagna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 91
4.1.2. Far innanzitutto osservare e solo dopo scrivere “cosa vedono” . . . . 92
4.1.3. “Ripescare”: quando l’esercizio alla lavagna serve per potenziare . . 95
4.1.4. Indicare piccoli stratagemmi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 96
4.2. Partire da un esercizio e giungere alla regola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 96
4.3. Mostrare tutti i passaggi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 98
4.4. Far descrivere a parole proprie l’esercizio eseguito . . . . . . . . . . . . . . . . . 99
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4.5. Far tenere uno o più quadernoni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 100
4.5.1. Quando il quaderno diventa “libro di testo” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 100
4.5.2. Far scrivere una sintesi personale delle regole principali . . . . . . . . . 102
4.6. Mettere a disposizione un repertorio di esercizi graduati per livello di diffi-
coltà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 102
4.7. Far costruire esercizi per i compagni imparando a “giocare” con i numeri 104
5. Agganciare i concetti matematici a problemi reali e a possibili utilizzi pratici 104
5.1. Frequentare il laboratorio e interagire con gli allievi quando sono all’opera 105
5.1.1. Costruire sinergia tra insegnamenti di area culturale e insegnamenti di
area tecnico-professionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 105
5.1.2. Essere presenti in laboratorio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 107
5.1.3. Far fare – o valorizzare – le esperienze laboratoriali per “far vedere”
i concetti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 108
5.1.4. Non cose diverse ma in modo diverso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 112
5.2. Agganciare l’esperienza pratica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 113
5.2.1. Dalla pratica alla teoria e viceversa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 113
a. Partire da esempi vicini alla loro esperienza e ai loro interessi . . 114
b. Partire da fenomeni chimici o fisici e farne cogliere la struttura
sottostante . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 115
5.2.2. Fare riferimento alla “matematica di tutti i giorni” . . . . . . . . . . . . . 118
a. La matematica economica e finanziaria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 121
b. La matematica statistica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 125
c. La matematica in cucina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 126
5.2.3. Lavorare per problemi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 127
a. Focalizzare l’attenzione sulla soluzione di problemi, possibilmente
posti da loro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 127
b. Partire da problemi concreti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 128
c. Accompagnare nella ricerca della soluzione . . . . . . . . . . . . . . . . 130
d. Tradurre gli esercizi classici in problemi concreti . . . . . . . . . . . . 133
5.2.4. Legare anche i percorsi di fisica e chimica ad aspetti attuali e profes-
sionali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 134
a. Esempio: la birra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 135
b. Esempio: i controllori dell’igiene . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 137
c. Esempio: il faro della bicicletta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 138
5.3. Fornire strumenti matematici per risolvere problemi lavorativi in team . . 138
5.3.1. Agganciare i concetti matematici a problemi che gli allievi possono
incontrare nel contesto lavorativo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 138
5.3.2. Costruire unità di apprendimento centrate sulla realizzazione di capo-
lavori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 142
a. Progettare unità di lavoro nelle quali tutte le discipline convergano
alla realizzazione di un prodotto significativo . . . . . . . . . . . . . . . 142
b. Far calcolare “costi e ricavi” e preventivi dei capolavori che rea-
lizzano in laboratorio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 150
5.4. Orientare a mettere in parola l’esperienza pratica . . . . . . . . . . . . . . . . . . 152
5.4.1. Superare un’operatività priva di pensiero . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 152
5.4.2. Il metodo delle approssimazioni successive . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 157
5.4.3. Tradurre l’esperienza pratica in “linguaggio matematico” . . . . . . . . 159
6. Far guadagnare sguardi diversi sulla matematica e le scienze . . . . . . . . . . 163
6.1. Introdurre alla storia della matematica e del sapere scientifico . . . . . . . . . 164
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6.1.1. Avvicinare i sistemi di misurazione di altre civiltà e la storia della ma-
tematica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 164
6.1.2. Far conoscere la storia del pensiero matematico e scientifico . . . . . . 165
6.2. Avvicinare la matematica raccontata dalla letteratura o rappresentata nelle
arti figurative . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 167
7. Valutare per far apprendere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 168
7.1. Proporre test di ingresso per capire la situazione di partenza . . . . . . . . . . 168
7.2. Monitorare attentamente l’andamento del percorso . . . . . . . . . . . . . . . . . 169
7.3. Comunicare previamente e chiaramente i criteri di valutazione . . . . . . . . 169
7.4. Preparare bene il/al compito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 170
7.4.1. Assegnare esercizi simili a quelli che si troveranno nel compito . . . 170
7.4.2. Programmare i compiti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 171
7.4.3. Il ripasso “richiesto” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 171
7.5. Incoraggiare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 172
7.5.1. Aiutare a superare l’“Io non ci riesco!” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 172
7.5.2. Calibrare le prove per far fare esperienze di successo . . . . . . . . . . . 175
7.5.3. Strutturare la prova . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 176
7.5.4. Articolare le dimensioni da valutare, fornendo diversi ambiti in cui
mostrare il meglio di sé . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 177
7.5.5. Assegnare “insufficienze reversibili” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 177
7.5.6. La valutazione attivante . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 177
7.6. Stimolare all’autovalutazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 179
7.7. Far preparare agli allievi i quesiti di una prova di matematica (lasciando
spazio alla creatività) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 182
7.8. Proporre la verifica in laboratorio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 184
7.9. Organizzare prove autentiche centrate su compiti reali . . . . . . . . . . . . . . . 185
7.10. Curare la restituzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 188
8. Costruire una relazione significativa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 189
8.1. Valorizzare la leva della relazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 190
8.2. Il buongiorno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 192
8.3. Costruire un patto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 192
8.4. Far toccare con mano le regole (non solo quelle matematiche) . . . . . . . . . 193
8.5. Definire il proprio ruolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 196
8.6. Costruire situazioni di incontro a tu per tu: la talking-card . . . . . . . . . . . . 198
8.7. Aiutare i propri allievi a dar corpo alle loro idee . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 199
8.8. Coltivare e comunicare passione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 200
4. CONCLUSIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 201
5. BIBLIOGRAFIA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 205
INDICE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 209
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Pubblicazioni 2002-2011
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Tip.: Istituto Salesiano Pio XI - Via Umbertide, 11 - 00181 Roma
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Maggio 2011
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Natura:
cartacea